[ martedì 2 luglio 2019 ]
“Vivremo finché vivrà la nostra causa, finché vivranno i nostri ideali…”.
Secondo Francesco Maria Toscano Putin decreta la fine del mondo liberale; l’intervista rilasciata al Financial Times avrebbe perciò "carattere epocale". Per Toscano l’analisi di Putin, basata sulla strategia antiliberale, ricalcherebbe la via tracciata da Dughin, teorico della “Quarta teoria politica”. Per Leonid Bershidsky, viceversa, l’antiliberalismo putiniano affonderebbe il suo gene originario nella storica tradizione conservatrice dell’arte di governo russa. Lo stesso Dragosei, sul Corriere della Sera del 29 giugno 2019, sostiene che la Russia avrebbe conosciuto solo parvenze di vero e proprio liberalismo nella sua storia: ai tempi della rivoluzione del 1905 e negli anni del governo Elstin dopo lo scioglimento dell’Urss. Per Putin, come per la stragrande maggioranza dei russi, quest’ultimo periodo è indissolubilmente legato allo sfacelo del paese, con la diaspora russa e la rapina oligarchica liberista dei tesori di stato — “Una delle più grandi tragedie del secolo” secondo lo stesso Putin. Che il liberalismo sia stato, nel conflitto interimperialista che va da fine '800 ai nostri giorni, e nella logica geoeconomica stessa dello scambio ineguale, lo strumento ideologico e la storytelling con cui la frazione liberal dell’Occidente si è imposta a livello planetario pare ormai fuori discussione. E ciò con il portato di razzismo soft e imperialismo che ha caratterizzato e caratterizza la superpotenza statunitense.
Tornando alla questione dell’antiliberalismo putiniano, in realtà la realpolitik putinista è quanto mai distante dalla declinazione ideologica della visione di Heidegger e della rivoluzione conservatrice tedesca proposta da Dughin, essendo un tentativo di sintesi tra una cultura di governo imperiale di sostanza tardo sovietica e una concezione del mondo appartenente ad un filone ben preciso della destra nazionale russa, che è quella di Berdjaev e Solzenicyn.
Non a caso tutto incentrato sulla Lezione di Bisanzio è il grande insegnamento politico del “metropolita di Putin”. Alla fine di gennaio 2008 il canale di stato russo mandò in onda per la Federazione tutta, per volontà diretta di Putin, il documentario dell’allora archimandrita Tikhon: «La caduta di un impero. La lezione di Bisanzio». Il messaggio politico del consigliere spirituale del presidente russo, traendo spunto dalla fine dell’Impero romano d’Oriente, era assai chiaro: il nemico politico della santa Russia o Terza Roma non è ad Oriente ma si trova ad Occidente. La terza Roma non avrebbe perciò dovuto ripetere l'errore strategico della seconda Roma, ossia volgersi con volontà imitativa ed infantile alle mode politiche e sociali occidentali. Tali mode politiche sarebbero rappresentate dal liberalismo, dal capitalismo casinò privatistico ed anticomunitario, dalla dittatura culturale e amorale Lgtb — che Putin ha anche di recente definito satanocratica e quintessenza dell'europeismo arcobaleno — e così di seguito. Da Occidente sarebbe arrivato il definitivo tentativo della sovversione globale russofoba o della nuova Rivoluzione colorata contro il Cremlino, avvertiva Tikhon più di dieci anni fa. Il metropolita di Pskov, che ha fortemente criticato nel settembre 2017 l’indifferenza del Patriarca Kirill nel corso delle proiezioni del film “Matilda” che avrebbero messo in cattiva luce “San Nicola lo Zar” (1868-1918), vide nel 2016 nell’incontro tra Papa Francesco e Kirill un esempio di linea “nikodimica”.
“Vivremo finché vivrà la nostra causa, finché vivranno i nostri ideali…”.
Vladimir Putin, Financial Times
Secondo Francesco Maria Toscano Putin decreta la fine del mondo liberale; l’intervista rilasciata al Financial Times avrebbe perciò "carattere epocale". Per Toscano l’analisi di Putin, basata sulla strategia antiliberale, ricalcherebbe la via tracciata da Dughin, teorico della “Quarta teoria politica”. Per Leonid Bershidsky, viceversa, l’antiliberalismo putiniano affonderebbe il suo gene originario nella storica tradizione conservatrice dell’arte di governo russa. Lo stesso Dragosei, sul Corriere della Sera del 29 giugno 2019, sostiene che la Russia avrebbe conosciuto solo parvenze di vero e proprio liberalismo nella sua storia: ai tempi della rivoluzione del 1905 e negli anni del governo Elstin dopo lo scioglimento dell’Urss. Per Putin, come per la stragrande maggioranza dei russi, quest’ultimo periodo è indissolubilmente legato allo sfacelo del paese, con la diaspora russa e la rapina oligarchica liberista dei tesori di stato — “Una delle più grandi tragedie del secolo” secondo lo stesso Putin. Che il liberalismo sia stato, nel conflitto interimperialista che va da fine '800 ai nostri giorni, e nella logica geoeconomica stessa dello scambio ineguale, lo strumento ideologico e la storytelling con cui la frazione liberal dell’Occidente si è imposta a livello planetario pare ormai fuori discussione. E ciò con il portato di razzismo soft e imperialismo che ha caratterizzato e caratterizza la superpotenza statunitense.
Tornando alla questione dell’antiliberalismo putiniano, in realtà la realpolitik putinista è quanto mai distante dalla declinazione ideologica della visione di Heidegger e della rivoluzione conservatrice tedesca proposta da Dughin, essendo un tentativo di sintesi tra una cultura di governo imperiale di sostanza tardo sovietica e una concezione del mondo appartenente ad un filone ben preciso della destra nazionale russa, che è quella di Berdjaev e Solzenicyn.
Quest’ultimo in più casi è stato definito da Putin il suo “padre spirituale” e tale milieu culturale, che si può considerare basato sul principio di una cultura cristiano-ortodossa fortemente politicizzata e modernizzata, è oggi ben rappresentato in Russia dalla
carismatica figura del metropolita di Pskov Tikhon per il quale la rivoluzione bolscevica sarebbe stata, almeno agli inizi, una sovversione russofoba guidata da una élite ebraica occidentalizzante e per il quale il primo avversario strategico della Russia putiniana non è affatto l’Islam ma l’ecumenismo di Roma e dell’ebraismo che mirerebbero a conquistare l’ecumene politico spirituale ortodossa, come i recenti fatti concernenti l’autocefalo scissionista Patriarcato di Kiev peraltro attesterebbero.
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Tikhon, vescovo di Egor’evsk, vicario del patriarca Kirill e Putin |
Putin lancia, nell’intervista al “Financial Times”, un profondo messaggio all’Occidente che è sfuggito agli analisti; lo statista russo definisce infatti Pietro il Grande il suo modello di governatore. Apparentemente sembra prendere così le distanze dalla destra imperial-bizantina ed antioccidentale tikhonita, che ha sempre visto il petrismo “prebolscevico” come fumo negli occhi. Ma Putin, da politico pragmatico, rivolgendosi all’Occidente afferma a chiare lettere di essere il continuatore di Pietro, il modernizzatore rivoluzionario e conservatore al passo con lo “spirito del tempo” e non della tarda élite sovietica, ingabbiata in un immobilismo conservativistico fondato sulla mera stabilità giuridica e poliziesca. Putin ribadisce che la Russia parteciperà su tutta la linea alle sfide strategiche del futuro prossimo, dall’IA alle nuove tecnologie militari. Non è pero in discussione la linea neo-bizantina basata sul concetto di Stato potenza imperiale.
Non a caso tutto incentrato sulla Lezione di Bisanzio è il grande insegnamento politico del “metropolita di Putin”. Alla fine di gennaio 2008 il canale di stato russo mandò in onda per la Federazione tutta, per volontà diretta di Putin, il documentario dell’allora archimandrita Tikhon: «La caduta di un impero. La lezione di Bisanzio». Il messaggio politico del consigliere spirituale del presidente russo, traendo spunto dalla fine dell’Impero romano d’Oriente, era assai chiaro: il nemico politico della santa Russia o Terza Roma non è ad Oriente ma si trova ad Occidente. La terza Roma non avrebbe perciò dovuto ripetere l'errore strategico della seconda Roma, ossia volgersi con volontà imitativa ed infantile alle mode politiche e sociali occidentali. Tali mode politiche sarebbero rappresentate dal liberalismo, dal capitalismo casinò privatistico ed anticomunitario, dalla dittatura culturale e amorale Lgtb — che Putin ha anche di recente definito satanocratica e quintessenza dell'europeismo arcobaleno — e così di seguito. Da Occidente sarebbe arrivato il definitivo tentativo della sovversione globale russofoba o della nuova Rivoluzione colorata contro il Cremlino, avvertiva Tikhon più di dieci anni fa. Il metropolita di Pskov, che ha fortemente criticato nel settembre 2017 l’indifferenza del Patriarca Kirill nel corso delle proiezioni del film “Matilda” che avrebbero messo in cattiva luce “San Nicola lo Zar” (1868-1918), vide nel 2016 nell’incontro tra Papa Francesco e Kirill un esempio di linea “nikodimica”.
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Nikodim Rotov |
Il nikodimismo prende il nome dal metropolita Nikodim Rotov, che misteriosamente passò a miglior vita proprio nel corso di un’udienza con Giovanni Paolo I nel 1978. Nikodim avviò una politica di collaborazione con Roma e con il Gran Rabbinato israeliano in epoca krusheviana sovietica.
Nikodimismo, nel lessico politico della destra imperialista neo-bizantina, significa perciò non ortodossia o vera e propria eresia in quanto l’essenza della teologia patristica sarebbe appunto anti-ecumenista ed antigiudaica. Gli antinikodimisti evocano lo spirito dell’Anticristo, che avanzerebbe mediante sionismo, ecumenismo, europeismo occidentale per il quale laicismo non significa legittima separazione tra sfera religiosa e politica, che lo stesso tikhonismo rivendica per la Russia, ma soppressione di ogni anelito spirituale e sacrale.
Circa un mese dopo l’incontro cubano tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill del 12 febbraio 2016, la frazione maggioritaria del Patriarcato di Mosca emanò un «Messaggio dei cittadini ortodossi russi agli organi di potere statale e alla gerarchia ecclesiastica con la richiesta di ripristinare legge e ordine». Il messaggio, di evidente ispirazione tikhonita, attaccò frontalmente la dichiarazione congiunta siglata dal Patriarca di Mosca e dal Papa durante l’incontro a L’Avana, in quanto non avrebbe rispettato il vero insegnamento ortodosso e sarebbe stata una apologia dell’eresia ecumenista, progettata per legittimare il movimento ecumenico al Sinodo pan-ortodosso che si sarebbe tenuto mesi dopo a Creta. L’attacco fu poi apertamente diretto contro Kirill, colpevole di aver firmato a nome di tutta la Chiesa ortodossa, di cui si sarebbe illegittimamente appropriato, una dichiarazione con il capo del Vaticano, riconoscendo di fatto una sorta di uguaglianza canonica con il Pontefice e delegittimando perciò stesso la definizione, di origine patristica, del “papismo” come eresia.
Va comunque precisato che ogni paragone di presunta affinità ideologica tra la prassi politica reazionaria e antimodernista di un K.P. Pobedonoscev (1827-1907) e il tikhonismo sarebbe fuori luogo. Il metropolita Tikhon non è infatti un reazionario né uno zarista stricto sensu. Per quanto anti-bolscevico che rivendica la storia di martirio e sofferenza dell’Ortodossia panrussa nel corso del XX secolo, egli, da buon realista, coglie nelle sue analisi i limiti strategici e politici del monarchismo zarista. Tikhon è infatti un bizantino moderno, che comprende la necessità di una dottrina strategica e di una prassi politica basata sulla tutela di un grande blocco imperiale di radice panrussista.
Putin si è sempre mosso, con saggia circospezione e prudenza, ricalcando questa visione politica e geopolitica di natura modernistico-bizantina tikhonita, non quella tutto sommato occidentalistica e germanofila, oltre che profondamente impolitica, di Dughin.
La democrazia sovrana tikhonita ha un ispiratore nell’imperatore bizantino Basilio II (958-1025), colui che realizzò il potere verticale e organico colpendo ribelli sovversivi e oligarchi accumulatori. Tikhon ama ripetere la frase di Alessandro II (1818-1881) che recita che «governare la Russia è molto facile, ma inutile»: ciò sottintende che il destino della Russia sarebbe nelle mani della “santa Vergine” e poco possono fare gli uomini al riguardo.
Lo stesso Solzenicyn stupì l’Occidente nel corso di una pubblica conferenza americana affermando: «Signori, la madre di Dio ha nel cuore la santa Russia» e concludendo così una sessione universitaria, che doveva durare almeno due ore… A differenza di Solzenicyn, lo starec solitario premiato da Putin con la croce di S. Andrea, il metropolita di Pskov è stato però capace di tradurre in realismo politico la visione del mondo basata sulla centralità assoluta della ”idea Russa”. L’organicismo antiliberale e democratico-ortodosso di Tikhon, piaccia o meno, si è inverato come mito politico del putinismo di governo. Nella concezione tikhonita, la riconquista ortodossa di Gerusalemme è un programma politico-strategico, da sviluppare diplomaticamente, come è ovvio, non militarmente, ma tale simbolicamente rimane. La visione del metropolita, tenuta in buona considerazione dal presidente, chiama alla battaglia per la sopravvivenza strategica panrussa con l’Occidente, anche cattolico, ed Israele, molto più che con l’Islam, che è ormai una componente fondamentale della Federazione. E' un mito politico, potenzialmente universalistico, assai più adeguato dunque alla nuova fase strategica e al conflitto imperialistico globale del tradizionalismo metafisico ed impolitico di Dughin. La chiave di volta per la comprensione della geopolitica e della storia contemporanea risiede soprattutto sul fatto che — quelle che seguono sono sue parole —
«l'odio vendicativo dell'Occidente nei confronti di Bisanzio e dei suoi eredi... continua tuttora. Senza capire questo stupefacente ma indubbio fatto politico, rischiamo di non capire molte cose della storia passata e contemporanea».
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