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giovedì 5 novembre 2015

TURCHIA: L'INATTESA VITTORIA DI ERDOGAN E LE SUE CONSEGUENZE di Campo Antimperialista

[ 5 novembre ]

Le elezioni anticipate di domenica scorsa si sono concluse con un risultato che quasi nessuno si aspettava: una quarta, schiacciante vittoria consecutiva per gli islamisti conservatori del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), che è al potere dal 2002.

[nella foto, dell'agosto scorso, i dirigenti di HAMAS ad Ankara]


AKP ha strappato il 49,4% dei voti, un aumento notevole rispetto al 40,9% ottenuto nelle elezioni precedenti, tenutasi il 7 giugno. L'AKP ha ora la maggioranza assoluta in parlamento, avendo 316 dei 550 seggi. Possiede quindi una forza sufficiente per formare un governo da solo, evitando scenari di coalizione per i prossimi quattro anni. Tuttavia la vittoria, pur schiacciante, vista dall’angolo visuale di Erdogan e delle sue mire presidenzialistiche, è zoppa, visto che non ha i numeri per modificare la costituzione, cosa per la quale occorrono almeno 330 seggi.

Il timore che il Paese precipiti nel caos — dopo giugno si sono moltiplicati gli scontri sanguinosi con i guerriglieri curdi del PKK e con le cellule turche dell’ISIS — e che il boom economico sia alla fine sembrano essere le due ragioni principali che spiegano la vittoria elettorale dell’AKP.

Hanno invece subito una sconfitta due dei tre principali partiti dell’opposizione: l’estrema destra dei Lupi Grigi, ovvero il Partito di azione nazionalista (MHP) e la sinistra moderata del Partito Democratico Popolare (HDP). Il MHP è il partito che è uscito con le ossa rotte dalla elezioni: a giugno aveva ottenuto il 16,4% dei voti e 80 seggi, domenica solo l'11,9% e 40 seggi. Secondo gli analisti turchi quasi tutti i voti persi dal MHP sono andati al AKP. Moltissimi elettori del MHP, ferventi nazionalisti hanno preferito dare fiducia ad Erdogan, punendo la decisione della direzione del MHP di rifiutare ogni coalizione con AKP.

L'altro partito di opposizione che ha subito una battuta d'arresto è stato il Partito Democratico Popolare. Nel mese di giugno l'HDP aveva ottenuto una grande vittoria, passando tranquillamente la soglia del 10%, conquistando il 13,1% dei voti (80 seggi), raddoppiando i suoi voti. Domenica, tuttavia, l'HDP ha passato per poco lo sbarramento del 10%, ottenendo così 61 seggi. Anche in questo caso i voti persi dal HDP sono andati al partito di Erdogan. La recrudescenza del conflitto tra regime e la guerriglia del PKK ha spinto molti curdi a seguire le indicazioni dei leader religiosi locali.

L'unico partito che ha conservato la sua platea di voti e consensi è stato quello kemalista (affiliato alla socialdemocrazia europea), il Partito Repubblicano del Popolo (CHP). Questo ha ottenuto il 25,4% dei voti (134 seggi). Il CHP dispone di uno storico zoccolo elettorale di massa, anzitutto in Tracia e sulla costa dell’Egeo, costituito principalmente dalle classi medie laiche urbane e dalla minoranza alawita moderata.

Quale sia il significato politico della vittoria di Erdogan lo indica Aldo Kaslowski, presidente onorario della Tusiad, la Confindustria turca:

«I mercati amano la stabilità, gli esecutivi autorevoli, ora speriamo che un Erdogan più forte torni anche a essere un presidente più ragionevole, come nei primi anni di governo, superando la polarizzazione politica e sociale del Paese. Abbiamo bisogno di tornare a crescere: quest'anno non andremo oltre il 2,5%, molto al di sotto dell'8 di tre anni fa».
I capitalisti turchi hanno fatto infatti affari d’oro coi governi dell’AKP. In poco più di un decennio la Turchia ha conosciuto un vero e proprio boom economico, balzando al 17° posto nel mondo e al sesto in Europa, con un Pil, triplicato, a 800 miliardi. Un balzo che ha avuto diverse ragioni, tra cui cinque principali: bassi salari e zero diritti per i lavoratori, fortissimi investimenti esteri, svalutazione della moneta nazionale, una forte spesa pubblica e bassi tassi d’interesse e crediti facili.

Ma l’epoca delle vacche grasse è oramai giunta al termine. Sull’economia turca, come su quella di diversi Brics, pende una Spada di Damocle: se la Fed americana, com’è probabile, alzerà i tassi d’interesse, la fuga dei capitali sarebbe inevitabile. Del resto la contestuale svalutazione dell’euro (più del 50% delle esportazioni turche va verso l’Unione europea) non potrà che accentuare i rischi di una recessione, a meno che Erdogan non pensi di spingersi ancora più oltre sulla linea della svalutazione della Lira turca.

Sul piano geopolitico la grande vittoria elettorale rappresenta per Erdogan ed il suo regime una vitale boccata d’ossigeno. Pur di perseguire una politica regionale espansionista — neo-ottomana è stato un po’ troppo semplicisticamente affermato —, Erdogan è entrato con tutti e due i piedi nella fratricida guerra civile siriana, scommettendo sulla caduta imminente del regime di Bashar al-Assad. 

Un errore di calcolo madornale.

Ankara ha sostenuto 
a piene mani, in combutta con gli imperialisti occidentali (e sostiene ancora ciò che ne resta) le milizie raggruppate nell’Esercito Siriano Libero (ESL). Davanti ai rovesci dell’ESL ed alla fuga dei suoi miliziani verso le formazioni islamiste più radicali, tra cui al-Nusra, Ankara non è tornata sui suoi passi e, pur di conservare la sua influenza nel conflitto siriano, da almeno due anni sostiene, in compagnia di Arabia Saudita e Qatar, la potente coalizione Jaish al-Fatah (Esercito della Conquista), di cui al-Nusra è la spina dorsale. E non è per caso se tra i primi ad inviare congratulazioni a Erdogan per la sua vittoria elettorale di domenica, oltre a Khaled Meshal e Haniyeh di HAMAS, sia stato proprio il comando generale di Jaish al-Fatah, come pure dell’altro potente gruppo Ahrar al-Sham.

Di certo Erdogan non ha ricevuto le felicitazioni dell’ISIS, il quale, contrariamente a quanto afferma certa vulgata complottista, è in aperta rotta di collisione con la Turchia ed i suoi alleati locali. Tanto più dopo che Erdogan ha concesso agli americani l’uso della base militare di Incirlick per colpire le postazioni del califfato, e dopo le azioni repressive che le forze speciali turche hanno recentemente condotto per annientare le basi dell’ISIS a Dyarbakyr e in altre zone della Turchia, che hanno fatto diversi morti tra i militanti dell’ISIS.

Non c’è, a ben vedere, nessuna possibilità che il califfo ed il sultano in pectore (Erdogan) possano trovare un’intesa. Erdogan aspira a fare della Siria un suo protettorato rafforzando la potenza regionale della Turchia, non punta affatto a sovvertire, come invece è nella strategia dell’ISIS, tutto l’assetto geopolitico della mezzaluna fertile come sancito dall'accordo Sykes-Picot e nella prospettiva di costruire una umma musulmana unitaria.

Ma il pasticcio geopolitico in cui si è cacciato Erdogan con la sua politica aggressiva ed espansionistica in Siria non finisce con l’ISIS. Egli oramai deve scontare l’opposizione frontale di Russia e Iran. Il che è un guaio ben più importante. L’entrata diretta nel conflitto siriano degli alleati russi e iraniani a sostegno delle truppe di Assad e di Hezbollah libanese, pone di fatto fine alla libertà di manovra di Ankara. L’azione di russi e iraniani è infatti rivolta con ogni evidenza a schiacciare le milizie islamiste foraggiate dalla Turchia, forti anzitutto sull’asse che va da Damasco ad Aleppo, passando per Homs, Hama ed Idlib. 
Se l’avanzata russo-iraniana in sostegno ad Assad avrà successo, la politica espansionistica di Erdogan subirebbe una disastrosa sconfitta. Che potrebbe essere evitata solo ad una condizione: la definitiva internazionalizzazione del conflitto siriano ovvero, ottenuto l’avallo americano, con l’ingresso dell’esercito turco in Siria.
Ma a quel punto sarebbe tutta un’altra storia.

martedì 6 ottobre 2015

SIRIA: PERCHÉ OBAMA TIFA PER PUTIN di Dario Fabbri

[ 6 ottobre]

Il conflitto siriano sembra giunto ad un tornante decisivo. Con l'intervento russo avremo due sole possibilità: o la guerra fratricida degenera in un vero e proprio conflitto regionale oppure la spunta Putin obbligando tutti a fare fronte per schiacciare il "nuovo nazismo" islamico —e solo dopo sbarazzarsi dell'ingombrante Assad. 
La Casa Bianca e Israele pendono per la seconda ipotesi, così come pezzi da novanta dell'establishment italiano, ma Obama dovrà convincere turchi e sauditi ad obbedire.

«Spesso le dichiarazioni di anonimi membri dell’amministrazione statunitense, rilasciate con scientifico tempismo ai media, valgono più dei proclami ufficiali del presidente.

Interrogato dal New York Times sull’intervento russo in Siria, pochi giorni fa un funzionario della Casa Bianca è ricorso al gergo pugilistico per comunicare il proprio sentimento. «Knock yourselves out», ha esclamato. Traslato in italiano: «Impiccatevi».

Al di là della propaganda, Washington ritiene funzionale ai propri interessi il coinvolgimento di Mosca, che nel migliore dei casi immagina risucchiata dalle sabbie mobili, oppure a lungo impegnata a puntellare il fronte alauita. Per Obama i danni collaterali riguarderanno unicamente le nazioni indigene. Mentre la superpotenza, che in Medio Oriente persegue il disimpegno, deve preoccuparsi solo di evitare incidenti con l’aviazione russa e presentare come oltraggiosa la manovra di Putin.

Da anni l’attuale Casa Bianca considera il Medio Oriente di importanza secondaria. Gli Stati Uniti cercano semplicemente di evitare che tra le potenze locali emerga un egemone e di far sì che la loro fuoriuscita dalla regione produca vuoti in cui attrarre antagonisti e partner.

Il conflitto siriano ha rappresentato un dossier rilevante solo fino alla primavera 2013. Ovvero quando i vertici dell’Iran hanno acconsentito a negoziare il futuro del loroprogramma nucleare e Washington ha diminuito l’impegno profuso, addestrando assieme a Turchia e monarchie del Golfo i “ribelli” sunniti, per rovesciare il regime di Bashar al-Asad e minare la mezza luna di influenza iraniana.

Da allora, la mattanza siriana è diventata tanto marginale quanto irrisolvibile, complice l’ascesa dello Stato Islamico. Impossibilitato a intervenire con efficacia, Obama ha di fatto abbandonato la Siria al suo destino. Come dimostrato dalla pressoché simbolica campagna aerea condotta contro il sedicente califfato e dal fallimento del progetto di addestramento dei ribelli “moderati”, più inclini a schierarsi con i jihadisti che ad affidarsi alle cure della Cia. Peraltro negli ultimi mesi Barack ha accettato, per bocca di John Kerry, che il clan alauita rimanga al potere per scongiurare la definitiva conquista del paese da parte dei miliziani di al-Baghdadi.

Per la Russia invece la Siria riveste notevole importanza. Non solo perché qui Mosca possiede la sua unica base navale sul Mediterraneo. Partecipando attivamente alla guerra e difendendo Damasco, Putin intende rendersi indispensabile in occasione di un prossimo negoziato e ottenere concessioni dagli Stati Uniti sull’Ucraina, in assoluto la questione più rilevante.

Convinto che il mero arrivo in Siria del suo contingente avrebbe convinto la Casa Bianca a trattare, lunedì scorso il capo del Cremlino ha chiesto e ottenuto un incontro con il suo omologo statunitense. Il summit, il primo tra i due leader dal 2013, ha però dimostrato l’indifferenza obamiana e come i tempi non siano maturi per un accordo. Dopo circa 60 minuti trascorsi a discutere del futuro della Siria, senza stabilire chi dovrebbe succedere ad al-Asad e chi debba spendersi per sconfiggere lo Stato Islamico, la conversazione si è definitivamente arenata sull’intransigenza del presidente statunitense.

D’altronde, sul teatro siriano devono verificarsi alcuni eventi prima di raggiungere un compromesso, almeno in Medio Oriente. Anzitutto, la posizione di al-Asad dovrà apparire rafforzata, trasformando in automatica la sua presenza nella fase di transizione. Allo stesso tempo, l’offensiva russa dovrà costringere a miti propositi i vari gruppi di ribelli impegnati sul terreno, anche quelli vicini agli americani e discretamente indipendenti dalla loro volontà. Infine, l’attuale mobilitazione di truppe iraniane e di milizie sciite non è sufficiente: più che difendere il dittatore alauita, devono assemblare una forza di terra che combatta il califfato. Giacché la Casa Bianca lo ritiene un mostro di esclusiva pertinenza altrui.

In attesa degli eventi, Obama osserva con soddisfazione le mosse di Putin. Vista da Washington, la Russia non riuscirà a incidere in maniera decisiva su una guerra tanto complessa. Anzi, rischia di impantanarsi nel Grande Medio Oriente, come accaduto in Afghanistan all’inizio degli anni Ottanta.

Inoltre, la campagna aerea del Cremlino impedisce alla Turchia, partner che al momento intrattiene rapporti alquanto difficili con la superpotenza, di realizzare una no-fly zone e di estendere la propria influenza sul futuro governo di Damasco. Così come l’attuale attrito tra Mosca e Ankara rende assai complicata la riesumazione di Turkish Stream, l’oleodotto sostitutivo del defunto South Stream che Obama prova da tempo a sabotare.

Barack è dunque esclusivamente impegnato a dipingere come pericolosa l’azione di Putin e a risparmiarsi fortuite frizioni con il contingente russo, in una contingenza invece percepita come favorevole. Al massimo, nei prossimi giorni il presidente ordinerà una cosmetica intensificazione degli attacchi contro le postazioni dello Stato Islamico. Non a caso il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha indicato che non è in corso alcuna revisione della strategia americana applicata alla Siria. Né Washington ha proposto nuove sanzioni per censurare il Cremlino.

Piuttosto, dopo aver definito Putin come «destinato a fallire», il segretario alla Difesa, Ashton Carter, si sta industriando per il deconflicting. Specie dopo che nella giornata di mercoledì il metodo scelto dai russi per comunicare l’inizio dei raid ha letteralmente scioccato le autorità statunitensi. Circa un’ora prima dell’inizio dei bombardamenti sulla Siria, un generale russo con tre stelle sulla divisa si è personalmente recato presso l’ambasciata americana di Baghdad chiedendo di essere ricevuto dall’attaché militare, al quale ha annunciato cosa stava per accadere.

Tanta improvvisazione induce gli americani a pretendere un coordinamento più efficiente, ma non a modificare la loro interpretazione della crisi. Perché per Obama l’iniziativa russa rappresenta una svolta positiva. Indipendentemente dal massiccio spin applicato alla vicenda.

* Fonte: Limes

sabato 26 settembre 2015

IL GINEPRAIO SIRIANO (tutti contro il califfato)

[ 26 settembre]

Di contro ad un deviante complottismo che spiega le guerre fratricide nel vicino oriente, Siria in particolare, come risultato delle "diaboliche manovre americane", noi tentavamo di spiegare quali fossero le reali e profonde radici storiche di quei conflitti all'interno dell'Islam. Spiegavamo anche che un fattore decisivo dell'esacerbazione del conflitto sono gli appetiti egemonici confliggenti delle quattro principali potenze regionali (Israele, Iran, Arabia saudita e Turchia). Insistevamo nel dire che sbaglia chi pensa che le diverse milizie che si combattono sul terreno siriano-iracheno siano meri fantocci al servizio di queste potenze regionali o internazionali.
L'avanzata sino ad ora irresistibile dei takfiri dell'ISIS getta un preziosa luce nel buio. La Casa Bianca dopo aver chiuso l'accordo sul nucleare con l'Iran (alleato di Assad), invia Kerry a Mosca nel tentativo di trovare un accordo con Putin per "sistemare" la questione siriana. Con la Russia, che si è spinta ad inviare proprie truppe a sostegno del regime di Assad, anche Israele ha siglato un accordo.
Le diverse potenze regionali e internazionali, pur mirando ognuna a tutelare i propri interessi, sembrano insomma decise a fare fronte comune contro quello che considerano, per ora, il loro nemico comune, l'ISIS appunto.
In questo contesto gli Stati Uniti, dopo tanti tentennamenti, sembrano appunto aver deciso  di siglare un'alleanza con la Russia e l'Iran, intanto schiacciare l'ISIS, poi si vedrà.
Consigliamo la lettura di questo illuminante articolo apparso oggi su La repubblica.


Usa, Kerry vuole coinvolgere l'Iran per contrastare l'avanzata Is in Siria

«Nuova figuraccia, stavolta ufficiale, delle cosiddette forze siriane anti-Assad moderate (una sessantina di uomini) che, al costo di centinaia di milioni di dollari, gli americani hanno addestrato. Il Pentagono ha ammesso che questi 'suoì ribelli si sono arresi ai qaedisti del fronte Jubath al Nusra, consegnando loro sei pickup armati e munizioni fornite sempre dagli americani per avere salva la vita. Lo ha reso noto il colonnello Patrick Ryder, portavoce di quello che ogni giorno che passa si sta rivelando il comando colabrodo delle forze armate Usa per la regione, il Centcom. Lo stesso comando accusato di aver alterato i rapporti degli 007 sul terreno prima di passarli alla Casa Bianca per dimostrare progressi inesistenti nella campagna contro Is.

L'imbarazzante evento risale alla notte tra lunedì e martedì 21 e 22 settembre, quando gli uomini delle " Nuove Forze Siriane", i cosiddetti ribelli moderati addestrati dagli Usa, hanno consegnato ad un intermediario di al Nusra il loro equipaggiamento Made in Usa (come fecero le truppe irachene che si sciolsero come neve al sole davanti ad Is a giugno del 2014 in Iraq, abbandonando carri armati e Humvee agli uomini di Abu Bakr al Baghdadj) per poter avere salva la vita. La notizia è giunta al Centcom alle 19 di ieri ha spiegato Ryder. Quello di ieri è solo l'ultimo sviluppo sconcertante della fallimentare strategia Usa anti-Is. Lo scorso 2 novembre metà dei soli 54 ribelli moderati anti-Assad addestrati dagli americani disertarono arrendendosi sempre ad al Nusra. Notizia finora mai confermata - a differenza di quella di oggi - dal Pentagono.

La riluttante amministrazione Obama, indecisa su come intervenire in Siria dopo aver tracciato " red-line", limiti invalicabili che Assad opltrepasso', ha investito 500 milioni di dollari per formare un'unità di 5.400 ribelli moderati all'anno per un periodo di 3 anni, escludendo l'invio di proprie truppe di terra. Ma l'ottimismo iniziale si scontrò contro la sconsolante realtà che gli istruttori americani riuscirono a formare nel 2014 solo l'1% dei presunti 5.400 'ribellì sicuri: 54. Questi ultimi alla prima prova del fuoco, attaccati dai qaedisti di al Nusra - rivali di Is - lo scorso luglio, si dileguarono. Il secondo gruppo formato da 70 ribelli di 'provatà fedelta', si sono ora in parte arresi consegnando le loro armi a quanti dovevano combattere. Tutti eventi che fanno emergere sempre più convincente l'opzione russa a favore di un intervento diretto contro Is e le altre formazioni jihadiste sul terreno (come dimostrano le forze schierate nella zona occidentale di Latakia) mentre sta emergendo il fallimento della strategia Usa dei raid aerei, iniziati poco più di un anno fa, il 26 settembre in Siria. Opzione russa di cui Barack Obama, dopo aver ostentato totale intransigenza, discuterà lunedì pomeriggio con Vladimir Putin (da due anni isolato dagli Usa per la crisi ucraina) a margine dell'Assemblea Generale Onu a New York.

In questo senso, dopo aver sdoganato, con l'intesa sul nucleare, l'Iran come interlocutore se non affidabile quanto meno utile, ora gli Usa hanno deciso di coinvolgere ufficialmente Teheran in un nuovo tentativo di risolvere la crisi siriana, dove gli ayatollah, insieme alla Russia, sono i principali alleati del regime di Damasco. Il segretario di Stato John Kerry tenterà di dare il via ad una nuova iniziativa per una soluzione politica alla tragedia siriana (dopo 60 mesi di conflitto, oltre 250.000 morti e 8 milioni di profughi) incontrando, tra gli altri, la prossima settimana a New York a margine dell'Assemblea Generale Onu, il suo omologo iraniano, Mohammad Javad Zarif.

Dopo aver sostenuto la fallita iniziativa Onu (siglata ormai 3 anni fa a Ginevra), portata avanti prima dall'ex segretario generale Kofi Annan, poi dall'algerino Lakhdar Brahimi e da ultimo dall'italo-svedese Staffan De Mistura, Kerry vuole provare lui in prima persona un nuovo approccio. Progetto che, fonti vicine al segretario di Stato, sottolineano è ancora allo stato 'larvale', per trovare " una formula che ci riporti a effettivi e sostanziali negoziati". Trattative che vedono il coinvolgimento oltre che dell'Iran, della Russia, dell'Arabia Saudita e di Paesi come il Qatar e la Turchia, ritenuti essere finanziatori di Isis. L'iniziativa di Kerry è vista più che favorevolmente nelle capitale europee alle prese con la crisi dei milioni di profughi che, in fuga dalla Siria ma non solo, premono, e sfondano, le sue frontiere».


* Fonte La Repubblica

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