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giovedì 18 ottobre 2018

DIECI RAGIONI CONTRO IL COSMOPOLITISMO di Moreno Pasquinelli

[ 18 ottobre 2018 ]




Dobbiamo occuparci di Carlo Rovelli, fisico teorico e blasonato divulgatore scientifico — in gioventù, come molti, militante d'estrema sinistra. [1] Ma non è di filosofia della scienza che vogliamo parlare bensì di filosofia della storia, quindi politica. Parliamo di un articolo pubblicato per l'inglese The guardian, e che il CORRIERE DELLA SERA ha pubblicato il 31 luglio scorso dandogli un grande risalto. Il titolo è programmatico e apodittico: L'UNICA NAZIONE È L'UMANITÀ. Un trattatello in
 quattro teoremi nel quale egli ricapitola in modo esemplare la visione cosmopolitica dell'ultima borghesia. 




Primo teorema 
«Politiche nazionaliste o sovraniste stanno dilagando nel mondo, aumentando tensioni, seminando conflitti, minacciando tutti e ciascuno di noi. Il mio Paese è appena ricaduto preda di questa insensatezza». 
In poche righe tre proposizioni. 

(1) La prima proposizione è che l'Europa avrebbe conosciuto un cinquantennio di pace grazie al processo che è sfociato nella nascita dell'Unione europea. In verità l'assenza di conflitti — il nostro non prende nemmeno in considerazione quelli sociali e di classe — è stata dovuta all'equilibrio del terrore tra le due superpotenze (USA e URSS), e quindi al fatto che l'Europa occidentale è stata incapsulata nella NATO (che è la piattaforma su cui è nata la Comunità europea prima e la Ue poi). Ed infatti, non appena crollata l'URSS e dissoltosi il Patto di Varsavia, la pace è andata a farsi benedire. Ricordiamo la guerra che ha squartato la Federazione di Iugoslavia coi suoi 250 mila morti, mezzo milione di feriti e centinaia di migliaia di sfollati — con l'Occidente che dopo aver fomentato i nazionalismi balcanici giunse nel 1999 a scatenare un attacco su grande scala contro Belgrado — prima tappa dell'accerchiamento NATO della Russia, culminata nell'appoggio alla "rivoluzione colorata" a Kiev e nella guerra contro il Donbass.

(2) La seconda proposizione suppone che prima della rinascita dei sovranismi il mondo vivesse in pace e armonia. Bugia grandissima! Il quarantennio della globalizzazione neoliberista, con i suoi meccanismi predatori (per non parlare di svariate sciagure sociali e ambientali) ha scatenato guerre in ogni dove, portandosi appresso una sterminata scia di sangue che ha riguardato tutti i continenti. Si chieda agli iracheni cosa pensino dell'esportazione della democrazia a stelle e strisce: 650mila morti, il doppio tra feriti e mutilati, milioni si sfollati. E l'elenco sarebbe lungo, fino all'inenarrabile macello in corso in Siria, anche questo alimentato da quel "faro di civiltà" che è l'Occidente. Solo "Effetti collaterali" della luminosa globalizzazione? E' vero invece quanto affermato dal Papa con efficace rappresentazione: il periodo che ci lasciamo alle spalle è stata null'altro che “Una terza guerra combattuta a pezzi”. 

(3) E veniamo dunque alla terza proposizione. Si tratta di un vero e proprio marchio di fabbrica della narrazione dell'élite globalista (e delle sue appendici sinistroidi) quella per gli stati-nazione per loro natura portano a conflitti armati tra i popoli, con l'addendum che le due guerre mondiali sarebbero il risultato della divisione in stati nazionali. Tesi ridicola quanto ingannevole l'addendum. Che forse prima che gli stati-nazione si affacciassero al proscenio della storia l'umanità non conosceva guerre? ce ne sono invece sempre state, solo che eran guerre tra imperi, tra città-stato, giù giù fino a quelle tribali e claniche. Rovelli, siccome faceva il rivoluzionario, dovrebbe poi avere contezza della categoria di IMPERIALISMO il quale, essendo per sua natura sistema predatorio e guerrafondaio, è prima e vera causa dei conflitti. Le due grandi guerre sono state conflitti tra imperialismi smaniosi di spartirsi il bottino mondiale, ed i nazionalismi erano solo maschere. Se volessimo infine andare alla radice sarebbe facile giungere alla conclusione che in regime capitalistico la pace, il mondo, non la conoscerà mai. 

Secondo teorema
«L'identità nazionale è falsa, è solo uno strato sottile, uno tra tanti altri, assai più importanti. L’identità nazionale è un veleno, mentre noi siamo una combinazione di strati, incroci, in una rete di scambi che tesse l’umanità intera nella sua multiforme e mutevole cultura. Ognuno di noi è un crocevia di identità molteplici e stratificate. Mettere la nazione in primo luogo significa tradire tutte le altre. Non è il potere che si costruisce attorno a identità nazionali; è viceversa: le identità nazionali sono create dalle strutture di potere. Sono narrazioni create consapevolmente per generare un senso di appartenenza a famiglie fittizie, chiamate nazioni. Le identità nazionali non sono altro che teatro politico».
Anche qui abbiamo tre proposizioni.

(4) La prima proposizione consiste in un vero e proprio imbroglio ideologico, per cui tutti i nazionalismi sarebbero maligni, mettendo nello stesso sacco il nazionalismo di un popolo oppresso e quello di un popolo oppressore, i patriottismi di matrice democratica e universalistica coi nazionalismi sciovinisti. Che ogni popolo sia "una combinazione di strati, incroci" ecc, è un'ovvietà. Ma questo che c'entra? Smentisce solo l'idea razzista della nazione e/o la sua versione tedesca di völkisch, della nazione fondata sull'idea della "purezza etnica". Accanto e contro questa concezione, c'è quella democratica della nazione, fondata sul demos includente e non sull'etnos escludente. La concezione propria dei padri nobili e dei martiri del Risorgimento italiano, che con le armi in pugno combatterono per unificare il Paese liberandolo del giogo straniero. Se andasse fino in fondo signor Rovelli dovrebbe condannare, col Risorgimento, tutte le guerre di liberazione dei popoli oppressi per diventare nazioni in quanto fenomeni separatisti "dell'unica famiglia umana", in quanto conflittivi e "velenosamente" identitari. Qualcuno potrà pensare che qui riecheggia il pacifismo irenico di Immanuel Kant, in verità è il suo sporco delle unghie, dato che Kant non si sarebbe sognato di sostenere che "l'identità nazionale è falsa", che sarebbe "solo uno strato sottile, uno tra tanti altri, assai più importanti" — che se poi quella nazionale è uno "strato sottile", figuriamoci quanto è fino quello cosmopolitico.

(5) Ma veniamo alla seconda proposizione, quella per cui "le identità nazionali sarebbero false, fittizie, velenose, teatro politico". Qui dal cielo di Kant si scende alla palude dei filosofi postmoderni per i quali tutto si ridurrebbe a "discorso", a "narrazione", ad ingannevole artifizio ideologico. Vivendo in Francia Rovelli potrebbe dire ad un francese che la Francia è solo una "invenzione", una "famiglia fittizia", che dovrebbe quindi dileguarsi... nell'umanità. Nel migliore dei casi riceverebbe una sonora pernacchia. Le identità nazionali, non solo in Europa, hanno invece profonde radici storiche e, come la storia recente dimostra, compresa la crisi ineluttabile dell'Unione europea, sono dure a morire. E' un fatto oggettivo ed i fatti non solo hanno la testa dura, vanno finalmente spazzando via le teorie per cui i fatti non esisterebbero ma solo "discorsi" e "narrazioni", che tutto quindi sarebbe mera sovrastruttura.

(6) E siamo alla terza proposizione. "Non è il potere che si costruisce attorno a identità nazionali; è viceversa: le identità nazionali sono create dalle strutture di potere". Una tesi, quella per cui le identità nazionali sarebbero tutte mere invenzioni dei dominanti, anche questa falsa, frutto avvelenato di certo filosofare postmodernista e poststrutturalista —da Lyotard a Foucault. Le nazioni possono essere effettivamente creazioni artificiali, è il caso ad esempio di molti stati sorti con la cosiddetta "decolonizzazione". Ciò riguarda senza dubbio il mondo arabo-islamico e l'Africa, dove l'imperialismo occidentale ha tracciato spesso confini e barriere del tutto arbitrarie. Si può dire la stessa cosa della Cina, del Giappone o della Persia? Si può dire, per venire a noi, degli stati nazionali europei? No, non si può dire. In questi casi le identità nazionali dei popoli non sono affatto un prodotto artificiale delle classi dominanti, risultano invece dalla combinazione di numerosi e profondi fattori storico-sociali: economici, linguistici, culturali, religiosi. E ammesso e non concesso che le nazioni siano forme create dai dominanti che vuol dire? Tanti sono i frutti che le classi dominanti ci hanno lasciato in eredità, le arti e le scienze ad esempio; la stessa democrazia moderna e il diritto; dovremmo forse gettarli nel cesso perché non prodotti dalle classi subalterne? Il cosmpolitismo che Rovelli abbraccia con tanta sicumera non è forse un prodotto ideologico della borghesia?

Terzo teorema

«Le intenzioni dei padri fondatori del mio Paese erano buone nel promuovere un’identità nazionale italiana, ma solo pochi decenni dopo questa è sfociata nel fascismo, estrema glorificazione di identità nazionale. Il fascismo ha ispirato il nazismo di Hitler. La passionale identificazione emotiva dei tedeschi in un singolo Volk ha finito per devastare la Germania e il mondo».
(7) Qui abbiamo una proposizione che stabilisce un filo rosso di conseguenzialità tra il patriottismo democratico risorgimentale ed il nazionalismo imperialista del fascismo, quindi col nazismo. Affermazione gravissima, non solo perché mostra una seria ignoranza della storia italiana (il nazionalismo italiano, a partire da Crispi, sorse sulle ceneri del patriottismo democratico sconfitto, che venne parassitato per giustificare l'avventurismo colonialistico), anche perché accoglie e legittima la rappresentazione che il fascismo ha dato della storia d'Italia.

Quarto teorema

«Ma localismo e nazionalismo non sono solo errori di calcolo; traggono forza dal loro appello emotivo: l’offerta di una identità. La politica gioca con il nostro istintivo insaziabile desiderio di appartenenza. Offrire una casa fittizia, la nazione, è risposta fasulla, ma costa poco e paga politicamente. Per questo la risposta alla perniciosa ideologia nazionale non può essere solo un appello alla ragionevolezza, ma deve trovare l’anelito morale e ideologico che merita: glorificare identità locali o nazionali e usarle per ridurre la cooperazione su scala più ampia non è solo un calcolo sbagliato, è anche miserabile, degradante, e moralmente riprovevole. Abbiamo un posto meraviglioso da chiamare «casa»: la Terra, e una meravigliosa, variegata tribù di fratelli e sorelle con i quali sentirci a casa e con i quali identificarci: l’umanità»
Qui, a parte le solite patetiche contumelie contro la nazione, abbiamo tre proposizioni.

(8) La prima proposizione riconosce che i nazionalismi fanno leva sul "nostro istintivo insaziabile desiderio di appartenenza". Quindi Rovelli, pur odiando la forma stato-nazionale ammette che tra le diverse cause storiche che l'han determinata ce n'è una di natura addirittura antropologica. Come diceva Aristotele l'uomo un un animale politico, più precisamente, per dirla con Marx, un essere sociale, per sua stessa natura comunitario.

(9) Con la seconda proposizione Rovelli afferma che non la nazione bensì l'umanità, anzi la Terra, sarebbe la sola "meravigliosa" casa che abitiamo.. E' il noto discorso che noi saremmo anzitutto "cittadini del mondo". Mai moralismo fu più astratto. Non c'è alcun "mondo" di cui si possa essere cittadini. Si è cittadini ove ci sia un demos, un luogo politico determinato ove cioè si esercitano diritti e si assolvono doveri civici. Ciò è possibile solo in seno a determinate comunità storico-politiche, nel caso quelle nazionali, non nel "mondo" il quale, fino a prova contraria ed in barba alla mito cosmopolitico, non è un entità politica, ma un affastellamento di demos nazionali che lungi dall'estinguersi proprio l'ultima globalizzazione spinge al rafforzamento. Una lampante riprova dell'astratto moralismo è che il nostro non tenta neppure di dirci come, rebus sic stantibus, le pie intenzioni cosmopolitiche dovrebbero materializzarsi: come l'umanità dovrebbe politicamente strutturarsi? Su quali basi sociali ed economiche? E quali forze o classi o potenze tirerebbero nella direzione cosmopolitica? Alle spalle del panegirico moralista resta solo l'apologia del presente, la difesa d'ufficio della globalizzazione che, denudata, è la distopia di un unico e totalitario impero mondiale, "meravigliosa e variegata" udite! udite!, "tribù di fratelli e sorelle". Dalla comunità di nazioni ad un consorzio di tribù. Non c'è male! [2]

(10) E quale sia la tribù alla quale il Rovelli sente di appartenere, lo dichiara senza alcun pudore:
«Sono cresciuto all’interno di una determinata classe sociale, e condivido abitudini e preoccupazioni con le persone di questa classe in tutto il pianeta più che con i miei connazionali».
Una confessione abbagliante, che chiude il cerchio. Il Rovelli ammette che si sente anzitutto membro di una tribù, anzi di una classe, quella appunto dell'ultima borghesia globalizzata. Dichiara quindi che con i suoi compari "di tutto il pianeta" condivide "abitudini e preoccupazioni" (leggi interessi e visioni politiche), affinità che invece non sente verso gli sventurati connazionali. Non c'è solo ripugnanza per la sua Patria, qui c'è uno altezzoso disprezzo delle classi subalterne, popolino che abbraccia un sovranismo "miserabile, degradante, e moralmente riprovevole". Il nostro ammette che in questo sovranismo c'è il profondo rancore sociale contro chi sta in alto da parte di chi sta in basso. E non si sbaglia. Gettata la maschera appare quindi in tutta la sua ipocrisia e inconsistenza la pretesa dell'ultima borghesia di essere essa portatrice di un "anelito morale e ideologico" superiore a quello patriottico delle classi subalterne.

Non contrastare il rancore di chi sta in basso, ma alimentarlo e trasformarlo in coscienza politica, in carburante del mutamento, questo è il compito di chi voglia davvero cambiare l'ordine di cose esistenti.

NOTE

[1] Numerosi i suoi libri in cui Rovelli, cimentadosi con epistemologia e filosofia della scienza, tenta di spiegare al lettore i misteri, le diavolerie, ed i veri e propri sortilegi della fisica quantistica e postquantistica. Noi abbiamo letto le sue Sette lezioni di fisica L'ordine del tempo, e tanto ci è bastato: un ritorno, per quanto camuffato, all'immaterialismo teologico del vescovo anglicano George Berkeley, nominalista radicale per il quale la materia non esiste, è solo un'illusione, al pari dei concetti di universale e di sostanza.

[2] Qui, vale la pena ricordarlo a chi fa confusione, vien fuori la distanza siderale tra l'utopismo cosmopolitico e l'internazionalismo di matrice marxista. Certo, anche Marx propugnava una futura repubblica socialista mondiale ma, primo, riteneva che essa sarebbe potuta sorgere solo sulle ceneri del capitalismo e, secondo, non si è mai sognato di sottovalutare la centralità dei fattori nazionali nella lotta rivoluzionaria. "Proletari di tutto il mondo unitevi" non è la medesima cosa che "cittadini di tutto il mondo amatevi".
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martedì 7 agosto 2018

SULLA PATRIA di Giuseppe Mazzini

[ 7 agosto 2018 ]




Il patriota Giuseppe Mazzini [nella foto] non fu socialista, detestava anzi l'idea della lotta di classe, ma fu un fervente repubblicano e democratico conseguente, per questo, uscito sconfitto dal Risorgimento, al pari di Carlo Cattaneo, non riconobbe mai l'Italia unificata e monarchica e morì, come altri rivoluzionari, in esilio. Tuttavia la monarchia sabauda e le élite dominanti riuscirono nell'operazione di utilizzazione e trasvalutazione della sua figura. Quando l'Italia, con Crispi, si lanciò nelle disastrose imprese coloniali in africa ("Italia sesta potenza") Mazzini venne usato come maschera per giustificare l'espansionismo per sottomettere altri popoli. Alle porte e durante la Grande Guerra, furono pochi gli interventisti (Salvemini) che tentarono di servirsi della figura Mazzini per camuffare la partecipazione al macello imperialistico come "quarta guerra d'indipendenza" — il grosso dell'interventismo era infatti per natura anti-mazziniano, in quanto smaccatamente anti-democratico, guerrafondaio e imperialista. Su questo solco anche il fascismo-regime lo considerò un cane morto, per poi riutilizzarlo cinicamente durante la tragicommedia della Repubblica sociale italiana.
Presentiamo al lettore alcuni brani sul concetto di Patria e di nazione del Mazzini. Utili per comprendere la natura non nazionalistica, internazionalistica e democratica, quindi antifascista del suo PATRIOTTISMO.


«Adoro la mia patria, perché adoro la Patria; la nostra libertà, perch'io credo nella Libertà; i nostri diritti, perché credo nel Diritto».
Ai Signori Rodbertus Von Berg e L. Bucher, 30 marzo 186, in Scritti editi e inediti, vol. LXIX, p. 189. Citato in: Per amore della patria, Maurizio Viroli. Editori Laterza 1995

«La libertà d'un popolo non può vincere e durare se non nella fede che dichiara il diritto di tutti alla libertà».
Italia e Germania. A Karl Blind, Ivi vol. pp. 248-49

«Se la patria opera il male, se opprime, se si dichiara missionaria d'ingiustizia per un'interesse temporaneo, essa perde il diritto all'esistenza e si scava la tomba».
Ivi, p. 190

«La patria è una comunione di liberi e d'eguali affratellati in concordia di lavori verso un'unico fine. (...) La patria non è un aggregato, è un'associazione. Non v'è patria dove l'uniformità di quel diritto è violata dall'esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze».
Dei doveri dell'Uomo, in Scritti politici. A cura di Terenzio Grandi e Augusto Colomba, Utet, Torino, 1972. p. 892

«La patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La patria è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale — finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati — finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro, nella miseria — voi non avrete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti».
Ivi, p.885

«Senza patria, voi non avete nome, né segno, né voto, né diritti, né battesimo di fratelli fra i popoli. Siete bastardi dell'umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle nazioni, voi non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori. Non v'illudete a compiere, se prima non vi conquistate una patria, la vostra emancipazione da un'ingiusta condizione sociale; dove non è patria, non è patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l'egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba, dacché non v'è tutela comune a propria tutela».
Ivi, p. 881

«Se non abbracciaste nel vostro amore tutta quanta l'umana famiglia — se non confessaste la fede nella sua unità, conseguenza dell'unità di Dio e nell'affratellamento dei popoli che devono ridurla a fatto — se ovunque geme un vostro simile, ovunque la dignità della natura umana è violata dalla menzogna o dalla tirannide, voi non foste pronti, potendo, a combattere per risollevare gli ingannati e gli oppressi — voi tradireste la vostra stessa legge di vita, e non intendereste la religione che benedirà l'avvenire».
Ivi, p. 878

«Lavorando, secondo i veri principi, per la patria, noi lavoriamo per l'umanità: la patria è il punto d'appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio comune. Perdendo quel punto d'appoggio, noi corriamo il rischio di riuscire inutili alla patria e all'umanità. Prima d'associarsi con le nazioni che compongono l'umanità, bisogna esistere come nazione».
Ivi, p. 882




martedì 29 maggio 2018

MAZZINI: LA NAZIONE COME RELIGIONE di Roberto Ferretti


[ 29 maggio 2018 ]

Figura controversa quant'altre mai quella del patriota Giuseppe Mazzini, Nazionalista ma cosmopolita, egualitarista ma antimarxista, religioso ma profondo critico della politica antinazionale della Chiesa, anticapitalista ma non collettivista, statalista ma non statolatra.
Volentieri pubblichiamo questo saggio del Ferretti mentre il nostro Paese, vive una crisi osiamo dire esistenziale, una crisi che per sua stessa natura non può che spingere ad andare alle radici della moderna "vicenda italiana".

*  *  *

Dio al vertice, e un popolo d’eguali alla base: 
non abbiate altra formola, altra Legge morale

«Chi legge le opere e l’immenso epistolario di Giuseppe Mazzini difficilmente si sottrae al fascino dell’uomo. Ma, se dai suoi scritti cerca poi di ricavare un sistema, una piana teoria, vede svanire l’accento poetico, sente la puntura di proposizioni dogmatiche, l’inceppamento del cursus logico, e mette insieme qualcosa che ricorda i sistemi teologici ricuciti con massime evangeliche o l’esegesi cranica dei dottori musulmani. Ciò spiega come non sia mai esistito un vero mazzinianesimo, in senso stretto. Chi ha esperienza della storia capisce che siamo di fronte non ad un filosofo, ma ad una di quelle personalità in cui pensiero e azione sono indistricabilmente intrecciate: profeti e apostoli che incarnano un momento dell’ideale umano, come i profeti d’Israele, l’apostolo Paolo, Maometto, Lutero; uomini la cui dottrina non può essere intesa se non compenetrata con la loro personalità e con la loro intima esperienza. E man mano che gli anni lo discostano da noi, la figura del Genovese, uscendo dagli oblii e dai dispregi dei contemporanei e della generazione immediatamente successiva, appare sempre più grande. Sentiamo com’egli sia l’esperienza religiosa che sta alla base della terza Italia, anche se restiamo fuori di questa o quella credenza sua e del pavore della stretta osservanza della dottrina. Sentiamo come egli abbia ancora qualcosa da dire alla nostra età».

Un giudizio così profondo fu espresso dal grande storico A. Omodeo (1889-1946). Va rilevato che, nonostante l’indubbia ammirazione manifestata dal nostro verso il profeta della Nuova Italia, si coglie un radicale attacco politico al Mazzini, che ha fatto purtroppo scuola. In tal senso non sarebbe mai esistito un mazzinianesimo. Non sarebbe mai esistita una dottrina politica e sociale mazziniana. Mazzini, “il fallito” di genio”: questo il Leitmotiv dell’ideologia liberale “globalista” cavouriana dell’epoca, fortezza strategica della grande borghesia italiana, che lo storico rielabora. Omodeo, quando scrisse queste pagine, che forse rimangono le più profonde, nonostante tutto, sull’impulso mazziniano, intendeva appunto difendere la veridicità storica e ideologica del liberalismo cavouriano rispetto alle ali estreme che andavano rialzando la bandiera del mazzinianesimo associandone il verbo alla possibilità di Rinascita storica e spirituale italiana: Fascismo da un lato, Giellismo dall’altro, che è politicamente altra cosa dall’Azionismo successivo (Cfr Belardelli, Nello Rosselli, Rubbettino 2007; De Luna, Storia del partito d’Azione, UTET 2006).Nella visione mazziniana dell’ideologia italiana nazionalpopolare, il Comunismo marxista sarebbe così estraneo allo spirito profondo della tradizione politica italiana, all’ “Italia del Popolo”: anzitutto poiché antimistico e antireligioso; poi perché nella visione del mondo di Mazzini, il Comunismo sarebbe addirittura, col suo classismo, una proiezione, per quanto estremizzata, del liberismo individualista e utilitarista. “A tal fine contrapponeva la propria dottrina del dovere a quella dei diritti individuali che stava alla base dell’erroneo indirizzo utilitaristico, comune econdo lui a tutte le correnti della democrazia contemporanea: “i Sansimoniani, i Fourieristi, gli Owenisti, i Comunisti…son tutti seguaci di Bentham” scriveva Mazzini (Belardelli, Mazzini, Mulino 2010, p. 21). Potrebbero notarsi talune affinità con il pensiero sociale proudhoniano, solo in parte concrete; Mazzini, infatti, col suo Cooperativismo, apparentemente vicino al pensiero di Proudhon, non si lasciava però avvincere avvolgere dalla furia del dileguare dell’anarchismo individualistico, rivendicando la sovranità giuridica ed etica dello Stato nazionale basato sul plebiscito e non sulla rappresentanza. Esplicita sarà invece in Sorel la revisione del marxismo fondata sulle basi dello spiritualismo etico mazziniano; il sociologo francese definì non a caso Mazzini politico il modello di un Socialismo religioso, ispirato, anticapitalista e antiplutocratico. 

Dunque, tornando ad Omodeo, chi scrive, ben più modesto, meno preparato e dotto del grande storico palermitano, ritiene però che non solo il mazzinianesimo è esistito ed esiste ma è probabilmente la quintessenza dell’ideologia nazionalpopolare italiana.  Cerchiamo di vederne brevemente, sinteticamente i punti fondamentali. Consapevoli che qualsiasi studio in tale direzione del Mazzini è riduttivo e monco, visto che esige una pratica politica all’altezza del tempo, dato che siamo di fronte al più geniale pensatore politico dell’era contemporanea.

L’Apostolato popolare


La visione mazziniana dell’Apostolato popolare muove dalla certezza che i concetti di Nazioni e Popolo non si basano su dati naturalistici e etnici ma su un fondamento metafisico. Come l’idea di Dio, come l’immagine dell’Angelo, la Nazione è un ente metafisico. Dunque, l’odierna polemica mondialista, anti-populista, ipotizzata su una base mazziniana sarebbe una sorta di attentato al concetto al divino. La principale missione che Mazzini si auto-assegna dai primissimi anni di militanza politica è quella di promuovere “l’associazione di tutti gli uomini che, per lingua, per condizioni geografiche, e per la parte assegnata loro dalla Storia, formano un solo gruppo, riconoscono uno stesso principio e si avviano, sotto la scorta d’un diritto comune, al conseguimento d’un medesimo fine” (EN, VI, p. 125). Quindi, le Nazioni ed i Popoli, che sono tali perché si riuniscono in Nazione, devono eseguire l’azione sacra, la volontà di Dio sulla terra “perché l’idea divina possa attuarsi” (EN, VI, p. 127). Le nazioni e i popoli sono in concreto Pensieri di Dio. Le Nazioni esigono cittadini animati da una superiore coscienza umana. Tale spiritualità suscita, plasma la adeguata condizione sociale che innalza il Popolo alla missione nazionale e alla coscienza del sacrificio e del dovere. Il messaggio mazziniano fa leva sul bisogno di sicurezza, di Fede. In questo senso, il mazzinianesimo è un attacco radicale al criticismo kantiano, ma anche all’eccessivo razionalismo panlogista hegeliano (non sappiamo se il Genovese abbia letto il filosofo tedesco, ma la sostanza non si modifica egualmente). Mazzini si lascia qui ispirare dal Lamennais, considerandolo come un profeta religioso e sociale che voleva unificare il cattolicesimo spiritualistico e mistico con la causa degli oppressi e dei diseredati. La missione italiana diviene, nella dottrina politica mazziniana, una questione teologica politica e al tempo medesimo religiosa. Probabilmente influenzato dalla visione, propria di A. Mickiewitz, basata sulla rappresentazione della Polonia come nazione martire, Mazzini reclama tale ruolo per l’Italia. Gli italiani sono il Cristo popolo, afferma con convinzione, ed egli il Cristo Uomo che sacrifica e sacrificherà sino al Martirio finale la sua intera vita per la redenzione italiana.
“Quando si nascondeva, era afflitto dal pensiero di dover portare con sé nella tomba il suo messaggio prima che il mondo potesse udirlo” (R. Sarti, La Politica come religione civile, Laterza 1997, p. 100).  
La nazionalità era per Mazzini una realtà spirituale che attendeva di manifestarsi, più permanente di qualsiasi finalità materiale; era una realtà intrinseca del mondo metafisico, assopita sino al risveglio causato dall’educazione e dall’esempio degli Apostoli del Popolo (EN, V, p. 123). In questo senso, Mazzini promuoveva la sua tattica di promozione dell’azione politica non soltanto per i suoi risultati a breve termine ma anche per il suo valore pedagogico “immortale”: l’azione politica era valida, pragmatica, anche quando conduceva a una sconfitta, perché era solo attraverso l’azione che il popolo spiritualizzava la coscienza politica.

L’Arcangelo della nazione, in questo caso del Popolo italiano, aveva così bisogno, per poter vivere nella materia, di Credenti. I credenti dovevano diffondere il vangelo della nazionalità nel popolo. Questi erano anche detti gli Apostoli del Popolo. Gli Apostoli del popolo non erano semplici militanti politici ma incarnazioni viventi del messaggio e della missione dell’Arcangelo. Dunque loro compito era mettere il popolo al contatto con la Verità (EN, IV, p. 378); muoversi tra il popolo pronti al martirio e al sacrificio (EN, IV, p. 320); il popolo italiano doveva essere conquistato dal loro senso martoriale, poiché “Il Popolo non è mai per coloro che stima deboli e da poco. Esso ama e segue i forti, e coi
forti combatte. E i forti son quelli che, in ogni circostanza, ad ogni momento, son presti a far testimonio, colla parola e colle opere, di tutta intera la fede dell’anima loro (Ivi, p. 322). Il suo sentirsi continuamente tradito, spiato, sorvegliato e assediato, dai nemici politici e dai potenti di tutto il continente ma anche dagli “amici”, che finirono per realizzare un presunto “Risorgimento” in larga parte alieno dal misticismo politico e dal repubblicanesimo demofilista del Genovese, finì per auto-rafforzare la sua immagine di figura storico-soteriologica simile al Cristo abbandonato da tutti nel Getsemani. Dall’immagine del Redentore tradito egli traeva la forza per combattere ed andare avanti, tra colpi alle spalle, ferite morali (ben più pesanti di quelle fisiche..), arresti, infamie di ogni tipo: il Maestro del vangelo dei nuovi tempi, quello della santità operativa Nazione e del Popolo, doveva essere abbandonato dai suoi discepoli e doveva essere lasciato con nessuna altra guida all’infuori della Voce del divino in lui.

In questo senso, Mazzini con la sua concezione “democratica” e mutualistica, si poneva in antagonismo politico strategico con quella che definiva l’ipocrisia demagogica e supercapitalista della Rivoluzione Borghese dell’89. La democrazia non era per il nostro esercizio dispotico e arbitrario di sovranità o tirannide da parte del popolo. Questa, oggi non a caso dominante, era per il Genovese la versione borghese e capitalista della democrazia. Al contrario, nella sua dottrina politica, o vi è Demofilia o vi è Oligarchia di plutocrati e capitalisti, anche quando compare mascherata da statalismo “socialista”. E la Demofilia mazziniana è anzitutto, soprattutto, redenzione metafisica del Popolo dalle mitologie nichiliste, materialiste che le diverse forme di “socialismo” vanno propagando. Questa Demofilia aveva il compito di risvegliare misticamente i popoli e porli sulla via del progresso, che era la via di Dio, non del progressismo tecnocratico e capitalistico dei nostri giorni.

Adolfo Omodeo definisce la Demofilia plebiscitaria e “antidemocapitalista” mazziniana il pensiero  rivoluzionario dell’800: “il pensiero apocalittico dei Nuovi Tempiun pensiero teocratico e visionario”….. Tale pensiero apocalittico affondava le sue radici nella meditazioni degli scritti dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202) (EN, LXXIX, p. 90); non solamente quello sociale incentrato sulla missione universale della identità della “Roma del popolo”, la Terza Roma come è noto, ma anche quello più teologico incentrato sulla richiesta di una Terza via tra il materialismo e la religione tradizionale. La Terza via affermava la continuità della creazione, la realtà trascendente d’un Dio sorgente d’inesausta vita che si trasfonde nell’Infinito, ma al tempo stesso d’un divino vita vivente nell’umanità in forma di Pensiero e dunque forza che poteva, nella Immanenza, essere realizzata nella santità d’azione. Per il culto patrio, i vivi avevano l’obbligo di ricordare i morti in rituali e cerimonie. I monumenti erano altari sacri del Popolo che consacravano una comunione organica tra i vivi e i martiri della Patria e davano una dimensione di santità, trascendente ed immanente, al concetto di Nazione.  


Il Socialismo “religioso” mazziniano


Va premesso che la visione del Socialismo mazziniano scaturisce da un tentativo di sintesi di fasi strategiche e momenti politici in cui si delinea la proposta mazziniana. Egli spesso fa riferimento a se stesso nei termini di un Socialista ma al tempo stesso attacca a tutto tondo il socialismo della sua epoca. Va considerato che l’attacco mazziniano al socialismo è in realtà diretto a tutte le correnti ideologiche e filosofiche infettate dallo spirito del materialismo. Luis Blanc (1811-1892) era un obiettivo particolare a causa del suo principio secondo cui gli individui dovevano ricevere a seconda del loro bisogno. Il bisogno, secondo Mazzini, non era un’entità fissa che potesse servire da base per la ricompensa economica. Impostare una dottrina economica sul bisogno significava affermare una logica schiavista: erano le Opere che meritavano la ricompensa, perché il lavoro era, ancora prima che produzione materiale, azione morale-spirituale (EN, XLVII, pp. 107-110). Il Socialismo mazziniano è anzitutto religioso poiché postula che il materialismo è la radice d’ogni male, che il potere dissolvente del razionalismo causa malessere spirituale e intossicazione ideologica, che l’ossessione moderna e massonica per i diritti individuali è responsabile della perdita della comunità spirituale; di conseguenza il rimedio era unicamente nella declinazione sociale della formula ideologica medesima che fu sua sin dagli anni Trenta: Dio e Popolo

Il programma sociale mazziniano teorizza così la libera Associazione di individui in nuove "corporazioni", da ripristinare dopo la dissoluzione di queste operate dalla Rivoluzione Borghese d’89; nella polverizzazione di attività bancarie e di altri monopoli; in prestiti governativi per aiutare le piccole imprese; nell’imposta progressiva sui redditi; nell’esenzione delle tasse per i poveri; nella libera istruzione per tutti . Di contro al socialismo francese, macchiato dall’ateismo e dal materialismo, la via Italiana al Socialismo sarebbe stata invece caratterizzata dall’Associazione volontaria, dal culto della santità della patria e dalla libertà individuale nel rispetto comunitario (EN, XLII, p. 308). Uno dei punti fermi di tutte le Associazione operaie o Alleanze del Lavoro fondate su base mazziniana fu l’estinzione dell’odio di classe e la Concordia patriottica e il divieto dello sciopero se attuato sulla mera rivendicazione economica. A differenza di Marx, che parlava ai lavoratori in termini ideologici scientifici, Mazzini si affidava all’invocazione religiosa, parlando ai lavoratori il “linguaggio dell’amore” ed utilizzando un simbolismo di natura mistico-spiritualistica. Il capitalismo e il socialismo materialista sbagliavano allo stesso modo nel sottolineare la centralità dei diritti economici; entrambe queste ideologie definivano in maniera simile la felicità in termini economici e ciascuna non aspirava a null’altro che a un illusorio bene, parziale e deforme. La soluzione consisteva invece nel rompere tutti i legami con la filosofia materialista, puntando alla Repubblica sociale italiana fondata sulla già citata Demofilia. Gli operai sarebbero stati i soggetti sociali di questa vita repubblicana, in quanto erano coloro che davano forma, bellezza, senso alla materia priva di vita; Mazzini, che dedicò agli operai i Doveri dell’uomo, sosteneva che era un errore politico considerarli operai; questi erano anzitutto e prima di tutto italiani ed artisti sociali. 

La sua proposta per “l’unione di capitale e lavoro nelle stesse mani” aveva notevole risonanza tra gli artigiani romagnoli, ma anche toscani, umbri, marchigiani, dove i piccoli stabilimenti erano particolarmente numerosi e gli organizzatori mazziniani furono i primi a entrare in scena dopo l’unificazione nazionale. In queste regioni il movimento operaio mazziniano tenne duro contro i socialisti ufficiali (materialisti e antinazionali per la visione politica mazziniana) e i cattolici anche durante i primi decenni del XX secolo. In seguito, il movimento mazziniano confluirà nel Sindacalismo rivoluzionario.


Mazzini antimassone  


Una ingiusta e interessata polemica politica ha dipinto Mazzini quale massone. Ci si è avvalsi al fine peraltro anche di falsi costruiti ad arte: come la mai esistita corrispondenza con Pike (1809-1891). In realtà, come mostra Rosselli nel suo saggio “Bakunin e Mazzini”, come emerge dall’epistolario con F. Campanella, il Genovese non volle mai associarsi alla Massoneria e fu, anzi, politicamente decisamente antimassone. Come noto, il Genovese in più casi gridò forte che la Carboneria stessa, che non si può comunque schiacciare politicamente, indistintamente, sull’ideologismo massonico, era una istituzione senile che faceva danno alla causa nazionale. Peraltro egli cercò costantemente un canale di comunicazione politica con lo Stato pontificio, in funzione nazionalista, in funzione di consacrazione del culto comunitario della “santità d’Italia”; tale canale fu però sempre rifiutato dal Vaticano. Addirittura, Mazzini simpatizzò ideologicamente con l’enciclica di Pio IX, Quanta cura, (dicembre 1864) e con l’appendice, il Sillabo degli errori, che era l’elencazione degli errori del secolarismo e del materialismo. Il più preoccupante tra i movimenti materialistici del suo tempo era per Mazzini rappresentato dal cosiddetto “libero pensiero” massonico e positivista. “Le divergenze sui temi del libero pensiero e dell’anticlericalismo portarono Mazzini alla rottura con Luigi Stefanoni….un divulgatore della cultura positivista. L’anticlericalismo era riprovevole agli occhi di Mazzini. Le implicazioni filosofiche del libero pensiero ai suoi occhi comportavano una pericolosa tendenza verso il disimpegno…La vera minaccia proveniva non dall’avere troppa fede, ma dall’averne troppo poca” (R. Sarti, Op. Cit., p. 247). Di conseguenza, tra gli effetti più nefasti provocati dalla vittoria della frazione capitalista liberale e utilitarista del cavourismo su quella sociale mazziniana vi è stata una postuma antistorica “massonizzazione” del pensiero politico del Genovese, di cui i capofila, in questo secolo, furono la Fondazione La Malfa e a cui non fu estraneo lo stesso garante supremo del capitalismo della provincia Italia: E. Cuccia (1907-2000), fine stratega, ma di certo estraneo all’ethos religioso socialista mazziniano, fido scudiero della frazione strategica mondialista (radicalmente antitaliana) Meyer-Lazard.

Attualità politica di Mazzini statista?


Mazzini statista costituisce a nostro modesto parere l’archetipo dello statista italiano. Il realismo politico mazziniano, integrato nella dimensione certamente apocalittica ben rilevata da Omodeo, di cui si diceva prima, condusse il Genovese ad indicare, nella sua concezione del mondo, la missione dell’eroe di Stato nell’epoca contemporanea. E’ una missione che oggi gli analisti, i dotti, i corifei del capitalismo globale non esiterebbero a disprezzare come “Populista” e ultra-sovranista….  Ciò avvenne con la Repubblica Romana (12 febbraio 1849). 

Tale missione era costituita, nella dottrina politica mazziniana che si faceva in quel particolare momento di certo pratica sociale e azione di stato, dalla connessione con il potere spirituale dell’Anima di popolo e di nazione. Solo lo statista capace di realizzare tale comunione mistica era, agli occhi del nostro, un autentico capo nazional-popolare. 
«Nelle Rivoluzioni io non riconosco che gli uomini, i quali sono collocati alla testa del movimento per volere del popolo, abbiano responsabilità fuorché verso il popolo stesso, verso Dio, e verso la propria coscienza. L’unica legalità che io riconosco nelle Rivoluzioni sta nell’interrogare, nell’indovinare il potere del popolo e nell’attuarlo». (EN, LLXVII, p. 302).  
Esula dal presente scritto, che verte sulla esistenza o meno di una dottrina politica mazziniana, indagare sulle cause efficienti del tramonto della archetipica esperienza politica della Repubblica romana. Concludiamo questo modesto scritto, rievocando la figura di Mazzini statista traendola dalle antiche pagine del Saponaro:
«L'Assemblea Costituente elesse Mazzini al nuovo Triumvirato, insieme con Saffi e Armellini. Egli raccolse 132 voti, Saffi 125, Armellini 93. Divenne il capo unico. Dittatore senza terrore....L'Apostolo fu un buon amministratore, conciliando le grandi idee con la conoscenza e la pratica dei mezzi minimi. Mise ordine nella finanza disordinata senza ricorrere ad angherie, vendette o spoliazioni di beni ecclesiastici. Mandò denaro a Venezia e preparò un corpo di spedizione in soccorso del Piemonte. Preservò Roma dai delitti della piazza e della vendetta che minacciavano scatenarsi. Ripartì i beni rustici delle manomorte alle famiglie dei contadini. Aprì le stanze vuote del Sant'Uffizio ai senzatetto...Provvide all'armamento di un esercito che non c'era, abolì la pena di morte. "Qui a Roma non si può essere mediocrità morali. Dobbiamo agire come uomini che hanno il nemico alle porte, e in pari tempo come uomini che lavorano per l'eternità"...9 febbraio -3 luglio 1849. Tra queste 2 date la storia di Roma non è più storia ma epopea. La vita di Giuseppe Mazzini, nel mezzo del suo quarantaquattresimo anno, non è la vita di un solo uomo, è la vita dell'eterno spirito d'Italia da lui incarnato, dell'anima storica e poetica di tutto un popolo, carico di millenni di pensiero e di sventura...Sorse prodigiosa l'epopea della difesa del Vascello, di villa Spada, del Casino dei Quattro Venti, delle barricate ove le donne del popolo sostituivano i mariti caduti su gli spalti del Gianicolo. Morirono Daverio, Masina, Dandolo, Pietramellara, il fanciullo Morosini. Morì Luciano Manara, che il giorno innanzi aveva scritto: "Noi dobbiamo morire per chiudere con serenità il Quarantotto". Giacomo Medici restò immune tra le rovine fumanti del Vascello. Non morì Garibaldi serbato ad altra epopea: e la moglie Anita combatteva al suo fianco. Goffredo Mameli, ferito allo scontro del tradimento, e amputato poi alla gamba sinistra dal dottor Bertani, sopravvisse un mese, tra spasimi che lo spezzavano e speranze di gioia che lo portavano al delirio. La sera del 29 giugno (1849 NDC), padroni dei bastioni e di tutte le alture, i Francesi videro la città ardere per ogni finestra e per ogni terrazza dei fuochi votivi e multicolori in gloria del santo patrono: poi a notte un acquazzone si rovesciò a spegnere razzi e lampioncini, sola emerse luminosa nella tenebra la cupola del Tempio.Mazzini lanciò il suo terribile anatema: "Chiunque tocca da nemico il sacro suolo di Roma, è maledetto da Dio! ….Allora Mazzini discese all'Assemblea riunita in comitato segreto sul Campidoglio. C'era tra i deputati chi non lo vedeva da più settimane, e c'era chi lo vedeva ogni giorno. Apparve a tutti trasfigurato, più pallido, più scarno e acceso. Il volto dell'insonnia. Non era mutata la sua voce: nell'angoscia che gli mozzava il respiro, netta e armoniosa. I due capi (Mazzini e Garibaldi) si incontrarono fuor dell'aula, e lo sguardo che scambiarono non fu d'accordo. Allora accadde una scena impressionante: un uomo che su le barricate delle 5 giornate aveva combattuto intrepido, e ancora in quei giorni a Castel Sant'Angelo era stato animatore del popolo, apparve disperato e come demente, implorando la fine della resistenza inutile e inumana, che avrebbe distrutto la città senza salvare la repubblica. Era Enrico Cernuschi. E la capitolazione fu votata.....contro il suo parere (di Mazzini NDC)Ministri, deputati, molti capi militari lasciarono la città e ripresero la via dell'esilio. Mazzini, ormai in minoranza,discese dal Quirinale, ma non uscì da Roma».

sabato 5 maggio 2018

L'ITALIA NON ESISTE? di Piemme

[ 6 maggio 2018]

Era il dicembre del 2016 quando su questo blog segnalavamo il pamphlet del piddino Fabrizio Rondolino L'ITALIA NON ESISTE (PER NON PARLARE DEGLI ITALIANI). 
Era, dicevamo "... un concentrato esplosivo di disprezzo del concetto di nazione, di vero e proprio odio auto-razzista dell'Italia e del popolo italiano. Un inno sperticato del "vincolo esterno" euro-tedesco, sotto le mentite spoglie di quel cosmpolitismo "progressista" di cui si ammanta la globalizzazione capitalistica".


Si leggeva nel pamphlet:

«Tanto per cominciare, l’Italia non esiste. È un’espressione geografica, uno stivale che s’allunga pigro nel Mediterraneo, una graziosa penisola purtroppo in gran parte rovinata dagli italiani. L’idea di farne uno Stato, una Na­zione con la maiuscola, come se fossimo la Spagna o l’Inghilterra, è una sciocchezza sesquipedale, che perdoniamo al conte di Ca­vour soltanto perché, maturato nella lingua e nella cultura d’Oltralpe, pensava in buona fede di vivere in Francia. L’Italia non è mai stata una nazione, e non lo sarà mai».
Rondolino, segui le tracce di un altro sciacallo, Sergio Salvi, che nel 1996 (Erano gli anni della Lega di Bossi) pubblicò, appunto L'ITALIA NON ESISTE, ma radicalizzandole. Il Salvi almeno sosteneva che sì, gli italiani esistono,  hanno un'identità antropologica e sociale, ma l'Italia come Stato-nazione non era mai nata.

La pubblicistica auto-razzista e anti-italiana ha radici profonde, Gramsci avrebbe detto che la fonte sta nel cosmopolitismo di matrice cattolico-romana, che lui riteneva infatti essere stato il principale ostacolo alla (tardiva) formazione dello Stato unitario. 
E, ci avrebbe detto  il Gramsci, che proprio per questo il Rinascimento fu in verità una fase antirivoluzionaria rispetto al primo Umanesimo. Una tesi che egli giustificava appunto col ruolo cosmopolitico degli intellettuali italiani, ed il loro rifiuto di mettersi alla testa del popolo per farne una nazione. Di cui la sua ammirazione per Machiavelli...


Non c'è dubbio che tale pubblicistica anti-italiana, in nome di un antifascismo liberistico, è funzionale al disegno mondialista delle élite, ed in particolare a quelle euriste. Essa non solo deve dimostrare che ogni "sovranismo" è nazionalismo becero, reazionario; deve mostrare che il patriottismo, sotto le Alpi, è semplicemente destituito di qual si voglia fondamento storico.

Lorsignori non demordono.

Sul CORRIERE DELLA SERA del 2 maggio, tanto per fare un esempio, sotto le mentite spoglie di un articolo scientifico si poteva leggere:
«Gli Italiani? Non esistono. Si tratta solo di un’aggregazione di tipo geografico. Abbiamo identità genetiche differenti, legate a storie e provenienze diverse e non solo a quelle» spiega Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna...»
Qui addirittura si tira in ballo la genetica, a ben vedere facendo il verso alla demenziale idea hitleriana della nazione come basata su un presunta (inesistente ovunque) purezza biologica della razza.

E così veniamo a LA STAMPA di ieri. In prima pagina Mattia Feltri, facendo il sofisticato, ci da questo Buongiorno:
»L’Italia non esiste, non è mai esistita. Non prendetevela con me, se non vi piace, ma con Giuseppe Prezzolini. «Il suo tentativo di formare uno stato nazionale è fallito. Sarà forse una provincia dell’Impero europeo». Scritto nel 1958 da New York.  L’Italia non è una nazione, è una civiltà. Non ha nessuna idea di nazione. È municipale nella pratica e universale nelle aspirazioni. Quanto di meraviglioso ha prodotto, l’Impero romano, la Chiesa, il Rinascimento, Cristoforo Colombo e Marco Polo, Giotto e San Francesco, Enrico Fermi e Guglielmo Marconi, non ha niente di italiano, ha molto di più, ha il respiro del mondo. Poi c’è quella maledetta (o benedetta) pratica municipale, micragnosa, piccina, e l’abbiamo vista rappresentata alla grande negli ultimi sessanta giorni, durante i quali a nessuno è importato nulla dell’Italia perché semplicemente l’Italia non esiste. Nessuno che si voglia lordare le mani tendendole all’avversario per il bene dell’Italia, che tanto non esiste. Esistono gli italiani, a nome dei quali ognuno parla, gli italiani vogliono, gli italiani hanno detto, gli italiani hanno scelto, e poi quelli nemmeno sono «gli italiani», sono i loro tifosi schierati contro tutti gli altri tifosi, che chiamano delinquenti, traditori, al soldo del nemico, e gli riserverebbero il patibolo. Chi disse fatta l’Italia bisogna fare gli italiani forse si sbagliava, gli italiani esistono, sono sempre esistiti, oggi si chiamano Di Maio, Berlusconi, Salvini, Renzi, italiani esemplari per un’Italia che non esiste».  
Torneremo sull'argomento, ed anche su Prezzolini e la  letteratura nazionalistica che fece da concime all'imperialismo e poi al fascismo.


Una cosa si deve sapere: contro questa narrazione va condotta una lotta a tutto campo, spietata. Dall'esito di questa battaglia ideologica, non penso di esagerare, dipende il destino del nostro Paese.

mercoledì 28 febbraio 2018

NOMINARE LA NAZIONE di Mimmo Porcaro

[ 1 marzo 2018 ]

Nel mesto panorama culturale della sinistra radicale l’ultimo libro di Domenico Moro (La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018) potrebbe, per usare una frase che piaceva a Stendhal, fare l’effetto “di un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto”. Potrebbe farlo (ma temiamo che non lo farà, dato che c’è gente che non avverte nemmeno i colpi di cannone) perché, oltre a porre nuovamente e con nettezza la questione dell’euro, ha il coraggio di nominare ciò che per la sinistra, e per l’intera cultura italiana, è il vero innominabile, il rimosso, il riassunto di tutto ciò che non è politically correct: la questione nazionale.
L’operazione di Moro è molto semplice, e proprio per questo va al centro del problema. Consiste nel ricondurre la questione della nazione (e della sovranità, e dello stato) ai suoi reali termini storico-filosofici, superando il riflesso condizionato che porta la sinistra a quella immotivata catena di equivalenze che fa associare sempre e comunque la nazione al nazionalismo e questo al fascismo. 
Eppure, come ricorda Moro, l’origine dell’idea di nazione è essenzialmente democratico-radicale (Rousseau, giacobinismo…), e la nazione è pensata ai suoi inizi come spazio di realizzazione della volontà popolare, come forma concreta della sostituzione del principio dinastico col principio democratico. Divenuta così la nazione forma normale della politica è inevitabile che il suo campo sia conteso tra un’ interpretazione democratica ed
Domenico Moro
un’interpretazione reazionaria: ma non è affatto vero che sia sempre quest’ultima a prevalere. Così nel corso degli anni abbiamo assistito al confronto tra una concezione volontarista e tendenzialmente progressista della nazione (la nazione come scelta politica) e di una concezione naturalista e tendenzialmente reazionaria (la nazione come espressione di una cultura, di un retaggio, di un volk). 
Abbiamo visto l’emergere del nazionalismo imperialista e contemporaneamente la nascita delle lotte di liberazione nazionale. Abbiamo sperimentato il nazionalismo nazi-fascista e contemporaneamente la Resistenza delle nazioni europee e la grande guerra patriottica dell’Unione sovietica. 
Insomma, da sempre la nazione (sia l’idea di nazione che la nazione storico-concreta) è un campo di battaglia aperto alle più diverse soluzioni, tanto da indurre tutti i più acuti marxisti — e Lenin per primo — a non avere un atteggiamento preconcetto nei confronti del problema nazionale e ad affidare il giudizio all’unico valido criterio della strategia comunista, ossia all’analisi concreta della situazione concreta, alla valutazione del diverso carattere di classe di ogni concreto movimento nazionale. 
Di più, prosegue Moro, se si arriva a Gramsci si vede quanto lo spazio nazionale sia decisivo per impostare la stessa questione della rivoluzione in occidente: ogni strategia rivoluzionaria deve essere costruita in relazione alla realtà specifica nella quale si opera, e specifico, per Gramsci, significa nazionale. Per Gramsci ed anche per noi: infatti la dicotomia tra uso progressivo ed uso reazionario della nazione si pone anche oggi; oggi che, come precisa Moro, il cosmopolitismo ha sostituito il nazionalismo come ideologia delle classi dominanti, ed oggi che le nazioni tornano sulla scena anche come forma di reazione delle diverse vittime della globalizzazione contro il carattere gerarchico della globalizzazione stessa. Una reazione che, appunto, può assumere forme diverse, progressive o regressive, ma che tenderà inevitabilmente all’esito peggiore se la sinistra — come avviene in Italia — abbandonerà il campo in ossequio al dogma liberista secondo il quale un movimento che abbia caratteristiche nazionali può essere soltanto di destra, perché sono gli stati nazionali i primi responsabili della guerra, mentre i mercati e gli enti sovranazionali sono portatori di pace. L’attuale egemonia della destra sull’antieuropeismo (che preferiremmo chiamare antiunionismo) è il classico esempio di profezia che si autorealizza.
Moro, è vero, precisa che il necessario (pur se insufficiente) superamento dell’unione valutaria non deve intendersi tanto come riconquista della sovranità nazionale, quanto come recupero ed allargamento della sovranità democratica, ossia come ricostruzione di un contesto in cui i lavoratori (a differenza di quanto oggi, grazie all’euro, inevitabilmente avviene) non siano sconfitti in partenza. E sussiste nel libro una certa reticenza a definire il legame fra oppressione territoriale del paese ed oppressione di classe. Moro ci ricorda che non si assiste oggi all’oppressione di una “nazionalità italiana” e bensì di una classe, che gli organismi comunitari sono sostanzialmente intergovernativi e che lo stato italiano non ha perso tutte le prerogative della sovranità. Vero, come è vero però che le aree statuali dell’Europa del sud sono oggetto in quanto tali di un processo di “mezzogiornificazione” dato dalla perdita di sovranità economica, e che tale processo di gerarchizzazione territoriale è il miglior viatico della gerarchizzazione di classe
Sottolinearlo rafforzerebbe le tesi di Moro senza far loro assumere una coloritura nazionalista.
Ciononostante la prospettiva del libro è ben chiara, ed è fatta per irritare i benpensanti che hanno portato la sinistra radicale alla rovina. Secondo lo stesso Moro, infatti, assumere la prospettiva nazionale non conduce per nulla ad eludere la questione di classe e la questione della trasformazione del potere di stato, anzi. Proprio perché si pone la questione del potere di stato la volontà popolare non può che assumere, in opposizione al contesto globalizzato e cosmopolita, la forma del patriottismo costituzionale, e non può che sboccare in una prospettiva che è contemporaneamente nazionale ed internazionalista. Internazionalista perché solo entro una dimensione più ampia è possibile sviluppare efficacemente la lotta di classe. Nazionale perché soltanto iniziando a trasformare l’esistente sul piano nazionale si potranno modificare gli equilibri generali e riprendere il filo dell’internazionalismo.


Una posizione netta, come si vede. Che tra l’altro, rimettendo al centro l’analisi della dialettica tra globale e nazionale, consente all’autore di riflettere su temi generalmente (e non a caso) evitati da tutta la cultura politica italiana, quale l’emergente conflitto tra Usa da un lato e Francia e Germania (e quindi Europa) dall’altro: conflitto che a nostro avviso costringerà inevitabilmente l’Italia a ragionare sui suoi interessi nazionali, e costringerà ancor più i lavoratori italiani a ragionare sul nesso tra i propri interessi di classe e quelli del paese (scoprendo magari che oggi, molto più di ieri, gli uni e gli altri si possono intrecciare in una soluzione antiimperialista e cooperativa). 
Una posizione, quella di Moro, che diviene ancor più netta quando individua la necessità, per chiunque voglia veramente fare politica e non si limiti a sbandierare i propri preziosi valori, di indicare ed aggredire il punto specifico di addensamento delle contraddizioni di classe, il punto in cui queste contraddizioni si manifestano in modi che rendono
Mimmo Porcaro
l’avversario più debole. 
Secondo Moro questo punto è oggi proprio l’euro, l’appartenenza all’Unione valutaria e più in generale ai meccanismi apparentemente impolitici ma in realtà potentemente sovrani del capitalismo liberista europeo. Gerarchizzare gli obiettivi, dunque, definire le questioni principali e quelle secondarie, scandire i tempi e i modi differenziati della tattica: ponendo questo problema (che è poi il problema di una teoria della tattica comunista, abbozzato, nella sua forma astratta, nel corso degli anni Settanta, ma successivamente tralasciato) Moro svela d’un colpo la completa inadeguatezza politica di ciò che resta della sinistra radicale, storicamente incapace di definire le priorità della sua politica perché l’unica vera sua priorità è la generica crescita del movimento, e non la trasformazione dei rapporti di forza in funzione della conquista e trasformazione dello stato. 
Inadeguatezza che ad esempio si manifesta oggi nel confusionario programma di Potere al Popolo e che con maggiore virulenza si presenterà se alle prossime elezioni europee questo programma verrà “superato” e peggiorato, come è tristemente possibile, da una nuova lista dichiaratamente europeista ispirata a Varoufakis (un nome, una garanzia). 
La lotta contro il confusionismo attuale e contro la futura, colpevole riedizione dell’ “europeismo critico” non potrà che giovarsi dell’ottimo contributo di Moro, reso particolarmente utile dalla sua forma sintetica ed efficacemente stringata.

* Fonte: Socialismo 2017

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