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domenica 8 luglio 2018

SOVRANITÀ E POPULISMO di Alfredo D’Attorre

[ 8 luglio 2018]



Abbiamo sempre creduto e crediamo che malgrado la sua deriva globalista e anti-patriottica la sinistra italiana sia anche un serbatoio di energie e intelligenze di cui il nostro Paese non potrà fare a meno quando suonerà la campana della vita o della morte come nazione sovrana e come repubblica democratica. Se la gran parte della sinistra è uscita di senno dopo le elezioni del 4 marzo e davanti alla nascita del governo M5s-Lega, altri ragionano o provano a ragionare. Uno di questi esempi è Alfredo D'Attorre. Egli respinge l'anatema contro "sovranisti" e "populisti" e chiama ad un profondo ripensamento delle categorie per leggere le dinamiche del presente. Bene. Male invece che quando deve proporre la sua visione alternativa D'Attorre, in modo del tutto simile a Fassina, propone «un europeismo di nuovo conio, un europeismo costituzionale».
Un modo di stare in mezzo al guado. Un'illusione che ha le gambe corte....


*  *  *
Sovranità non è una parola maledetta
Di Alfredo D’Attorre 


Il voto del 4 marzo 2018 ha avuto un duplice e micidiale significato per tutte le forze variamente collocate a sinistra. Vi è il dato quantitativo, che segnala il peggior risultato di un’intera area in tutta la storia repubblicana, e vi è un dato qualitativo, caratterizzato dal definitivo mutamento della composizione geografica e sociale del voto a sinistra, con un andamento sorprendentemente parallelo, che riguarda PD, LeU e perfino Potere al Popolo. I risultati migliori vengono ottenuti nei centri delle aree urbane, connotati da più alti livelli di reddito e di istruzione, mentre nelle periferie e nelle aree interne, dove è più forte e concentrato il disagio sociale, le percentuali si inabissano abbondantemente sotto la media.

Questa comune composizione sociale nelle diverse espressioni del voto a sinistra (che per la verità porta a compimento un trend avviatosi a partire dagli anni Novanta) fa emergere un elemento clamoroso e impensabile, se raffrontato all’asprezza delle divisioni in questo campo e al livello di conflitto fra i gruppi dirigenti. Le differenze di programma e di posizionamento, che sono state vissute come profonde e insuperabili da un’area più politicizzata, semplicemente non sono state colte dalla stragrande maggioranza di quei ceti popolari e di quel mondo del lavoro che pure queste forze si proponevano di rappresentare. In questa parte di elettorato, che si è orientata in gran parte su M5S e Lega, evidentemente sono prevalse una rappresentazione e un rifiuto comune delle forze della sinistra, in modo così netto da surclassare la percezione delle sue articolazioni e polemiche interne.

I tre tratti distintivi e unificanti del modo in cui la sinistra è stata percepita nei ceti popolari sono facilmente individuabili: essa è stata identificata come la parte politica schierata con l’Europa senza se e senza ma, a favore dell’immigrazione e delle politiche di accoglienza, a sostegno dell’ampliamento dei diritti e delle libertà civili. Questi tre elementi, che sono diventati il tratto unificante del progressismo nelle sue diverse declinazioni (dalla sinistra liberal-liberista a quella socialdemocratica fino a quella antagonista), hanno oscurato ogni altro elemento di carattere economico-sociale e hanno prodotto la percezione di una distanza siderale dalla natura delle domande che l’elettorato popolare ha espresso il 4 marzo.

La sinistra è rimasta inchiodata al mantra della società aperta, nobile e qualificante sul piano culturale, ma del tutto insufficiente a cogliere le istanze profonde che salivano dalle viscere della società italiana dopo la più devastante crisi economica del dopoguerra. Sul piano della rappresentazione simbolica, che come sempre ha contato ben più del dettaglio delle proposte programmatiche, la sinistra è rimasta così imprigionata dentro la bolla del politicamente corretto. Ciò le ha consentito di parlare solo a quella parte della società al riparo da problemi economici stringenti, che si è potuta permettere di decidere il voto testimoniando valori e preferenze di ordine culturale. In termini di radicamento sociale, lo spiazzamento è talmente profondo che non si può pensare di uscirne con aggiustamenti al margine e con la pure inevitabile sostituzione dei gruppi dirigenti. Se le diverse forze della sinistra vogliono uscire dal perimetro sociale in cui sono rinchiuse, occorre un vero e proprio cambio di paradigma, una discontinuità nello stesso vocabolario concettuale.

Si pensi, ad esempio, alle parole con le quali PD e LeU, sia pure con diverse proposte programmatiche, hanno provato a stigmatizzare la posizione delle forze poi risultate vincitrici: populismo, sovranismo, protezionismo. Si può discutere se questi termini abbiano un significato determinato, certo è che con questo vocabolario è molto difficile intercettare il voto di un popolo che si sente abbandonato e tradito dall’establishment, che reclama voce politica, ossia sovranità, rispetto a luoghi di decisione percepiti come sempre più distanti e opachi, e che chiede nuove forme di protezione economica a fronte dei guasti di una globalizzazione sregolata. Adoperando con disprezzo parole la cui radice è popolo, sovranità, protezione, la sinistra non ha semplicemente rifiutato le risposte di Lega e M5S, ma ha negato alla radice le domande stesse che sono state espresse dall’elettorato popolare. È stato peraltro osservato che populismo e sovranismo sono ormai parole passe-partout, che le élite adoperano per squalificare preventivamente tutte le posizioni non immediatamente compatibili con l’attuale ordine economico.

Al di là di questo, la questione della sovranità democratica è particolarmente delicata, o almeno dovrebbe esserlo per una sinistra che si richiama a ogni piè sospinto (ultimamente anche da parte di autorevoli esponenti del PD) al valore della Costituzione repubblicana e dei principi scolpiti nei suoi primi articoli. Il primo di questi principi è quello della sovranità popolare, affermato nello stesso primo articolo che fonda la Repubblica democratica sul lavoro: lì viene affermato un nesso strettissimo fra autodeterminazione democratica e diritti del lavoro. Proprio quel nesso che i ceti popolari oggi avvertono essere stato strappato e la cui riaffermazione affidano alle forze cosiddette “populiste”, ritenendo la sinistra ormai schierata dalla parte delle élite cosmopolitiche che diffidano delle decisioni prese a livello nazionale. Dopo l’urto della crisi i ceti popolari esprimono un nuovo bisogno di comunità e di protezione, chiedono un potere democratico che torni a rispondere alle loro esigenze, e non solo alle compatibilità fissate dall’Europa e dalla finanza globale, ma trovano solo la risposta regressiva e talora xenofoba di Lega e M5S, perché la sinistra, in tutte le sue articolazioni, sembra accettare acriticamente l’equazione fra sovranità e nazionalismo. Come se la sovranità popolare, in quanto diritto di una comunità politica di autodeterminare le proprie condizioni fondamentali di vita, non fosse irrinunciabile anzitutto per quella parte politica che dovrebbe essere più ostile alla dittatura ideologica del TINA (There is No Alternative).

Qui si pone il tema cruciale della ricostruzione dei poteri di intervento economico dello Stato. Dopo il crollo del socialismo reale, gran parte della sinistra italiana ha trovato nell’europeismo una sorta di nuovo mito fondativo. Il punto è che l’Europa reale costruita da Maastricht in poi si è rivelata distante dall’utopia di Ventotene non meno di quanto il socialismo reale lo sia stato da quello immaginato da Marx. Il disegno di integrazione è stato portato avanti non per costruire una sovranità europea in grado di offrire alla politica democratica strumenti di intervento più efficaci sull’economia, ma con esiti assolutamente opposti. C’era qualcuno che lo aveva capito fin dal principio: basta rileggere, ad esempio, le pagine del diario di Guido Carli, all’epoca ministro del Tesoro italiano, scritte subito dopo la firma dei Trattati che avviano il percorso verso la moneta unica: 
«L’Unione Europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di quest’ultimi».
Si può dubitare sul fatto che il nuovo patto si sia rivelato favorevole ai cittadini, ma per il resto la descrizione puntuale di ciò che sarebbe avvenuto nei venticinque anni successivi è piuttosto impressionante. Così come è evidente lo scarto fra questo modello economico-sociale e quello disegnato nella prima parte della Costituzione. Per gran parte della sinistra italiana e continentale l’ancoraggio al disegno europeo e alla nobiltà storica delle sue motivazioni è diventato prevalente rispetto alla praticabilità di politiche di segno sociale e keynesiano. Anziché rendere il suo europeismo compatibile con una ispirazione autenticamente socialista, la sinistra riformista ha accettato di convertirsi alla Terza via blairiana e clintoniana, approdando a un europeismo liberale che ha progressivamente cambiato la sua base sociale. Su un altro versante, la sinistra radicale ha anch’essa sostanzialmente accettato la narrazione neoliberale della fine dello Stato, inseguendo la suggestione di un’attivazione su scala europea e globale dei movimenti di rivolta e di emancipazione. Di qui la comune avversione verso qualsiasi forma di sovranismo, pure se declinata in chiave democratica e costituzionale, con il brillante risultato di consegnare a una nuova destra, di impianto non più solo liberista e thatcheriano, la bandiera della sovranità popolare e della critica alla natura opaca e tecnocratica della governance europea. Ora non si tratta certo di inseguire questa nuova destra sul suo terreno o di vagheggiare illusorie scorciatoie di uscita dall’Unione europea o dall’euro. È il momento però di dotarsi di un nuovo apparato concettuale e di un nuovo linguaggio, che consentano di riproporre in termini moderni e credibili un ruolo attivo dello Stato nell’economia. Si può mantenere l’orizzonte ideale di una sovranità democratica europea, ma non si può pensare di riguadagnare la fiducia dei ceti popolari solo sulla base di questo sogno e dell’idea che fino alla sua realizzazione le democrazie nazionali siano condannate all’impotenza o all’irrilevanza.

Se la sinistra non riuscirà a fare i conti con il nucleo di verità che sta dietro il successo dei cosiddetti “populisti”, non sarà il loro fallimento al governo del paese a restituirgli automaticamente uno spazio. È il tempo allora di un europeismo di nuovo conio, un europeismo costituzionale, che non rinunci a un grande disegno di pace e di cooperazione tra i popoli europei, ma che sia più compatibile con il dettato della Costituzione e che nutra più fiducia nella capacità di autogoverno del nostro paese oltre la costrizione del vincolo esterno.

* Fonte: ItalianiEuropei

giovedì 27 ottobre 2016

PATRIOTTISMO PROLETARIO O COSMOPOLITISMO BORGHESE? di Lelio Basso

[ 27 ottobre ]

«Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare con il quale si giustificano si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale».
Lelio Basso

Il compagno Alfredo D'Attorre scrive che la sinistra deve "chiedere scusa per aver voluto l'euro". Vale la massima: non è mai troppo tardi.
Tuttavia non la dice tutta, e ciò è sintomatico. La sua è una critica zoppa, che pecca di economicismo, che non vuole riconoscere l'enorme dimensione politica del problema. Non dice infatti che la sinistra dovrebbe fare mea culpa anzitutto per aver sostenuto L'Unione europea, di cui l'euro è solo una protesi. 
Perché non lo fa? Perché è ancora prigioniero della narrazione europeista, a sua volta precipitato storico-ideologico del cosmopolitismo —abbracciato dalle classi dominanti europee, sotto la spinta di quella americana, dopo la fase dei nazionalismi fascisti e imperialisti.

Le sinistre, questo è quello che D'Attorre si ostina a non vedere, accettarono l'euro in quanto già prima avevano introiettato il discorso ideologico cosmopolitico —non solo spinelliano, ma su questo, sul peso ben più determinante di certi cenacoli imperialisti come quello di Kalergi, ci torneremo su), ritenendo che il cosmopolitismo imperialista fosse compatibile con la tradizione dell'internazionalismo di matrice marxista. 
Il mostro bastardo che ne è venuto fuori l'ho chiamato cosmo-internazionalismo.
D'Attorre ci dice poi che l'avallo all'euro ha riguardato tutta la la sinistra, tranne "isolate eccezioni" (tra cui noi, voglio supporre).
La questione che va posta è allora la seguente: mancava a queste sinistre un retroterra teorico e programmatico per poter evitare l'abbraccio mortale del cosmopolitismo in salsa europeista?
No! Non mancava affatto. 
L'adesione al disegno cosmo-europeista è stato piuttosto uno scandaloso tradimento delle proprie basi programmatiche e strategiche. Del proprio stesso Dna.

Qui ve ne vogliamo portare la prova, anzi mostrarvi la "pistola fumante".
Il discorso che Lelio Basso, uno dei padri costituenti, antifascista e dirigente socialista (manco comunista, socialista!) svolse in Parlamento il 13 luglio del 1949, in merito al primo atto di nascita di quella che poi sarà l'Unione europea — l'Accordo per la costituzione del Consiglio d'Europa, firmato a Londra il 5 maggio del 1949.
Ne riportiamo alcuni stralci dove Basso critica come strumentale e antipopolare la conversione cosmopolitica delle classi dominanti, denuncia la natura imperialistica del nascente europeismo e rivendica invece il patriottismo democratico, la difesa della sovranità nazionale e la missione nazionale della classe proletaria.

Consigliamo caldamente di leggere TUTTO IL DISCORSO di Lelio Basso

Moreno Pasquinelli

Lelio Basso
«E’ in questa fase e come strumento di dominazione americana, che nasce e si concreta il progetto francese di Unione Europea, nasce cioè la proposta di una vera Unione Europea con parziali rinunce alle sovranità particolari, e con un proprio parlamento eletto.


(…)

il Consiglio europeo [di cui discutiamo] è uno strumento della politica atlantica, e quindi dobbiamo considerare l’accordo oggi sottoposto alla nostra ratifica come manifestazione di politica atlantica.

(…)

Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista, idealista che deve coprire due realtà brutali: la manomissione economica che l’imperialismo, il grande ca- pitale americano esercita sull’Europa e la politica del blocco occidentale in funzione antisovietica.
Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria in termini ideali, è un mezzo che serve a fare accettare questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte.

(…)

Naturalmente, perché gli investimenti siano più allettanti,
l’America ha bisogno di grandi mercati e l’interesse che l’America dimostra per le unioni doganali, la pressione che l’America esercita per ottenere un’ Europa unita in questo modo, l’interesse ad annullare le frontiere, non hanno per scopo di creare una terza forza, tra USA e URSS, ma semplicemente attestano il suo bisogno di dominare i mercati dell’Europa, di avere un grande spazio a sua disposizione, per poter governare meglio e più economicamente il dominion europeo. Hitler faceva la stessa politica e la chiamava Gleichschaltung. Di tutto ciò noi troviamo anche un’eco nei congressi dei federalisti, dove tanta brava gente applaude a mozioni in cui si parla indifferentemente dei diritti della personalità umana e della libera circolazione delle merci, e si vuole  intendere naturalmente la libera circolazione delle merci americane o fabbricate da industrie che siano sotto il controllo del capitale americano.

(…)

I due termini, Unione europea e dominio del capitale americano, coincidono.

(…)


Un’Europa che cammina su questa strada, un’Europa che tende ad unificarsi in funzione del capitale americano, è un’Europa che tende a far sparire, che tende a distruggere le piccole e medie industrie; che tende a portare all’esasperazione i contrasti di classe, e a far sentire sempre più la pressione brutale del capitale finanziario monopolistico. La lotta di classe non può che venirne accresciuta, e non può che accrescersi la disoccupazione, che accompagna sempre i fenomeni di concentrazione e di cosiddetta razionalizzazione dell’industria. Ma la piccola e la media borghesia ne sarebbero anch’esse inesorabilmente schiacciate.

(…)

Ed anche quella decadenza del Parlamento, di cui si è parlato molto in questi ultimi tempi qui da noi, è in funzione di questi fenomeni. I grandi trusts e i grandi monopoli preferiscono risolvere i grossi problemi dell’economia, della finanza e della politica nel chiuso dei consigli d’amministrazione e dei gabinetti dei ministri. Che cosa sanno, per esempio, oggi, il proletariato inglese e americano, che cosa sa lo stesso parlamento inglese della reale portata degli enormi conflitti di interessi che si nascondono dietro la lotta fra sterlina e dollaro?
Abbandoniamo quindi questa illusione di una Unione europea in funzione di terza forza! Noi sappiamo che ogni passo avanti che si fa verso questa cosiddetta unione è un passo avanti sulla via dell’assoggettamento dell’Europa al dominio del capitale finanziario americano ed è altresì un passo avanti verso la formazione di una piattaforma europea in funzione antisovietica. Ridotta a questa espressione, l’Unione europea somiglia profondamente all’Europa di Hitler: anche allora «Europa in marcia», era una delle espressioni care alla dominazione nazista, così come oggi «Europa in marcia» è espressione cara alla dominazione americana.

So che a questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: ma allora, voi socialisti avete abbandonato 1’internazionalismo, siete diventati i difensori e custodi gelosi della sovranità dello Stato, che è una concezione ormai superata? Ebbene, no: noi siamo fermi più che mai nella nostra posizione internazionalistica: noi siamo sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse: «gli operai non hanno patria», ma Marx ci insegnò altresì che il proletariato deve acquistare la sua coscienza nazionale e che esso l’acquista a misura che esso si emancipa, a misura che esso strappa dalle mani della borghesia l’esercizio esclusivo del potere politico e si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò l’internazionalismo del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l’abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano la propria coscienza nazionale.

In questo senso, oggi, la lotta che combattiamo sul terreno della lotta di classe, la lotta per l’emancipazione del proletariato è un tutt’uno con la lotta per difendere il nostro paese dalla invadenza del capitalismo americano.

I lavoratori che lottano, lottano congiuntamente contro lo sfruttamento di classe e contro lo sfruttamento che di essi pretende fare il capitalismo americano, il quale vuole essere associato al capitalismo nostrano nella spartizione dei profitti ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi lavoratrici.

Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso acquista contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! In altre parole, il movimento operaio si inizia in un’epoca in cui l’operaio è quasi posto al bando della società, in cui l’operaio è  sfruttato fino al punto di essere praticamente escluso da ogni diritto da una classe che in questo modo gli nega veramente l’appartenenza alla patria, in quanto fa dello Stato e della nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del suo dominio e del suo sfruttamento, ma l’evoluzione del movimento operaio porta il proletariato ad inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale per strapparne il monopolio alla borghesia, e fa coincidere sempre più la lotta per l’emancipazione, la lotta di classe con l’acquisto della coscienza nazionale, nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante.

(…)

Ed ecco che noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo, ad un’ondata di cosmopolitismo. Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale.
L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.


Non v’è oggi popolo al mondo che sia più nazionalista del popolo americano. Oggi negli Stati Uniti chi non crede che questo sia il secolo americano, chi non crede che il popolo americano sia il popolo destinato a dominare il mondo, è considerato un non americano ed è messo al bando della vita civile. Eppure questo popolo degli Stati Uniti, questo popolo che in casa sua è il più nazionalista dei popoli della terra, oggi, quando si rivolge ai popoli dell’Europa parlas con affettato dispregio dei pregiudizi nazionali, come di un elemento di arretratezza, e trova subito nei capitalisti europei dei loro servi che sono pronti ad applaudire al cosmopolitismo.

Le stesse borghesie italiane e francesi, che furono per molti anni accese scioviniste, e si trovarono poi con la massima indifferenza pronte a subire la dominazione hitleriana per difendere i propri interessi e privilegi, oggi con la stessa indifferenza e sfacciataggine proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell’europeismo per servire gli interessi del capitalismo americano.
Esse cercano di pervertire con questo veleno il vero sentimento nazionale. Noi possiamo leggere, per esempio, sotto la penna di uno dei più smaccati servitori della borghesia francese di oggi, il Malraux, frasi di questo genere: «L’uomo diventa tanto più uomo quanto meno è unito al suo paese».
Anche la propaganda hitleriana era basata come quella americana di oggi, su questo stesso dualismo. Il popolo tedesco parlava di sè come di un popolo eletto, popolo destinato a dominare il mondo; quando si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa di europeismo».





NOI DI SINISTRA DOBBIAMO CHIEDERE SCUSA PER L'EURO di Alfredo D'Attorre

[ 27 ottobre ]

I
l dibattito sul futuro dell'euro che si è aperto recentemente fra intellettuali ed economisti di sinistra sulle colonne di diversi giornali, tra i quali il Fatto Quotidiano, è una novità positiva. Per chi si professa progressista non dovrebbero esistere tabù e invece l'intangibilità della moneta unica ha rappresentato a sinistra, tranne isolate eccezioni, una sorta di articolo di fede, sottratto al vaglio empirico e a una laica valutazione dei costi e dei benefici. 

Un confronto più razionale sulla sostenibilità economica dell'euro e sulle conseguenze del suo eventuale superamento può aiutare ad aprire un'altra discussione urgente nel campo del centro-sinistra, a maggior ragione se si porrà l'esigenza di una sua riorganizzazione politica e programmatica dopo la sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale. 

IL PUNTO è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del Paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell'ultimo ventennio, ossia l'adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell'euro?

Se gli economisti discutono sulla praticabilità di un'uscita dalla moneta unica, su altri due punti la discussione scientifica è chiusa, nel senso che le evidenze empiriche conducono univocamente nella stessa direzione: Primo: l'euro è stato costruito in una maniera radicalmente sbagliata, funzionale solo agli interessi della Germania e dei suoi satelliti, ha enormemente accresciuto la divergenza e l'ostilità trai popoli europei e si è rivelato incompatibile con una logica di sana cooperazione politica ed economica su base paritaria fra i diversi Stati. Secondo: l'Italia è uno dei Paesi per i quali la scelta dell'euro ha prodotto gli effetti più negativi. 

Basta prendere in considerazione un qualsiasi grafico che illustri comparativamente l'andamento della produttività, della bilancia commerciale, del reddito pro capite o del Pil fra ltalia e Germania prima e dopo l'introduzione della moneta unica per aver un quadro impressionante. Si pensi solo al fatto che ancora nel 2015 l'Italia era l'unico Paese dell'Eurozona, Grecia compresa, in cui il livello del Pil pro capite rimaneva inferiore a quello del 1999, l'anno in cui siamo stati ammessi nella moneta unica e sono stati fissati i cambi tra le diverse valute nazionali.

Di fronte all'evidenza di tale disastro economico e sociale, a cui vanno aggiunti gli effetti sulla qualità della nostra democrazia, le forze progressiste dovrebbero riconoscere apertamente l'errore storico compiuto nell'appoggiare un progetto fallimentare e, ciascuna per la propria parte di responsabilità, chiedere scusa agli italiani. Si tratterebbe, a mio avviso, di un atto politico in grado di riaprire un rapporto con settori della società italiana un tempo vicini alla sinistra e che oggi rischiano di essere consegnati irreversibilmente alla destra xenofoba o all'avventurismo del M5S.

L'ALTRA RIFLESSIONE che si dovrebbe aprire fra gli intellettuali e i politici progressisti, specie tra quelli più impegnati per il No al referendum, riguarda il rapporto fra euro e Costituzione repubblicana.

Se si fa della battaglia referendaria la strada non solo per sconfiggere il renzismo, ma
per restituire alla Costituzione il ruolo di bussola fondamentale dello sviluppo del Paese, è arrivato il tempo di interrogarsi sulla compatibilità fra il progetto di società tracciato dalla Carta costituzionale e quello contenuto nei Trattati europei, su cui il funzionamento della moneta unica si regge. Le famigerate “riforme strutturali' richieste dall'Europa in materia di lavoro, pensioni, sanità, istruzione, risparmio non sono un accidente della storia, ma la diretta conseguenza di un modello economico chiaramente alternativo a quello disegnato nella prima parte della nostra Costituzione e strettamente funzionale al mantenimento della moneta unica.

Decine di studi hanno ormai chiarito che per le economie della periferia dell'Eurozona l'austerità, gli alti livelli di disoccupazione e la conseguente deflazione salariale non sono una condizione transitoria legata a una fase di crisi, ma il presupposto per mantenere le economie di quei Paesi su una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione in cui essi hanno rinunciato al controllo della leva fiscale e di quella monetaria. 
Se non si riconoscono questi dati di realtà, protestare contro la svalutazione del lavoro o invocare il ritorno a un livello di investimenti pubblici incompatibili con i vincoli finanziari della moneta unita significa semplicemente abbaiare alla luna.

PER QUANTO POSSA
considerare difficile e rischiosa l'uscita dalla moneta unica, la sinistra non può più permettersi di considerare l'euro un Moloch sovra-ordinato rispetto ai principi costituzionali. Se la vittoria del No al referendum impedirà un ulteriore svuotamento della sovranità democratica nazionale a vantaggio dei poteri tecnocratici europei e rimetterà al centro della politica italiana la Costituzione a tutto tondo; bisognerà mettere in atto una strategia di resistenza costituzionale rispetto a ogni ulteriore trasformazione economica, sociale e democratica imposta dalla logica di funzionamento della moneta unica. 

Prendere di nuovo sul serio la Costituzione potrà difendere gli italiani dalle conseguenze dell'euro molto più di quanto abbia fatto la classe politica di destra o di sinistra nell'ultimo ventennio.


* Fonte: Il Fatto quotidiano del 26/10/2016



sabato 17 settembre 2016

ITALIA: Chi guiderà l'uscita dall'euro?

[ 17 settembre ]

La seconda giornata del III Forum Internazionale No Euro si è aperta con una tavola rotonda sull'Italia, dal titolo «Chi guiderà l'uscita dall'euro?». 

A presiederla Luciano Barra Caracciolo, giurista; Alfredo D'Attorre, parlamentare di Sinistra Italiana, Sergio Cesaratto, economista; Mimmo Porcaro di Socialismo 2017.
Assente per problemi di salute l'economista Alberto Bagnai, cui rivolgiamo i migliori auguri di pronta guarigione.
Intanto vi lasciamo con il video dell'introduzione.




venerdì 22 luglio 2016

SINISTRA ITALIANA: DALLE "RELAZIONI PERICOLOSE" ALLE RIMOZIONI FATALI di Moreno Pasquinelli

[ 23 luglio ]

Sabato scorso, 16 luglio, Sinistra Italiana (SI), il nuovo partito che dovrebbe nascere sulle ceneri di Sel con l'innesto dei fuoriusciti dal Pd come Fassina e D'Attorre, ha celebrato la sua assemblea nazionale. Un appuntamento importante dopo i deludenti risultati elettorali alle recenti amministrative, segnate anzitutto dall'avanzata del Movimento 5 Stelle (M5S) dallo smacco subito da SI anzitutto a Roma.
Per la cronaca: un primo giudizio su SI noi l'avevamo dato subito dopo il battesimo del febbraio scorso, ovvero Cosmopolitica —un nome un programma.

La batosta elettorale ha lasciato le sue ferite. 300 militanti e dirigenti vendoliani di Sel, capeggiati dal sindaco di Cagliari Massimo Zedda [nella foto in basso] hanno disertato l'assemblea ed hanno anzi chiesto le dimissioni di tutto il gruppo dirigente di Sel, l'azzeramento dell'esperimento di SI, riproponendo la vecchia strada, quella dell'alleanza col Pd. I 300 lo han fatto con un documento al vetriolo che attesta quanto deteriorato sia il clima dentro Sel e quindi SI, coi vendoliani che non solo non accettano lo scioglimento ma sono decisi a riproporre un posizionamento politico di satellite del Pd, "oggi renziano, domani chissà", dicono.

L'assemblea del 16 luglio pare aver sancito una vittoria con largo margine di quella che potremmo definire "ala sinistra" che fa capo alla troika Fratoianni-Fassina-D'Attorre. E' proprio quest'ultimo che ha aperto i lavori dell'assemblea, ammettendo la sconfitta ma ribadendo il discorso, che più o meno suona così: "Il Pd con Renzi ha subito un mutamento genetico, il centro-sinistra è defunto e per farlo eventualmente rinascere occorre dare vita ad un nuovo polo politico (SI appunto), quindi niente alleanza col Pd ma puntare a rappresentare i settori sociali che la crisi ha falcidiato".

Anche sorvolando per amor di patria sulla pornografica nostalgia per il centro-sinistra che fu, salta agli occhi l'insipienza, la debolezza di una simile visione politica.

Ci ha pensato l'ottuagenaria Luciana Castellina, in un suo intervento su il manifesto del 19 luglio, ad aiutarci nel decodificare la visione politica della nascente SI, a fornircene un estratto chimico. 
Dopo aver compiuto una difesa d'ufficio della linea difesa da Fratoianni e D'Attorre, la Castellina, scrive:
«La parvenza di realismo della posizione dei nostalgici del centrosinistra sta nel dire: un altro schieramento governativo oggi non c’è. Il che è assolutamente vero. (...)
Prendere d’atto che per ora non esiste una formula sostitutiva del defunto centrosinistra a livello nazionale —altra cosa sono le istituzioni locali, perché il territorio sta già dando prova di essere ricco di energie e formule inedite di rappresentanza— non rende tuttavia affatto meno credibile il nostro discorso. (...)
Non vuol dire ignorare la necessità di conquistare un ruolo istituzionale e rifugiarsi nella cuccia dell’extraparlamento. Anche questa battaglia può portare frutti corposi: basta con questa ossessione “governista” che delega i risultati solo e sempre a quanto potrebbe fare un governo.
Il vecchio Pci al governo non c’è stato mai, ma sappiamo che quasi tutto quanto di buono abbiamo conquistato è stato merito della sua azione. Anche allora non c’era una prospettiva immediata di governo, ma quel partito è stato efficace perché ha saputo conservare un’ottica di governo ( che è altra cosa), senza chiudersi in sterili minoritarismi. Attrezziamoci a creare le condizioni per ottenere altrettanto, nelle forme adeguate ai tempi presenti».
Col pretesto di criticare la "ossessione governista" dei vendoliani di Zedda, la Castellina ne condivide l'assunto da cui tutto il resto viene: non ci sarebbe oggi in Italia uno schieramento governativo alternativo a quello eurofilo ed oligarchico che fa perno sul Pd. Se i vendoliani da questo assunto ne ricavano che occorre aggrapparsi alla sottana del Pd, i diversamente vendoliani ne deducono che (vedi l'analogia col vecchio PCI) occorre attrezzarsi ad una prolungata e minoritaria traversata nel deserto.

TRE IMPERDONABILI RIMOZIONI

Non perdo tempo a spiegare che l'analogia col PCI non sta né in cielo né in terra. Ma noi siamo di manica larga, vogliamo concedere alla Castellina una clemente licenza poetica. Andiamo al sodo.
Occorre proprio avere la testa fra le nuvole per immaginare che alle prese con quella che è la più grave crisi sistemica della storia di questo paese —in quella che Gramsci avrebbe definito "crisi organica": ovvero economica, sociale, istituzionale, politica e morale— ci siano lo spazio ed il tempo per una lunga e prolungata lotta di trincea o guerra di posizione che consenta ad un piccola minoranza, attraverso una lenta e tenace progressione molecolare, di diventare maggioranza.
Sul lungo periodo, come ebbe ad affermare J. M. Keynes, "saremo tutti morti".
Il tessuto connettivo, economico e sociale del nostro Paese, non può resistere a lungo in queste condizioni. L'Italia, altro che le scemenze berlusconiane di Renzi, va verso uno sfascio di proporzioni incalcolabili. E' senso comune che dal marasma se ne esce con una svolta radicale, e che questa svolta è alle porte. 

Avremo una svolta reazionaria o democratico-rivoluzionaria? Questa è la questione, che invece SI rimuove. E' facile predire che con questa prima rimozione SI non va molto lontano.

Occorre poi essere ciechi per non vedere come, almeno a partire dal 2013 per una parte crescente del popolo lavoratore italiano, quella che noi riteniamo la parte più indignata, sveglia e vitale, un'alternativa di governo esiste, e questa si chiama M5S. 
Come possono, politici di lungo corso come quelli che dirigono SI, non vedere questo fenomeno eclatante? Come possono (controprova fattuale) non vedere le grandi manovre di questi giorni capofila Napolitano che per nome e per conto delle oligarchie euriste si dimenano per sventare un eventuale governo M5S? 

Un gruppo dirigente di una sinistra che si rispetti dovrebbe, se non avesse perso per strada il contatto con la realtà pulsante, vista la situazione del Paese alle soglie dello "Stato d'eccezione", chiamare ad un governo popolare di emergenza, di cui, non c'è dubbio, M5S sarebbe l'arco di volta. Dovrebbe dunque incalzare M5S affinché abbandoni ogni ambiguità politica ("diteci che farete una volta al governo per mettere in sicurezza questo Paese") ed offrire la propria disponibilità ad un'alleanza democratica per sostituire il governo oligarchico imperniato sul Pd e sostenuto dall'euro-oligarchia.

I dirigenti di SI certe cose le sanno bene, anzi le sanno a memoria. Se non avanzano con questa linea politica (fatte salve certe eccezioni dette a mezza bocca da Fassina e D'Attorre) è perché sono prigionieri di una seconda rimozione. Si evita bellamente di fare i conti col fenomeno M5S. 
No, con le rimozioni non si va lontano.

Se poi a queste aggiungiamo il taboo dell'uscita dall'euro e della sovranità nazionale, ovvero la terza rimozione, quella della presa d'atto del fallimento conclamato dell'Unione europea —e qui occorre di nuovo segnalare l'eccezione di Fassina e D'Attorre, che invece, proprio di recente, hanno firmato il manifesto LEXIT per l'uscita dall'euro— abbiamo fatto il pieno, ovvero "il buco col niente intorno", l'abisso della vacuità avrebbe detto Hegel.

Ps

Ernesto Laclau ed il populismo di sinistra

La Castellina ci riferisce che dentro SI si aggira un fantasma:
«All’assemblea di via dei Frentani si è sentita molto spesso l’eco, soprattutto negli interventi dei più giovani, del dibattito che è riemerso sul populismo di sinistra, reintrodotto da Laclau tramite Pablo Iglesias. Anche questo mi pare un tema da affrontare. Capisco la preoccupazione di chi teme un distacco dalle masse popolari, l’intellettualismo di certo sinistrese, il timore che suscita vedere la sinistra vincere solo fra i ceti medi colti e non più nelle periferie. Ma non semplifichiamo troppo questo discorso».
Confessiamo di aver rizzato le orecchie. 
Che qualcosa, nel camposanto della sinistra, si stia effettivamente muovendo? 
Come i lettori sanno noi sosteniamo che quel che ci serve è appunto un "partito populista di sinistra", che recuperi il discorso gramsciano del nazionale-popolare. 
Proprio il 2 e 3 luglio P101 ha affrontato il discorso, in particolare nella sessione "Il nuovo soggetto politico e la questione del populismo", relatori Diego Melegari e l'ospite d'eccezione Manolo Monereo. E sulla stessa lunghezza d'onda come non segnalare il convegno svoltosi a Parma il 25 giugno ed quindi la prolusione di Mimmo Porcaro?

sabato 2 gennaio 2016

"SINISTRA ITALIANA": UNA MINESTRA RISCALDATA di Aldo Giannuli

[ 2 gennaio ]

Severissimo il giudizio di Aldo Granuli sulla Sel 2-0. Sbaglia Giannuli? Giudichino i lettori....

Nei giorni scorsi mi è capitato di assistere, presso il Concetto Marchesi, in Milano, all’affollatissimo incontro con Alfredo D’Attorre che presentava Sinistra italiana. Sala gremita e molto interesse, però devo dire di non aver ricevuto una gran buona impressione della nuova formazione politica, che tanto nuova non mi pare.

A cominciare dallo stile: un oratore ufficiale che parla per oltre un’ora di fila, magari punteggiando con numerosi “ed avviandomi alle conclusioni”, “un’ultimissima considerazione” (dopo di che sproloquia per altri 15 minuti, peraltro continuando a non dir nulla). E’ l’insopportabile cifra stilistica del classico dirigente che ammaestra le masse (che non ascolta mai). Roba vista troppe volte. E peggio ancora se poi infila una serie di castronerie che rivelano che non conosce le cose di cui parla. E passi per la solita tirata onirica su “un altro Euro ed un’altra Ue” (non si può proibire a nessuno di sognare), ma che, nel 2015, qualcuno dica che “occorre battersi perché vengano respinte le direttive europee in contrasto con la Costituzione che deve prevalere”, ignorando

a. che ci sono dei trattati che stabiliscono esattamente il contrario

b. che sin dal 1984 si è formata una costante giurisprudenza costituzionale di segno contrario, che si può anche non condividere, ma che per ora fa testo. E magari, dopo 30 anni, ci si può anche informare.

Ma quello che mi ha peggio impressionato sono stati i silenzi: non ho sentito né la parola “Etruria” né quella “fisco”. C’è stato, si, un rapidissimo passaggio sulla questione delle banche ma quanto di più generico e superficiale si possa immaginare. Sinistra Italiana ha decentemente votato la mozione di sfiducia contro la Boschi presentata dal M5s, ma non mi pare di aver sentito alcuna particolare enfasi nella denuncia delle malefatte di quella banca e dei suoi protettori politici. C’è da chiedersi quale sarebbe stato il comportamento se, al posto della Boschi, ci fosse stato Berlusconi o la Carfagna o la Gelmini.

Ma il punto più dolente è quello del fisco, semplicemente ignorato da D’Attorre che si è profuso in (genericissime) indicazioni sulla battaglia per l’occupazione. Giustissimo, ma, ci fosse stato tempo per il dibattito (reso invece impossibile dal fatto che l’augusto dirigente ha terminato la sua alluvionale esternazione alle otto meno un quarto) gli avrei chiesto “Ma come si fa a produrre più occupazione con questa pressione fiscale?”. Senza una ripresa dei consumi non può esserci alcuna ripresa occupazionale e, se la tasche della gente sono prosciugate dal fisco, come pensate che i consumi possano risalire? Quanto alle aziende, strette nella morsa dei tassi da usura praticati dalle banche e pressione del fisco, è così strano che chiudano a raffica, mettendo centinaia di migliaia di persone in mezzo ad una strada?

Ma la sinistra è convinta che la lotta contro l’eccessivo prelievo fiscale sia una parolaccia, una cosa da lasciare alla destra e se Renzi accenna a qualche demagogica promessa di tagli alle tasse, lo si attacca non perché le sue sono promesse da marinaio, ma perché bisogna battersi per mantenere le tasse sulla casa in nome della lotta ai “ricchi”. Ed, ovviamente, senza che ci sia alcuna azione per colpire le rendite finanziarie.

Penoso, francamente penoso e le premesse per l’ennesima sconfitta di questa sinistra da salotto e da terrazza romana sono già tutte presenti. E’ solo l’ennesima replica di un film visto troppe volte. Auguri!

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