Nulla più di questo tema eccita la propaganda, fino a farla diventare ridicola, tanto grande è il divario tra questo chiacchiericcio da ubriachi e la sobria realtà delle cose. Da decenni si discute della riduzione delle tasse, ma i dati ufficiali sono lì a mostrarci, anno dopo anno, solo millimetriche variazioni della pressione fiscale. Variazioni dovute in genere più all'andamento del Pil che non a qualche modifica strutturale del sistema fiscale.
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lunedì 10 febbraio 2020
TASSE: IL CONVITATO DI PIETRA di Leonardo Mazzei
Nulla più di questo tema eccita la propaganda, fino a farla diventare ridicola, tanto grande è il divario tra questo chiacchiericcio da ubriachi e la sobria realtà delle cose. Da decenni si discute della riduzione delle tasse, ma i dati ufficiali sono lì a mostrarci, anno dopo anno, solo millimetriche variazioni della pressione fiscale. Variazioni dovute in genere più all'andamento del Pil che non a qualche modifica strutturale del sistema fiscale.
venerdì 24 gennaio 2020
LA VIA DELL'ITALEXIT di Leonardo Mazzei
Alcuni lettori, per niente convinti dell'ITALEXIT, ovvero dell'uscita dall'euro, hanno mosso delle obiezioni alle tesi di MPL-P101 pubblicate giorni addietro. "L'Italia è troppo piccola per reggere l'urto della reazione dei mercati", "col debito che abbiamo ci strangolerebbero", "i capitali fuggirebbero a gambe levate", "avremmo inflazione e... svalutazione". Volentieri entriamo nel dettaglio con questo articolo.
venerdì 17 gennaio 2020
MONETE COMPLEMENTARI: UNA CRITICA di Leonardo Mazzei
Commentando un mio articolo sui CCF (Certificati di Credito Fiscale), un nostro lettore — Dianade — così scriveva il 6 gennaio scorso:
«Lo so che c'é tanta informazione in rete su minibot e CCF, però che io sappia non c'é nessuno studio che faccia dei raffronti e spieghi le differenze tra l'uno e l'altro e tutte le implicazioni.
E non solo tra questi due, c'é anche la proposta di Mazzei dei BTP famiglia, c'é quella di Conditi, di Zibordi, la moneta parallela, etc. Io non mi ci raccapezzo. Credo che anche molti altri».
venerdì 6 dicembre 2019
DOSSIER: PERCHÉ NO AL MES
[ venerdì 6 dicembre 2019 ]
Si svolge oggi, sotto il Parlamento, promossa da LIBERIAMO l'ITALIA, la manifestazione contro il MES e contro l'eventuale ratifica da parte di governo e Parlamento. Sul MES se ne dicono tante, spesso si tratta di colossali bugie. Come stanno davvero le cose ce lo spiega questo DOSSIER (curato da Moreno Pasquinelli e approvato del Coordinamento nazionale di LIBERIAMO l'ITALIA ).
* * *
Mettiamo il DOSSIER a disposizione di tutti in una versione .pdf per la circolazione via web e smatphone o per la stampa.
Il contesto da cui nacque la bestia del MES
Dopo decenni di finanziarizzazione dissennata, nel 2007-2008, scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei mutui subprime, in sostanza la più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929. La conseguenza fu il cosiddetto “credit crunch”, il sostanziale blocco dell’offerta di credito da parte delle banche. L’onda d’urto globale travolse anzitutto l’Occidente, ma colpì in modo letale l’eurozona. I governi di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, dopo qualche esitazione, decisero di obbligare le loro banche centrali ad esercitare la funzione di prestatore di ultima istanza (lender of last resort), ovvero stampare la moneta necessaria per prestarla a banche e istituti simili, in grave crisi di liquidità. Il paracadute fornito dalla banche centrali evitò in effetti la catastrofe e l’economia poté riprendersi presto.
Per farci un’idea di quanto massiccia fu la manovra della Federal Reserve, basti ricordare che questa acquistò titoli sul mercato per circa 4500 miliardi. Risultato: vero che il deficit salì al 4,2% e il debito pubblico passò al 102% del Pil, ma la disoccupazione scese sotto il 5%, il Pil tornò a crescere del 2% e Wall street tornò presto ai livelli pre-crisi. Una linea “interventista” che la FED non ha mai abbandonato, se è vero, com’è vero, che nel settembre scorso è intervenuta con una gigantesca operazione di 260 miliardi in soccorso di diverse banche a rischio di collasso.
Non fu così nell’eurozona. Alla BCE, del tutto indipendente dai governi e dal Parlamento europeo, tenuta per statuto a rispettare le sue ferree regole monetariste (stabilità dei prezzi e tasso d’inflazione non superiore al 2%) è proibito di agire come prestatore di ultima istanza o di correre in soccorso degli Stati. Avemmo così, tra il 2010-2012, la cosiddetta “crisi dei debiti sovrani”: la finanza predatoria, proprio a causa di questa sua natura speculativa, e dato che la BCE non sarebbe intervenuta per assistere gli stati in sofferenza, cessò di finanziarli (i PIIGS in particolare), ed iniziò a sbarazzarsi dei titoli di debito che aveva acquistato. Non soltanto la BCE non corse in soccorso degli Stati sotto attacco ma, ubbidendo al comando della Germania e della Francia, impose alla Grecia di passare sotto il criminale comando della Troika — ricordiamo che il cosiddetto bazooka del “Quantitative easing” arriverà solo nel 2015. Per quanto concerne l’Italia, ottenute le dimissioni del governo Berlusconi che recalcitrava ad adottare draconiane misure antipopolari (lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto del 2011), impose il governo commissariale di Mario Monti che adottò politiche austeritarie senza precedenti.
Fu il fallimento di queste politiche (debito pubblico e deficit dei paesi posti sotto comando come la Grecia o auto-commissariati come l’Italia crebbero invece di scendere), che spinse l’Unione europea a dare vita al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).
Il MES com’era…
Il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), contestualmente alla modifica del Trattato di Lisbona, venne approvato in fretta e furia dal Parlamento europeo il 23 marzo 2011. Venne quindi ratiticato dal Consiglio europeo il 25 marzo. Questo il testo integrale.
Il Parlamento italiano, governo Monti in carica (sostenuto anzitutto da Pd e Pdl), lo approverà assieme al Fiscal Compact, nel luglio 2012. Solo la Lega votò contro, anche se ci furono molti altri parlamentari contrari e astenuti (sul MES 108 addirittura gli assenti al momento del voto).
Finanziato dai singoli Stati membri con una ripartizione percentuale in base alla loro importanza economica — la Germania, contribuisce per il 27,1 %, seguita dalla Francia, 20,3%, e dall’Italia,17,9%. Il finanziamento diretto da parte degli Stati ammonta a 80 miliardi di euro (l’Italia ha versato 14,3 miliardi, la Francia 20 e la Germania 27). La cosiddetta “potenza di fuoco” prevista a pieno regime è di circa 700 miliardi — i restanti 620 miliardi, proprio come qualsiasi altro fondo speculativo che deve fare profitto, il MES li raccoglierà sui mercati finanziari attraverso l’emissione di propri bond.
Fondato formalmente come un’organizzazione intergovernativa, esso, per la natura e le smisurate discrezionalità consegnategli, è stato concepito, né più e né meno, che come una super-banca d’affari privata con in più poteri politici e strategici di vita o di morte sui Paesi che dovessero cadere sotto la sua “tutela”.
Scopo principale dichiarato ed essenziale del MES era ed è quello di salvare la moneta unica e l’Unione europea, mettendo entrambi al riparo dal rischio di collasso, esito altamente probabile nei casi eventuali di default di questo o quello stato membro, quindi la loro uscita dall’eurozona. A questo scopo esso doveva reperire sul mercato le necessarie risorse finanziarie per poi fornire “assistenza” (prestiti) ai Paesi dell’eurozona che si trovassero in difficoltà nel finanziarsi sui mercati.
In cambio di questa “assistenza” il MES, costituzionalmente investito di funzionare come prestatore di ultima istanza, ha l’autorità insindacabile di imporre agli Stati “assistiti” feroci politiche economiche e di bilancio: tagli alla spesa pubblica, a pensioni e salari, aumenti dell’imposizione fiscale, privatizzazione e vendita dei beni pubblici. Sotto mentite spoglie proprio il massacro che la Troika ha compiuto in Grecia. In sostanza, come accaduto alla Grecia, i paesi che dovessero ricorrere allo “aiuto” del MES, in cambio, dovranno cedergli piena sovranità, così che il Paese diventa un suo protettorato semicoloniale.
Come se non bastasse il Trattato consegnava, all’interno del comitato direttivo del MES, il potere di veto solo a Germania e Francia. Ergo: questi due Paesi avevano l’ultima parola sugli “aiuti” e nell’imporre le condizioni per erogarli. Tra quests condizioni la stessa “ristrutturazione
Peggio ancora: il MES si sceglieva motu proprio i controllori del suo operato; ad esso era consentito di operare al di sopra di ogni legge nazionale e comunitaria; i suoi membri potevano agire nell’assoluta segretezza; essi godevano di una illimitata immunità civile e penale (nessuno poteva essere perseguito in caso di abusi ed anche crimini); esso gode della cosiddetta “neutralità fiscale”, di fatto si appoggia ai paradisi fiscali per non pagare tasse sui suoi utili
I “sovranisti”, ovvero i pesci in barile
Attenti adesso alle date. Il vertice dell’Unione europea tenutosi il 29 giugno del 2018 (era in carica il governo giallo-verde) annuncia di voler “rafforzare” il MES, “riformandolo”. La ragione di questa “riforma” è palese: il vecchio MES non viene più considerato adeguato a fare fronte al rischio di una tempesta finanziaria globale che, considerata altamente probabile, potrebbe far saltare l’eurozona. Una conferma palese che, al di là delle chiacchiere di circostanza e dei peana verso Draghi, gli stessi tecnocrati prendono atto del fallimento loro e della politica di Quantitative Easing della BCE.
I tecnici si mettono al lavoro per emendare e aggiornare il vecchio Trattato del MES.
Così il 14 dicembre 2018 (governo giallo-verde in carica) il vertice dei paesi dell’eurozona approva le linee generali il “prospetto” con gli emendamenti per la revisione del MES.
E quindi arriviamo al 21 giugno 2019 quando si prende atto dell’accordo generale sul nuovo testo del Trattato. A nome del governo giallo-verde sempre in carica c’erano Conte e Tria che danno l’assenso. In questi giorni assistiamo al baccano assordante della Lega che accusa Conte di aver “tradito” la Risoluzione approvata dal Parlamento il 19 giugno 2019. Salvini e company vorrebbero far credere che quella Risoluzione impegnava Conte e Tria a respingere la riforma del MES.
Per quanto sia chiaro che Conte e Tria siano asserviti alla cupola eurocratica, l’accusa è falsa. La Risoluzione, riguardo al MES affermava solo quanto segue:
«è opportuno sostenere l’inclusione, nelle condizionalità previste dal MES e da eventuali ulteriori accordi in materia monetaria e finanziaria, di un quadro di indicatori sufficientemente articolato, compatibile con quello sancito dal Regolamento (UE) n. 1176/2011, dove si consideri quindi fra l’altro anche il livello del debito privato, oltre a quello pubblico, la consistenza della posizione debitoria netta sull’estero, e l’evoluzione, oltre che la consistenza, delle sofferenze bancarie, onde evitare che il nostro Paese sia escluso a priori dalle condizioni di accesso ai fondi cui contribuisce».La Risoluzione, come si vede, non solo non respingeva il MES, accettava la riforma chiedendo solo venissero considerati altri criteri per accedere all’assistenza del MES medesimo e respinti eventuali automatismi nella ristrutturazione del debito pubblico.
In barba alle resistenze di economisti come Alberto Bagnai e Claudio Borghi, c’è stato un evidente e implicito cedimento politico (dopo quello compiuto a dicembre 2018 sulla Legge di Bilancio). De facto la Lega non ha mai deviato dalla “linea Giorgetti”.
Non dimentichiamo che erano i giorni in cui la Commissione europea minacciava una procedura d’infrazione. I giallo-verdi, Lega compresa se l’erano praticamente fatta sotto: non consegnarono a Conte e Tria alcun mandato, né quello di dire no alla riforma, né tantomeno di dire no al MES. Peggio: chi abbia letto la selva di inaccettabili emendamenti è portato a chiedersi se dirigenti e parlamentari di Lega a 5 Stelle li abbiano letti davvero. Temiamo di no, altrimenti avrebbero dovuto convenire, almeno, per un rifiuto categorico della “riforma”.
Il MES com’è diventato
Veniamo ora a questa famigerata “riforma”. Le cose, sono peggiorate o migliorate per il nostro Paese? Fermi restando i già terribili criteri del vecchio MES, sono peggiorate, e di molto. Sono infatti diventate molto più severe, e di molto, le cosiddette “condizionalità” per poter accedere allo “aiuto” del MES. Per di più con le modifiche apportate vengono aumentati sia i poteri del MES che le sue facoltà di ingerenza negli Stati, e si rafforza la sua indipendenza — che diviene totale, anche rispetto agli organismi Ue come la Commissione o il Consiglio, per non parlare del cosiddetto “Parlamento europeo”. Altro che “democrazia”! Il MES è l’incarnazione stessa della natura oligarchica e tecnocratica, oltre che liberista dell’Unione europea.
Non è facile, per un comune cittadino, capirci qualcosa. Si tratta di 35 pagine di farraginosi e contorti emendamenti, quasi quanto l’intero Trattato originale, scritti nel tremendo linguaggio dei tecnocrati, cioè comprensibile solo a degli iniziati.
Incombente minaccia. Vengono istituite, in caso di tempesta finanziaria, due linee di credito, di fatto dividendo i Paesi dell’eurozona, in barba ad ogni principio di solidarietà europea, in affidabili (seria A) e inaffidabili (serie B).
A – Quelli di serie A, che rispettano un deficit sotto il 3%, un rapporto debito/pil entro il 60% (riconfermate, come si vede, come intangibili le assurde due regole alla base della Ue), e che non abbiamo procedure d’infrazione, potranno accedere facilmente ai crediti del MES. Per di più il nuovo Trattato terrà conto dell’assenza di problemi di solvibilità bancaria e che abbiano avuto accesso ai mercati finanziari a “condizioni ragionevoli”. Questa prima linea di credito è chiamata PCCL (Linea di Credito Precauzionale Condizionata).
B – Quelli di serie B, i quali, come scrivono lorsginori “deviano” dal Patto di stabilità e crescita. E’ palese che l’Italia è esclusa da questa categoria, mentre verrebbe collocata nella seconda linea di credito denominata ECCL (Linea di Credito Condizionata Rafforzata). Il MES fornirebbe aiuto solo a determinate condizioni, ovvero che il Paese in questione adotti politiche di bilancio e sociali per un rientro forzoso entro i parametri del 3% e del 60%. Ergo: ove l’euro barcollasse a causa di una nuova tempesta finanziaria globale e l’Italia dovesse ricorrere allo “aiuto” del MES, dovrebbe procedere a tagli immani della spesa pubblica, al massacro sociale, a svendere a predatori stranieri gran parte dei beni e delle aziende pubbliche.
E’ facile intuire come non solo sia falso che nel Trattto non siano contemplati “automatismi”, che date le condizioni terribili e di ardua attuazione, ove l’Italia dovesse ricorrere a questo eventuale “soccorso” del MES, il Paese verrebbe gettato nel girone infernale dei Paesi insolventi, con rischio effettivo di un caotico default.
La spada di Damocle. Per i Paesi di serie B i tecnocrati hanno previsto che il MES, prima di concedere “assistenza” possa chiedere loro la “ristrutturazione” maligna del debito pubblico, ovvero una brutale svalutazione del valore dei titoli di stato in mano ai suoi possessori. Tecnicamente questa “ristrutturazione si riferisce alle famigerate CACs (Clausole di Azione Collettiva) che implicano, in barba all’Art. 47 della nostra Costituzione, che i titoli di Stato potrebbero non essere più garantiti.
Il MES interverrebbe quindi solo dopo il default, comprando quindi i titoli di debito a prezzi stracciati. Perché questa “ristrutturazione” sarebbe nefasta? Perché milioni di cittadini che hanno acquistato titoli italiani, si troverebbero dimezzato il valore del loro risparmio. Va da sé che davanti a questo rischio è altamente probabile che si inneschi una fuga dai titoli italiani, coi paperoni e le stesse banche che vorranno sbarazzarsi di BTP, Bot ecc., per acquistare quelli di Paesi a tripla A. Non si fa altro, quindi, che incoraggiare la fuga dei capitali dal nostro Pese ed aggravare il pericolo di una crisi di debito, con spread in rialzo ecc.
Banche: la corda sostiene l’impiccato
Al peggio non c’è limite. Il Trattato riformato stabilisce che esso verrà applicato contestualmente all’attuazione della letale (non solo per l’Italia) Unione Bancaria europea.
Si istituisce, allo scopo di impedire agli Stati ogni salvataggio, un “Fondo Unico di Risoluzione” costituito dalle banche europee, ma sotto la stringente sorveglianza del MES. Le conseguenze per le banche italiane sarebbero devastanti. Non a caso addirittura due europeisti di ferro come il governatore di Bankitalia Visco e il Presidente dell’ABI Patuelli, hanno lanciato l’allarme.
Nel Trattato del MES, nascosto tra le pieghe degli arzigogolati emendamenti riguardante il “completamento dell’Unione bancaria”, su pressione anzitutto tedesca (in particolare del Ministro delle Finanze Olaf Scholz), è stato introdotto il criterio di “rischio rating sui titoli di debito”. Dato che le banche italiane hanno in pancia centinaia di miliardi di titoli di stato, non solo per esse si renderebbe altamente pericoloso acquistarne di nuovi, il punteggio negativo le spingerebbe in un tunnel senza via di scampo. Ed è evidente che ciò avvantaggerebbe la Germania. Dato infatti che circa 400 miliardi di titoli pubblici italiani è oggi in possesso delle banche italiane, esse si troverebbero con i loro asset falcidiati. Quella che lorsignori, con linguaggio criptico, chiamano “ponderazione dei titoli di stato”, che null’altro sarebbe se non una decurtazione lineare del valore dei titoli, farebbe saltare il sistema bancario italiano.
I tecnocrati hanno previsto pure questo, e hanno stabilito che le banche, se vorranno sopravvivere e non essere mangiate da quelle tedesche e francesi, dovranno ricorrere al bail-in, ovvero pagheranno un prezzo salatissimo i costi del salvataggio non solo gli azionisti e gli obbligazionisti ma pure i correntisti — come già accaduto a Cipro.
Viene così brutalmente calpestato l’Art. 47 della Costituzione che obbliga lo Stato a “favorire” e “proteggere il risparmio”. Si tratterebbe dell’ultimo strappo anticostituzionale, visto che da decenni i governi, accettando di sottomettersi alle regole dell’Unione europea hanno già ucciso il medesimo articolo che recita: “la Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Sarà il MES e solo il MES ad arrogarsi questa funzione, obbligando le banche italiane, diventate suo ostaggio, a chiudere i rubinetti del credito a cittadini e imprese, con ciò facendo precipitare il Paese in una depressione spaventevole.
Abbiamo così che i Paesi che coi criteri ordoliberisti avrebbero un sistema bancario “sano” — per lorsignori sarebbero “sane” le banche tedesche, francesi e olandesi piene zeppe di derivati tossici mentre sarebbero “malate” quelle italiane dati i crediti deteriorati che ancora hanno in pancia — sono palesemente avvantaggiati, mentre quelli come l’Italia, malgrado le banche abbiano compiuto enormi sforzi di ricapitalizzazione, per godere dell’assistenza dovrebbero non solo sottomettersi a cure da cavallo —tagli drastici ai costi e una stretta nel credito— ma ricorrere al bail-in. E’ quindi un fatto, visto che i Paesi di serie A godranno di una corsia preferenziale per accedere al soccorso del MES, che coi soldi versati dall’Italia al MES saranno salvate in prima battuta le banche tedesche, francesi o olandesi.
Il soccorso del MES è come la corda che sostiene l’impiccato.
Potremmo continuare scendendo in dettagli che confermano l’impianto vessatorio (anzitutto verso il nostro Paese) della “riforma”. La morale è che lassù sono disposti a tutto pur di salvare l’euro e questa Unione liberista e matrigna, anche a far affondare l’Italia.
Come uscire dalla gabbia
Le destre “sovraniste” non la dicono tutta. Non basta chiedere il governo ponga un veto alla riforma del MES. Il veto va posto sul MES in quanto tale. Ove non lo facesse è giusto che esso si dimetta e che gli italiani siano chiamati al voto. Tanto più risibile, lo diciamo ai 5 stelle e a LEU, limitarsi a chiedere un “rinvio” per riformare la riforma.
Le destre “sovraniste” predicano bene ma razzolano male. Esse stanno sbraitando sul MES, ma cosa effettivamente propongono in alternativa alle direttive che vengono dall’Unione europea in caso di un altamente probabile shock finanziario globale? Essendo, come il loro compari del PD di provata fede liberista, e avendo abbandonato l’uscita dall’euro e la riconquista della sovranità monetaria, non riescono a proporre nulla di serio e credibile.
Se il male è grave la terapia non può che essere radicale. Quando arriverà il prossimo schock finanziario tutto dipenderà fondamentalmente da una questione: quella della sovranità nazionale, che include ovviamente la decisiva sovranità monetaria. Ciò è tanto più vero per un paese come l’Italia. E’ sicuro che un’Italia ancora prigioniera dell’euro e con le mani legate dai vessatori meccanismi europei, non potrà che restare in balia dei mercati finanziari (cioè delle grandi banche d’affari, fondi, etc.).
Un Paese che avesse scelto l’uscita dalla moneta unica avrebbe invece la possibilità di attuare misure difensive di notevole efficacia.
La prima di queste misure è quella del nuovo ruolo da assegnare alla Banca d’Italia, riportata a tutti gli effetti sotto il controllo dello Stato, come prestatrice di ultima istanza. In questo modo l’arma del debito puntata contro il nostro Paese risulterebbe del tutto spuntata.
La seconda misura è la nazionalizzazione dell’intero sistema bancario, a partire dalle principali banche nazionali (che non potranno più svolgere le funzioni proprie delle banche d’affari). In questo modo lo Stato provvederebbe ad eventuali salvataggi salvando il risparmio popolare senza alcun bisogno di interventi esterni. Al tempo stesso le banche pubbliche sarebbero la base di ampi progetti di investimenti pubblici, senza i quali non è possibile immaginarsi alcuna uscita dalla crisi.
La terza misura consiste nel blocco all’esportazione dei capitali, sia attraverso drastiche misure d’emergenza, sia con un’intelligente politica di investimenti nazionali in grado di ridare credibilità ad un percorso di ripresa economica.
La quarta misura dovrebbe consistere in provvedimenti tesi a favorire lo spostamento delle attività finanziarie da quelle speculative ed estere, a quelle interne e volte a finanziare il piano di investimenti pubblici (che andrà visto anche come grande piano per il lavoro). Se si riuscisse a riportare una quota del 20% della ricchezza finanziaria complessiva (4.500 miliardi) ad investire o direttamente nell’economia reale, o a finanziare gli investimenti statali con l’acquisto dei titoli del debito pubblico, la crisi finirebbe sia sul lato del lavoro che su quello del bilancio statale. A tale proposito utile sarebbe l’emissione di nuovi titoli di stato rivolti esclusivamente alle famiglie italiane, garantiti al 100%, e adeguatamente remunerati a condizione della loro non negoziabilità sul mercato secondario per un certo numero di anni.
Il Coordinamento nazionale di Liberiamo l’Italia
Dossier a cura di Moreno Pasquinelli
mercoledì 27 novembre 2019
COS'È VERAMENTE IL MES? di Tiziana Alterio
[ mercoledì 27 novembre 2019 ]
Nel video che segue la giornalista Tiziana Alterio (nella foto) tra i promotori della manifestazione del 12 ottobre scorso LIBERIAMO L'ITALIA) ci spiega in parole semplici la grande truffa del MES.
Ricordiamo che sotto il Parlamento, venerdì 6 dicembre, dalle ore 15:30 alle 18:30, indetta da LIBERIAMO L'ITALIA si svolgerà la manifestazione CONTRO IL MES e in DIFESA DEL CONTANTE.
Previsti diversi interventi di attivisti, economisti, intellettuali e sindacalisti.
Nel video che segue la giornalista Tiziana Alterio (nella foto) tra i promotori della manifestazione del 12 ottobre scorso LIBERIAMO L'ITALIA) ci spiega in parole semplici la grande truffa del MES.
Ricordiamo che sotto il Parlamento, venerdì 6 dicembre, dalle ore 15:30 alle 18:30, indetta da LIBERIAMO L'ITALIA si svolgerà la manifestazione CONTRO IL MES e in DIFESA DEL CONTANTE.
Previsti diversi interventi di attivisti, economisti, intellettuali e sindacalisti.
mercoledì 30 ottobre 2019
CHE RIVOLUZIONE ABBIAMO ALLE PORTE? di Piemme
"Degno erede dei padri fondatoriȓ", "l'uomo che tiene alto il sogno europeo", "Colui che ha salvato l'euro".
"C'è molto di più", scrive tuttavia Repubblica, nella cerimonia svoltasi a Francoforte con cui Draghi ha lasciato il testimone alla Lagarde.
Sì, c'è molto di più.
La cerimonia, presenti tutti i primi ministri ed capi di stato dell'Unione è stata la più plastica raffigurazione di cosa essa sia: una confederazione slabbrata di regni e feudi il cui principale collante è la moneta unica, di qui la figura del banchiere centrale come reale imperatore.
Spesso, per raffigurare il sistema neoliberista globale e individuare i membri della sua cupola pensante e strategica, si è ricorsi all'analogia storica con la Chiesa cattolica durante il Medioevo. Un nuovo clero si è scritto spesso, un ordine sacerdotale, con in cima una vera e propria curia. La cerimonia dell'altri ieri è stato infatti come un vero e proprio conclave, l'adunanza solenne con cui cardinali scelgono il Papa. Il super-banchiere non solo come imperatore, ma Papa allo stesso tempo, anzi uno stregone dai poteri straordinari e salvifici poiché in grado di padroneggiare le facoltà magiche di quel mistero che è la moneta.
Ciò che accade, detto per inciso, anzitutto nell'Unione europea, a dimostrazione che quest'ultima, del sistema neoliberista globale rappresenta la sua più avanzata depravazione bancocratica e finanziarista. A dimostrazione di una specie di circolare "eterno ritorno", di una ripetizione di ciò che l'Europa ha già vissuto. Più il capitalismo avanza, ovviamente in nome del progresso, più esso sembra invece condannato a ricalcare un ordine politico e di classe piramidale di tipo feudale.
Io non so se si attagli a questa configurazione destinale la categoria di "capitalismo assoluto". Quale che sia il nome che vogliamo dare all'ordine di cose esistenti, una cosa è chiara, esso non è solo post-democratico, esso è per sua natura anti-democratico.
Qui ci spieghiamo le fortissime spinte popolari e "sovraniste" che si fanno largo in Occidente e soprattutto dentro l'Unione europea. A dispetto del colore politico che esse assumono, la loro sostanza è intimamente democratica.
La rotta di collisione tra quest'ordine neo-feudale e le spinte "sovraniste" dei popoli è ineluttabile. Quale potrà essere l'esito di questa collisione? Sarà una rivoluzione popolare che come uno tsunami spazzerà via l'ordine di cose esistenti e con esso la sua onnipotente casta clericale di bancocrati.
Un nuovo 1789 più che un altro 1917.
Nessun dorma.
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venerdì 25 ottobre 2019
SALVINI E IL SORRISETTO BEFFARDO DI DRAGHI di Leonardo Mazzei
[ sabato 26 ottobre 2019]
Questa mattina, in quel di Pescara, inizia l'annuale kermesse di A/SIMMETRIE, ovvero la cerimonia con cui Alberto Bagnai chiama a raccolta fedeli, chierici, gregari, quindi studenti e insegnanti affamati di crediti per dare spessore al loro curriculum. Quale sarà ora la narrazione del nostro dopo il grande patatrac del governo giallo-verde e il voltafaccia di Salvini? Per farsene un'idea non serve andare in pellegrinaggio, basta leggere il programma. La parola magica è decommissioning. Un lemma che in inglese sta per disattivazione, disarmo, dismissione. Decommissioning globalism, deflation, european semester, potential output, banking union....
Se si voleva una prova provata che la giravolta della Lega sull'euro non è solo una paraculata, l'abbiamo in queste contorsioni pescaresi. Avendo il "grande" capo affermato che l'euro è irreversibile, di necessità si deve fare virtù. L'uscita dall'euro è rimpiazzata dalla "disattivazione", il sovranismo dall'altreuropeismo. E voi che pensavate che l'opportunismo allignasse solo a sinistra.
* * *
Il dietrofront di Salvini e l'imbarazzo dei suoi economisti
Nell'ultima conferenza stampa in qualità di uomo-euro, Mario Draghi ha così festeggiato le recenti retromarce di M5s e Lega sulla moneta unica: «Everybody in Italy says today that the euro is irreversible». Dunque «oggi in Italia tutti dicono che l'euro è irreversibile», laddove con quel "tutti" Draghi ha inteso riferirsi in primo luogo alle recenti dichiarazioni di Matteo Salvini.
Per togliere ogni incertezza ha infatti aggiunto che: «I dubbi ipotetici che c’erano in una parte della governance dell’Italia ora non ci sono più». E, per chi proprio non avesse capito, il solerte Corsera ci informa come la frase sulla "irreversibilità" sia stata pronunciata «sorridendo e certamente pensando a Matteo Salvini».
Ora, è chiaro come Draghi abbia voluto strafare — anche secondo le statistiche di Eurostat l'Italia resta il paese più euroscettico dell'Unione — ma certamente ha colto il punto: la normalizzazione di M5s e della Lega. Ovviamente, come ogni normalizzazione, anche questa non può essere totale. Sia nei Cinque Stelle che, soprattutto, nel partito salviniano restano dunque settori sovranisti tuttora convinti della necessità di uscire dall'euro.
Ma, si sa, quel conta è la linea espressa dai gruppi dirigenti, ed essa non lascia spazio a dubbi. Tanti sono dunque i sovranisti delusi e spiazzati. Se nei Cinque Stelle si preferisce parlar d'altro, nella Lega si ricorre alla solita narrazione consolatoria, quella secondo cui il fine dell'uscita non sarebbe cambiato; cambiata sarebbe solo la comunicazione, adesso tesa a dissimulare quell'obiettivo.
Questa storiella è davvero avvincente. Ed ha il vantaggio di non poter mai essere smentita. Tu cominci a rinunciare ai tuoi obiettivi? Niente paura, è solo un modo per disorientare l'avversario, non facendogli conoscere le tue reali intenzioni. Tu finisci, via via, per assumere le posizioni del nemico? Perfetto, vuol dire che siamo vicini all'obiettivo! E più si rinnega quel che eravamo (o dicevamo di essere) e più si è vicini alla vittoria. Talmente vicini che non ci si arriva mai... E non arrivandoci chi potrà mai smentire la bontà di questa dissimulazione?
Un esempio di come funzioni questo meccanismo ci viene dalla storia del Partito comunista italiano (Pci). Negli anni settanta del secolo scorso questo partito operò una serie di svolte piuttosto pesanti, tutte presentate però ad una certa parte della base come semplici espedienti tattici. Proponiamo il "compromesso storico" con la Democrazia Cristiana (1973), ma solo per batterla meglio. Accettiamo apertamente la Nato (1976), ma al fondo restiamo filo-sovietici coi baffi. Diciamo sì alla politica dei sacrifici (governi Andreotti 1976-79 - svolta sindacale dell'Eur 1978), ma è solo perché la classe operaia deve ormai farsi Stato. Eccetera, eccetera, eccetera. Insomma, arretriamo di continuo, ma lo facciamo in nome della rivoluzione. Peccato che al posto della rivoluzione arrivò invece la Bolognina e lo scioglimento del Pci: chissà perché...
Naturalmente, come già detto, la narrazione di cui sopra riguardava solo ed esclusivamente una certa parte della base. Una parte via via sempre più minoritaria. L'altra, unitamente ai gruppi dirigenti ai vari livelli, ben sapeva dove si stava andando. E lo approvava. Ma chi lo sapeva ancora meglio era la classe dominante dell'epoca, tant'è che con la Seconda repubblica il personale politico ex-Pci (si pensi all'orrida figura di Napolitano) sarà quello prescelto da lorsignori per far digerire ogni porcata neoliberista al popolo lavoratore.
Ora, i paragoni storici valgono quel che valgono, ma — mutatis mutandis — ho l'impressione che qualcosa del genere stia accadendo a quella parte della Lega che crede davvero alla battaglia per la sovranità nazionale e che dovrebbe adesso digerire la salviniana irreversibilità dell'euro come stratagemma, pensate un po', per arrivare all'uscita dall'euro. Caspita, che furbi! Chissà perché non ci avevano pensato finora!
Non so se questa favoletta verrà propinata in questo fine settimana, nell'annuale raduno pescarese organizzato da Bagnai. Probabile che si aggiri il tema parlando d'altro, un po' come quando nel Pci gli intellettuali organizzavano dotti convegni su Gramsci, proprio mentre la dirigenza politica si adattava sempre più al pensiero unico neoliberista. Insomma, un modo come un altro per tenere ancora in piedi una commedia ormai scaduta di livello.
Agli inizi di settembre mi ero permesso di rivolgere a Bagnai dodici domande. La dodicesima di queste domande, così riassumeva la questione:
«Alla luce di quanto abbiamo visto finora, non è che nella Lega le posizioni di Bagnai sono state sonoramente battute?».
Ovviamente, ma questo era scontato, quelle domande non hanno avuto risposta alcuna dall'interessato. Adesso però, dopo l'uscita salviniana di metà ottobre, una risposta ce la dà Mario Draghi. Il quale sulla normalizzazione dell'Italia si illude (o finge di farlo), ma su quella della Lega salviniana sa quel che dice. Canta vittoria e nessuno gli replica, qualcosa vorrà pure dire.
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mercoledì 23 ottobre 2019
ARISTOTELE, LA LOGICA E L'EURO di Mario Monforte
[ mercoledì 23 ottobre 2019 ]
Un sillogismo … Si conosce un “fattore” elementare di ragionamento logico? Si tratta del sillogismo (teorizzato e sistematizzato da Aristotele). Lo riassumo per chi non l’avesse presente. Il sillogismo consta di A) una premessa maggiore, B) una premessa minore, C) una conclusione.
Quindi, il sillogismo: premessa maggiore + premessa minore = conclusione. La quale costituisce un giudizio incontestabile.
(premessa maggiore) tutti gli uomini sono mortaliPer negare questo sillogismo, si deve confutare o la premessa maggiore - che tutti gli uomini sono mortali - o la premessa minore - negando che Socrate sia un uomo. Se la prima e/o la seconda confutazione riescono, il sillogismo è falsificato: da respingere perché errato. Altrimenti, va assunto come giudizio vero (nell’esempio in questione ne è evidente l’inconfutabilità, dunque la verità).
(predicato universale affermativo);
(premessa minore) Socrate è un uomo
(predicato particolare affermativo);
(conclusione ) Socrate à mortale
(predicato particolare affermativo).
Applicazione al nostro presente:
(premessa maggiore) l’Ue/euro hanno rovinato il nostro popolo e paese, ne sono nemici (predicato universale affermativo); (premessa minore) abbiamo governi e forze politiche che sostengono l’Ue/euro (predicato particolare affermativo); (conclusione ) il presente governo e le sue forze politiche rovinano il nostro popolo e paese, ne sono nemici(predicato particolare affermativo).Per negare questo sillogismo, si deve confutare o la premessa maggiore - che l’Ue/euro abbiano rovinato il nostro popolo e paese, non ne siano nemici - o la premessa minore - negando che abbiamo governi e forze politiche che sostengono l’Ue/euro. Se la prima e/o la seconda confutazione riescono, il sillogismo è falsificato. Ma (premessa maggiore) la negatività dell’Ue/euro è ormai (infine!) riconosciuta (in misura maggiore o minore, ma comunque riconosciuta) da tutti gli analisti (esclusi i fan, che solo la negano senza dimostrarlo, e ora sono del tutto minoritari), mentre (premessa minore) negare che vi siano che vi siano governi e forze politiche che sostengono l’Ue/euro è solo una menzogna rispetto alle stesse dichiarazioni ufficiali di tali governi e forze politiche.
Dunque, va assunto come giudizio vero e inconfutabile che il presente governo e le sue forze politiche sono nemici del nostro popolo e paese. «Il resto…è silenzio» (come dice l’Amleto shakespeariano), coperto dalla canea di chiacchiere, giustificazioni, rassicurazioni - e fideismi vari (scriteriati: vedi in particolare i 5S residui). Per negare questo sillogismo, si deve confutare o la premessa maggiore - che l’Ue/euro abbiano rovinato il nostro popolo e paese, non ne siano nemici - o la premessa minore - negando che abbiamo governi e forze politiche che sostengono l’Ue/euro. Se la prima e/o la seconda confutazione riescono, il sillogismo è falsificato. Ma (premessa maggiore) la negatività dell’Ue/euro è ormai (infine!) riconosciuta (in misura maggiore o minore, ma comunque riconosciuta) da tutti gli analisti (esclusi i fan, che solo la negano senza dimostrarlo, e ora sono del tutto minoritari), mentre (premessa minore) negare che vi siano che vi siano governi e forze politiche che sostengono l’Ue/euro è solo una menzogna rispetto alle stesse dichiarazioni ufficiali di tali governi e forze politiche.
Dunque, va assunto come giudizio vero e inconfutabile che il presente governo e le sue forze politiche sono nemici del nostro popolo e paese. «Il resto…è silenzio» (come dice l’Amleto shakespeariano), coperto dalla canea di chiacchiere, giustificazioni, rassicurazioni — e fideismi vari (scriteriati: vedi in particolare i 5S residui).
domenica 29 settembre 2019
L'ITALIA NELL'EURO: INDAGINE SU UNA CATASTROFE di Vladimiro Giacchè
[ domenica 29 settembre 2019 ]
“Il coraggio di ciò che si sa”.
Il secondo governo Conte e la sinistra [1]
Friedrich Nietzsche diceva che bisogna avere “il coraggio di ciò che si sa”.[2]
b) decisioni sbagliate della Commissione Europea, come quella di proibire, nel novembre 2015, l'intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per salvare alcune piccole banche italiane (considerandolo erroneamente un "aiuto di Stato").
“Il coraggio di ciò che si sa”.
Il secondo governo Conte e la sinistra [1]
Friedrich Nietzsche diceva che bisogna avere “il coraggio di ciò che si sa”.[2]
1. Quello che sappiamo
Proviamo a mettere
assieme quello che sappiamo sulla traiettoria economica dell’Italia negli
ultimi decenni, su quanto è accaduto dall’introduzione dell’euro, prima e dopo
la crisi e su quanto è accaduto dopo il 4 marzo 2018. Ci aiuterà a capire cosa
fare.
1.1. La traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni è la storia di un successo catastrofico
A
differenza di quanto vuole una vulgata diffusa quanto falsa, questo
paese negli scorsi decenni ha fatto diligentemente i compiti che gli sono stati
assegnati. Ha eliminato la scala mobile (1993), ha eliminato l’economia mista
(accordo Andreatta-Van Miert e poi privatizzazioni di Draghi), ha ridotto il
debito dal 117% del 1994 al 100% del 2007.
Usando
la crisi come spartiacque, possiamo distinguere due periodi, con l'aiuto di un
recente paper dell'economista olandese Servaas Storm[3].
Dal
1995 al 2008 abbiamo realizzato un avanzo primario del 3% annuo (principalmente
riducendo le spese sociali): nessuno è stato così bravo in Eurozona (la
virtuosa Germania nello stesso periodo può vantare un avanzo di appena lo 0,7%,
mentre la Francia evidenzia un disavanzo dello 0,1%). Questo sforzo in teoria
sarebbe stato sufficiente per ridurre il debito dal 117% del 1994 a uno
strabiliante 77% del 2008. Purtroppo però questo contenimento della spesa
pubblica ha ridotto la crescita e questo ha all'incirca dimezzato la riduzione
effettiva (in quanto il rapporto debito/pil è stato mantenuto più elevato dalla
conseguente minore entità del prodotto interno lordo).
Dal
2008 al 2018, poi, l'Italia è stata protagonista di un consolidamento fiscale
eccezionale. Lo possiamo vedere in questo grafico, tratto dalla ricerca di
Storm.[4]
Il consolidamento (restrizione) fiscale italiano ammonta a ben -227
miliardi di euro, a fronte di politiche espansive del valore di +461 miliardi
da parte della Francia e di un dato complessivamente neutro per i paesi
"Euro-4" (Belgio, Francia, Germania e Olanda). Secondo stime dello
stesso Tesoro italiano, questo consolidamento, nei soli anni tra il 2012 e
2015, ha ridotto il prodotto interno lordo del 5% e gli investimenti del 10%.
Tirando
le somme, i surplus primari realizzati dall'Italia tra il 1992 e il 2018 hanno
sottratto domanda per 1 trilione di euro cumulato. Nel periodo la spesa
pubblica non ha conosciuto alcun aumento, mentre gli investimenti sono
diminuiti in ragione dello 0,5% annuo. Il disavanzo primario pubblico francese
nel periodo ammonta a 475 miliardi, mentre il consolidamento realizzato
complessivamente da Germania, Belgio e Olanda ammonta a circa la metà (-510
miliardi) di quello della sola Italia.
Ma
siamo stati bravi anche su altri fronti. Ad esempio, abbiamo flessibilizzato il
lavoro e contenuto più degli altri i salari (con l'eccezione della sola
Germania nel periodo 2005-2010).[5]
I
salari sono aumentati di appena il 6% dal 1992 al 2018. Abbiamo così ridotto
l’inflazione, aumentato la quota del prodotto interno lordo che va ai profitti,
aumentato l’intensità di lavoro, e anche ridotto la disoccupazione sino allo
scoppio della crisi, come si vede nel grafico che segue.[6]
Ma al
tempo stesso abbiamo ridotto la produttività del lavoro, ridotto l’incentivo a
investimenti produttivi e ridotto la domanda aggregata; questo sia a causa sia
del calo della quota salari, sia a causa delle misure di austerità.[7]
La crescita cumulata della domanda interna nell'intero periodo tra 1992
e 2018 è risultata inferiore al 7%. Nello stesso periodo essa è cresciuta del
33% in Francia e del 29% in Germania. In tal modo è stato colpito anche il
saggio di profitto, che come determinante di nuovi investimenti è più
importante della quota parte dei profitti sul pil.
Infine,
il dato forse più significativo, che riguarda il calo dei redditi nel periodo
considerato. Se nel 1991 il reddito netto medio in Italia era pari a 27.499
euro (a prezzi costanti del 2010), nel 2016 era sceso a 23.277 euro: un 15% in
meno.
La
conclusione di Storm in relazione alla deludente crescita italiana del periodo
è questa: “about 60% of the deterioration
in Italy’s growth performance can … be directly attributed to Italy s
self-imposed commitment to the EMU norms”.[8] Ma è più in generale l'Eurozona
nel suo complesso ad essere l'area a minor crescita del mondo.
Per
questi trent'anni perduti, connotati da deflazione salariale, distruzione
dell’economia mista, taglio ai servizi sociali, crescita economica stentata e
quindi anche aumento del debito, gli indiziati sono parecchi.
La
borghesia italiana, renitente a investire (anche quando, come nel 1992/3, l’aumento
degli investimenti era stato pattuito quale contropartita dell’abolizione della
scala mobile), ma assai rapida nel salire sulla scialuppa delle
privatizzazioni: “il capitalismo delle bollette”, come è stato definito.[9]
L’ideologia (e la
prassi) del vincolo esterno: fatta propria da un'intera classe dirigente
(politica, tecnocratica ed economica) che all'inizio degli anni Ottanta decide
di risolvere i problemi sociali “legandosi le mani” e facendo fare a qualcun
altro il lavoro sporco.
In particolare, ai
mercati internazionali dei capitali, alle cui amorevoli cure, con il divorzio
Tesoro-Banca d’Italia del 1981, avvenuto - non lo si ricorderà mai abbastanza -
senza alcun passaggio parlamentare e con un semplice scambio di lettere tra le
parti, è affidato il debito pubblico italiano: con il risultato di vederlo
raddoppiato in 10 anni.
Poi, per risolvere il
problema che avevamo con i mercati finanziari internazionali, abbiamo pensato
bene di rivolgerci alla Germania. L'ingresso nell'euro è stato in effetti visto come un
traguardo precisamente al fine di ricevere
protezione, all'ombra della "credibilità" tedesca, dai mercati
internazionali, a seguito della crisi del 1992. Crisi che, a ben vedere, ci
aveva dato due lezioni: gli effetti
devastanti della speculazione su un paese che aveva scelto – attraverso
l’indipendenza della Banca Centrale dal Tesoro – di non monetizzare più il
debito, ma anche l'insostenibilità per l’Italia di un sistema a cambi
semi-fissi quale lo SME.
Si impara soltanto la
prima lezione e, volendo mantenere a tutti i costi l'indipendenza della Banca
Centrale realizzata nel 1981, si decide di imboccare la strada che porta a un
sistema di cambi (irrevocabilmente) fissi.
Qui entra in gioco un
altro protagonista: l’ideologia europeista, condivisa a questo punto non
soltanto più dall'establishment tradizionale, ma anche dall’intera sinistra
italiana postcomunista: l’Europa è considerata più in generale come una
frontiera di civiltà, come uno strumento di modernizzazione del nostro paese
(che per la verità era già, pur tra contraddizioni anche gravi, uno dei paesi
più moderni del mondo).
1.2. I vantaggi e gli svantaggi della moneta unica
I
vantaggi della moneta unica sono rappresentati dalla fine del rischio di cambio
e dalla convergenza dei tassi d'interesse verso quelli tedeschi. La prima ha
consentito un incremento ha ridotto i costi di transazione e favorito gli
scambi interni all’area monetaria, la seconda ha consentito di ridurre gli
interessi sul debito.
Gli
svantaggi sono rappresentati … dalla fine del rischio di cambio e dalla
convergenza dei tassi d'interesse verso quelli tedeschi. In altri termini:
quelle stesse conseguenze della creazione della moneta unica di cui per lungo
tempo la nostra pubblicistica ci ha decantato gli effetti positivi hanno avuto
effetti negativi non trascurabili.
In
effetti la fine del rischio di cambio è l'altra faccia della medaglia
della perdita della sovranità monetaria e della conseguente emissione del
debito in una moneta straniera, per di più regolata da una Banca Centrale
indipendente che ha il divieto di acquistare titoli del debito pubblico
degli Stati e il cui unico obiettivo è la stabilità dei prezzi (e non
l’occupazione) – caratteristiche che pongono un problema di compatibilità tra
gli obiettivi che ispirano la nostra Costituzione e quelli perseguibili nel
contesto dei Trattati europei.[10]
Inoltre il valore di questa moneta verso l'"estero" (ossia verso i
paesi che non fanno parte dell'eurozona) ovviamente sarà il prodotto della
media della forza economica dei paesi membri: con il risultato che per il più
competitivo la moneta unica sarà una moneta sottovalutata (rispetto a quello
che sarebbe stato il valore della sua singola moneta in assenza dell'unione
monetaria) mentre per i meno competitivi sarà sopravvalutata. Infine, ed è
questo l'aspetto essenziale, l'eliminazione di un meccanismo di mercato di
riaggiustamento dei differenziali di competitività quale quello rappresentato
dalla flessibilità del cambio - meccanismo che, ove presente, impedisce si
creino squilibri troppo marcati nella bilancia commerciale dei paesi membri - accresce
l’importanza di un altro fattore di competitività: quello consistente nella
“moderazione salariale”. In altri termini, l'impossibilità di effettuare
svalutazioni "esterne" costringe alla svalutazione interna, ossia a
ridurre e tenere bassi i salari, quale strumento principe per il recupero della
competitività.
Come
noto, prima della crisi europea la Germania, soprattutto a partire dal 2005
(entrata in vigore dell'Agenda 2010 di Schröder), ha giocato con
spregiudicatezza questa carta, come evidenziato tra gli altri dall’economista
tedesco Peter Bofinger nel 2015, il quale ha evidenziato il ruolo giocato dalla
politica mercantilistica tedesca imperniata sulla “moderazione salariale” nella
genesi della crisi dell’Eurozona (cfr. grafico sottostante).[11]
Come si vede dal grafico che segue,
tratto invece da un testo di Francesco Saraceno, negli anni considerati, la
performance della Germania in termini di "moderazione salariale"
spicca non soltanto nel confronto europeo, ma più in generale tra i paesi Ocse.[12]
Quanto
alla convergenza dei tassi di interesse verso quelli tedeschi, il vero
obiettivo inseguito dall'Italia entrando nella moneta unica, essa ha come noto
in effetti abbassato notevolmente i tassi di interesse di molti Paesi
dell'eurozona, tra cui il nostro, alleggerendo notevolmente l'onere
rappresentato dal servizio del debito (pubblico e non solo).
Ma
proprio questo ha, d'altra parte, aumentato la propensione all'indebitamento
nei paesi interessati. Si è così verificato il fenomeno descritto nel ciclo di
Frenkel, per cui questi paesi alimentano squilibri di bilancia commerciale, che
sono però mascherati dalla
creazione di debito, finanziato da altri paesi dell'area monetaria la cui
bilancia commerciale è per contro in attivo.
Questo
ci porta direttamente alla crisi. Che non è stata una crisi di debito pubblico,
ma una crisi nata da squilibri delle bilance commerciali. La circostanza è
stata ammessa sin dal 2013 dalla stessa Bce, come si vede dal grafico
sottostante, tratto da una conferenza del suo vicepresidente Vitor Constancio,
tenuta ad Atene nel maggio 2013;[13] esso evidenzia che la variazione
significativa nel debito dei Paesi periferici dell'Eurozona negli anni
precedenti la crisi riguarda l'accumulo di debito privato e non di debito
pubblico (soltanto in Grecia e Portogallo aumenta il debito pubblico, comunque
in misura inferiore all'accumulo di debito privato).
1.3. Gli aspetti critici dell’adesione dell’Italia alla moneta unica alla luce della crisi dell’area dell’euro
La crisi, tra i molti
evidenti lati negativi, ha un aspetto indubbiamente positivo: essa ha messo in
luce alcuni aspetti gravemente disfunzionali dell'architettura dell'Eurozona.
La crisi è in un primo periodo importata in Europa dagli Stati Uniti e assume
la forma di crisi da calo del commercio estero, e conseguentemente colpisce in
particolare due paesi esportatori quali la Germania e l'Italia; sotto il
profilo finanziario sono invece investite dalla crisi in particolare le banche
di Francia e Germania. Questo determina un sudden stop nei flussi di
capitale dai paesi centrali dell'Eurozona (i cosiddetti “paesi core”) a
quelli periferici.
A fine 2009 inizio
2010 inizia la crisi della Grecia e la cosiddetta "crisi del debito
sovrano". La Bce, in coerenza con quanto previsto dal Trattato di
Maastricht, si rifiuta di intervenire (peggiorando drasticamente una crisi che
sarebbe stata facilmente gestibile con un costo finanziario limitato), i
rendimenti dei titoli di Stato greci vanno alle stelle, e si produce un effetto
domino: tutti i paesi considerabili a rischio - per motivi diversi - vengono
prima o poi investiti dalla speculazione (sovente trasfigurata in
"severità disciplinatrice dei mercati"), in quanto la Bce dà ai
mercati il messaggio che non interverrà a loro difesa.
Il risultato per
quanto riguarda l'Italia, in termini di differenziale tra il rendimento dei
titoli di Stato italiani a 10 anni e dei loro omologhi tedeschi, è raffigurato
nel grafico seguente.
È
stato posto in luce come l'appartenenza stessa alla moneta unica abbia
comportato per i paesi membri una minore flessibilità di risposta alla crisi
rispetto a paesi che non ne fanno parte (De Grauwe, per esempio, ha confrontato
le diverse performance post-crisi di Spagna e Regno Unito):[14] in effetti, è evidente che nessun
paese membro dell’Eurozona può effettuare una politica monetaria indipendente,
abbassare i tassi in maniera perfettamente appropriata alle condizioni della
propria economia, né svalutare.
Ma c'è di
più. La gestione della crisi è stata connotata da 3 gravissimi errori:
1) il rifiuto di
considerare la realtà dei meccanismi alla base della divergenza tra paesi;
2)
l'interpretazione “morale” delle divergenze nell’eurozona (i paesi in deficit
sono sconsiderati, i paesi in avanzo sono virtuosi);
3) la
centralità attribuita al debito pubblico, anziché agli squilibri della bilancia
dei pagamenti.
Le
conseguenze di questo approccio sono molto serie:
1)
il primo errore impedisce di affrontare i nodi strutturali del problema
(arrivando sino a negare che gli avanzi eccessivi, pur sanzionabili in base al
Patto per la stabilità e la crescita del 1999, siano un problema);
2) il
secondo errore comporta il tentativo di realizzare un riequilibrio tra le
economie tutto a spese dei debitori (l'aggiustamento è
chiesto solo a loro, e non anche ai paesi creditori);
3) il
terzo errore, infine, ha per conseguenza l'imposizione ai paesi in crisi
politiche pro-cicliche (di restrizione fiscale) che peggiorano la situazione.
Il
risultato possiamo osservarlo confrontando le ben differenti performance di
Italia e Germania in termini di crescita dopo l'inizio della crisi.
Quanto
alle politiche monetarie adottate al fine di superare la crisi dalla BCE, esse
sono state tardive e insufficienti.
Sono state tardive, e non per caso: il ritardo serviva a imporre “la
disciplina dei mercati finanziari”. Per quanto riguarda il caso italiano, lo
stesso Luigi Zingales ne ha parlato in termini molto duri: “It was a form of economic waterboarding that has left the Italian economy devastated and
Italian voters legitimately angry at the European institutions”.[15]
Esse
sono state utili a impedire la fine dell’euro - e in effetti sono state
adottate non prima di quando tale prospettiva ha cominciato a profilarsi
seriamente all'orizzonte -, ma al tempo stesso sono state insufficienti a
risolvere la crisi. Questo per diversi motivi: perché la BCE non è (non può
essere ai sensi del Trattato di Maastricht) garante di ultima istanza dei
debiti sovrani e perché l'effetto delle politiche monetarie espansive,
convenzionali (diminuzione dei tassi d'interesse) e non convenzionali (acquisto
titoli e assets vari sui mercati finanziari) è stato neutralizzato da politiche
di bilancio restrittive (austerità e controllo dei bilanci pubblici).
Ulteriori
misure di integrazione, dichiaratamente nate per combattere la crisi, hanno
avuto effetti perversi soprattutto per l'Italia: un caso emblematico è
rappresentato al riguardo dalla cosiddetta “unione bancaria europea”, assolutamente
squilibrata e asimmetrica: un’unione nata per eliminare la balcanizzazione
finanziaria, ma venuta alla luce senza la sua unica componente in grado di
contrastarla. In estrema sintesi,[16]
l'unione bancaria europea è caratterizzata:
1) Quanto al primo pilastro (vigilanza unica), da una forte
asimmetria in termini di percentuale di copertura dei diversi sistemi bancari
nazionali da parte della vigilanza europea; nel grafico che segue è
rappresentata la quota degli attivi bancari sotto diretta supervisione Bce, dopo
la creazione dei due gruppi del credito cooperativo.
2) quanto al secondo pilastro (meccanismo di risoluzione unico:
il bail-in), esso sconta l'asimmetria delle condizioni di partenza (come
si può vedere dal grafico sottostante, nel 2013, quando si negozia l'unione
bancaria, praticamente tutti i paesi dell'eurozona, tranne il nostro, avevano effettuato
massicci salvataggi pubblici [bailouts]
delle loro banche).
Nota: * incluse le garanzie.
Fonte: Commissione Europea, DG Concorrenza, Frankfurter Allgemeine Zeitung,
16 agosto 2013.
A questo vanno aggiunti:
a) lo strabismo della vigilanza
europea, che ha considerato assolutamente prioritario il controllo del
rischio di credito, mentre ha trascurato il rischio di mercato, portatore di
potenziale instabilità ben maggiore in termini di rischio sistemico.
Nel grafico sotto si può vedere come gli aggiustamenti richiesti a fronte dell’Asset
Quality Review della Bce si siano concentrati soprattutto sulle attività
creditizie.
Questo grafico
evidenzia invece l’entità dei derivati detenuti in bilancio
nel 2017 in percentuale del totale attivo, segnalando come in particolare le
banche di Francia e Germania siano portatrici di un rischio di mercato molto
elevato, in relazione al quale la vigilanza BCE ha manifestato ben minore
attenzione di quella esercitata sul rischio di credito;
b) decisioni sbagliate della Commissione Europea, come quella di proibire, nel novembre 2015, l'intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per salvare alcune piccole banche italiane (considerandolo erroneamente un "aiuto di Stato").
Il combinato disposto dell'asimmetria nelle condizioni di partenza dei
vari sistemi al momento dell’ingresso nell’unione bancaria europea (vedi sopra
punto 2)) e di queste decisioni hanno trasformato l'entrata in vigore del
bail-in, nel gennaio 2016, in un vero e proprio tsunami che in meno di 3 mesi
ha cancellato il 35% della capitalizzazione di borsa delle banche italiane.
3) quanto al terzo pilastro, ossia la garanzia (poi si è detto
"assicurazione") europea dei depositi, esso è semplicemente assente,
contrariamente a quanto originariamente previsto.
Senza l’assicurazione europea sui depositi, l’Unione bancaria è un
tavolino a due zampe, con quello che ne consegue in termini di stabilità. Ma,
soprattutto, essa ha perso il suo originario significato. O, per usare le
parole dell’ex direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi,
“l’effettiva attuazione del progetto ha preso una direzione diversa”[17]
da quella originaria.
Seguiamo l’argomentazione di Salvatore Rossi:
“In sostanza, le banche sono divenute europee solo in un senso, ovvero in quanto vigilate e sottoposte a risoluzione a livello europeo. Il circolo vizioso tra settore bancario ed emittenti sovrani non è stato spezzato, tuttavia alle banche è stata imposta una camicia di forza volta a garantire che, in caso di fuga dai titoli di Stato emessi da un sovrano, le banche di quel paese non verranno salvate dai contribuenti, di quello stesso paese o di altri. In termini ancora più espliciti, a un contribuente tedesco non si potrà mai chiedere di finanziare il salvataggio di una banca italiana in crisi per il peso, nel proprio bilancio, di titoli di Stato italiani in rapida discesa sui mercati. In un caso simile, sarebbero i creditori della banca, prevalentemente italiani, a farsene carico.”[18]
Non si è troppo malevoli se si traduce così il risultato: la funzione
originaria e dichiarata dell'unione bancaria europea era quella di ridurre la
frammentazione/balcanizzazione finanziaria dell'Europa intervenuta con la crisi
(e i conseguenti rischi in termini di stabilità e tenuta della moneta unica);
quella effettiva è consistita nel prendere in ostaggio le banche italiane,
sulle quali (nel quadro istituzionale attuale) ogni incremento significativo
dello spread sui titoli di Stato
italiani determina pesanti ripercussioni in termini di conto economico e di
capitale (è il film che abbiamo visto nel maggio e nel settembre 2018).
A
questo proposito consentitemi di enunciare un vero e proprio paradosso dei
dibattiti sull’euro.
Nel
nostro paese è molto diffusa, anche in ambienti che si credono progressisti
(anzi, soprattutto in quelli), una concezione apocalittica delle prospettive
legate alla possibile fine della moneta unica, e addirittura la convinzione che
la fine della moneta unica sia impossibile a
priori. A Bruxelles e Francoforte, invece, si crede tanto poco in tutto
questo che si cerca di sventare l’eventualità della fine della moneta unica: in
particolare, rendendo una possibile "uscita" più difficile e onerosa.
Così,
mentre in Italia illustri studiosi, ignorando la lex monetae contemplata
anche dal nostro codice civile, anni fa si affannavano a spiegare che in caso
di "uscita" il debito pubblico avrebbe dovuto essere ripagato in
euro, in sede di creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità venivano
previste clausole punitive per le nuove emissioni di debito pubblico,
precisamente per limitare in concreto l'efficacia della lex monetae.
L’altra
contromisura assunta riguarda gli effetti dell'unione bancaria sulle banche
italiane, in particolare impedendo in radice la possibilità di un rifinanziamento
pubblico delle banche italiane, sottraendole alla vigilanza nazionale e
sottomettendole alle nuove regole del bail-in
(che comportano l’esclusione quasi assoluta del salvataggio pubblico delle
banche, che anche ove possibile è legato a condizionalità molto stringenti).
Questo ovviamente rende il legame tra rischio paese e rischio banche –
precisamente il legame che in teoria l’unione bancaria avrebbe dovuto recidere!
– tanto più pericoloso: perché rende forti rialzi dello spread una immediata minaccia per la stabilità delle banche
italiane che li hanno in portafoglio.
È nel contesto di quanto sopra che va valutato quanto sappiamo su ciò
che è accaduto dopo il 4 marzo.
Occorre ancora un elemento preliminare, ma è così noto che mi limito a
enunciarlo: a fare l’esecutore materiale di tutto quanto abbiamo visto sopra,
insomma gli artefici del “successo catastrofico” di cui ho dato qualche cifra,
sono stati la sinistra postcomunista e il centro postdemocristiano, dal 2008
plasticamente riunitisi in un unico partito: sono loro, in particolare, i
principali responsabili del governo Monti, che ci ha lasciato in eredità non
soltanto la crisi peggiore dall'Unità d'Italia, ma anche - e precisamente per
questo - un incremento del rapporto debito/pil del 13% (in termini percentuali,
è poco meno dell'entità dell’intero decremento del debito tra il 1994 e il
2008!).
Dei governi successivi non c'è molto da dire, ad eccezione
dell'iniziale tentativo di sfilarsi di Matteo Renzi dalla logica di una supina
accettazione dei diktat europei,
tentativo prontamente normalizzato: lo provano il jobs act, l'incapacità di capire la necessità di sospendere
l'entrata in vigore dell'unione bancaria (pessimamente negoziata dal precedente
governo Letta) e la conseguente crisi bancaria di inizio 2016. Questa crisi è
stata tutt'altro che estranea al declino della stella renziana, poi
definitamente consumatosi a causa del drammatico errore consistente nel
referendum costituzionale (anch'esso motivato con la volontà di esibire il
trofeo di tale “riforma strutturale” nel consesso europeo). Dopo la parentesi
dimenticabile del governo Gentiloni, siamo così al 4 marzo.
1.4. Dopo il 4 marzo 2018
Il voto del 4 marzo esprime un rifiuto delle politiche dei passati
governi.
Nel giugno 2018 nasce il governo giallo-verde. Esso riunisce 2 partiti
che, per quanto differenti tra loro, sono stati entrambi premiati dal voto in quanto
portatori – a giudizio dei loro elettori – di una rottura con le prassi dei
governi precedenti, anche in rapporto all’atteggiamento nei confronti
dell’Unione Europea.
È subito evidente un tentativo di "normalizzazione" di questa
compagine, attraverso i ministri di quello che è stato definito come il “terzo
partito”: il partito del presidente della Repubblica (che nella formazione del
governo ha esercitato le proprie prerogative ai limiti – e forse oltre - di
quanto previsto dalla Costituzione). Questo è immediatamente chiaro per quanto
riguarda il Ministro delle Finanze Tria – ed è oggi chiaro per quanto riguarda
lo stesso presidente del Consiglio, Conte.
L’approccio del governo è comunque più pugnace di quello dei governi
precedenti, e la stessa manovra economica proposta, imperniata su "reddito
di cittadinanza" e "quota 100", è sensata: in presenza di un
evidente rallentamento del ciclo e di un ormai cronico insufficiente contributo
della domanda interna alla crescita, è evidente la ratio di una manovra
basata sulla spinta ai consumi; la stessa obiezione tradizionale, "spesa
pubblica sì, ma va fatta per investimenti", non tiene conto
(intenzionalmente o per ignoranza) di una circostanza fondamentale: il ritorno
in termini di crescita della spesa per investimenti è più lenta, e quindi nulla
avrebbe garantito un trattamento di maggior favore per essi da parte della
Commissione Europea; del resto, in base ai calcoli di quest'ultima — condotti
in base a una metodologia opinabilissima, imperniata sullo pseudoconcetto di “output gap” —, l'Italia è finita in un
equilibrio di sottoccupazione e può tranquillamente restarci.
La risposta alla manovra del governo è di assoluta chiusura da parte
della Commissione Europea, a cominciare dal commissario Moscovici (che dopo
qualche mese aprirà la non fortunatissima campagna elettorale per le elezioni
europee dell’attuale ministro delle finanze designato).
Ma c'è di peggio: importanti esponenti istituzionali, in visita alla
City di Londra, dichiarano di "sperare nei mercati", e il commissario
Oettinger si dice fiducioso che "i mercati insegneranno agli Italiani come
votare"[19] (in seguito si accontenterà che
abbiano “imparato a votare” i parlamentari italiani, e per incentivarli dirà -
lo ha fatto nei giorni scorsi - che a Bruxelles "si farà il possibile per facilitare il lavoro
del nuovo governo italiano, quando entrerà in carica").[20]
Il bastone
dei mercati comincia ad agire e fa danni, in particolare sul settore bancario (i
motivi li ho accennati sopra).
Olivier Blanchard (a suo tempo uno dei responsabili del FMI per il disastro
greco), con ammirevole tempismo, escogita una nuova teoria: l’espansione
fiscale restrittiva. In sintesi: l’effetto positivo di una manovra espansiva
può essere più che bilanciato dall’aumento degli interessi richiesti dagli
investitori per acquistare i titoli di Stato del paese in questione.[21] La teoria è corretta. Il problema
è la catena causale: è infatti evidente che le pretese degli investitori aumenteranno
quanto più le istituzioni europee avranno assunto un atteggiamento rigido nei
confronti del governo “colpevole” di attuare misure espansive.
Il governo scende a più miti consigli, e riduce il deficit contemplato
dalla manovra al 2%.
Nel frattempo Tria e Conte blindano (con la lettera del 2 luglio 2019,
scritta per chiudere una procedura d'infrazione, aperta da una Commissione
uscente, che non sarebbe comunque mai andata avanti alla luce della frenata
dell’economia tedesca) la manovra 2020 in senso restrittivo e negoziano (cioè non negoziano) una riforma a noi
sfavorevole dell’ESM, che una volta approvata renderà assai onerosa (per
davvero) un’uscita dalla moneta unica – e quindi renderà concretamente possibile
una ristrutturazione del debito italiano restando nell’eurozona. Tutto questo
rifiutandosi di fatto di rendere partecipe il parlamento preventivamente dei
loro orientamenti negoziali, in violazione di una legge del 2012 che per ironia
della sorte reca la firma di un loro collega nel primo governo Conte, Enzo
Moavero.[22] La stessa lettera del 2 luglio
diverrà pubblica a quasi due mesi di distanza da quando è stata scritta.
Ad agosto Salvini apre la crisi.
Dalla "Repubblica" del 7 settembre sappiamo che nei primi
giorni di agosto il presidente del Consiglio in carica Conte incontra Visco per
ricevere i suoi consigli… sul successivo esecutivo.[23]
L’esito della crisi è noto, come pure le inusitate aperture della
Commissione Europea (destinate con tutta probabilità a restare puramente
verbali).
Frattanto gli editorialisti economici dei nostri principali quotidiani,
da apocalittici, diventano improvvisamente integrati: lo stesso Federico Fubini
che ricordiamo prospettare sciagure bibliche e procedure d’infrazione
inesistenti sul “Corriere della sera”
(smentito in 4 casi dal corrispondente a Bruxelles del suo stesso quotidiano)[24] ora chiede al governo di fare più
deficit e si dice confidente nell’apertura e benevolenza delle istituzioni
europee.[25]
Più cauto, Claudio Tito su "Repubblica"
ammonisce che "la concreta chance che la nuova Commissione europea accordi
all'Italia una consistente dose di flessibilità sui conti del prossimo anno
sarà subordinata all'impostazione di una comunicazione sotto tono. Anche perché
gli obiettivi di bilancio del nostro paese sono talmente complicati da renderli
raggiungibili solo con la collaborazione di Bruxelles. Va tenuto presente, ad
esempio, che nell'ultima lettera inviata da Conte e Tria alla Commissione -
quella scritta in extremis per evitare la procedura d'infrazione - l'Italia si
era impegnata ad una 'ampia adesione al patto di Stabilità e crescita'. L'obiettivo del 2 per cento nel rapporto
deficit-pil fissato nell'ultimo Def appare già fin troppo permissivo. Il vincolo potrebbe risultare più stretto.
E se poi si considera la partenza ad handicap determinata dalle clausole di
salvaguardia per 23 miliardi e i tanti indizi - confermati dai dati
dell'economia tedesca - di una ulteriore fase recessiva continentale, la cinghia rischia di comprimersi ulteriormente".[26]
Questo è quello che sappiamo.
2. Che fare?
Personalmente
rispetto la posizione di cauta (o benevola?) attesa di Stefano Fassina nei
confronti del governo giallo-rosé, ma
non è la mia.
Per pochi
semplici motivi:
Questo è un governo di normalizzazione, è la vittoria degli Oettinger e
dei Moscovici.
Questo è il
governo della Commissione Europea.
È anche un governo che nasce con una tara fondamentale: il collante
fondamentale tra i partiti di governo non è programmatico, ma è la paura delle
elezioni. Questo scava un ulteriore solco tra chi se ne fa promotore e una
parte rilevante (ritengo tendenzialmente maggioritaria) del popolo italiano.
È un solco che va ad aggiungersi a quelli già scavati dai governi che
si sono succeduti tra il 2011 e il 2018. È un’altra medaglia da aggiungere al
palmares di una “sinistra” che dagli anni Novanta in poi si è intestata tutto
quanto previsto dal manuale delle giovani marmotte liberiste: dalle
privatizzazioni all’attacco ai diritti del lavoro, dal ridimensionamento dello
Stato sociale all’attacco alla scuola pubblica, e così via.
Non esiste
futuro per una sinistra che appoggi questo governo.
Una sinistra che fa questo lascia alla destra, e solo a lei, una
prateria sconfinata, nella quale questa pascolerà. Se poi questa destra avrà
l’intelligenza (che sinora grazie ai Zaia è mancata) di diventare il vero
“partito della nazione” – quello di cui ci parlava Alfredo Reichlin nelle sue
ultime riflessioni –, allora davvero le prospettive politiche in questo paese
saranno suggellate per un lungo periodo.
Questa è la verità. Che a volte può dare fastidio, ma è sempre
“rivoluzionaria”. E questo non lo ha detto Nietzsche.
* Fonte: Patria e Costituzione
NOTE
[1] Testo rivisto dell’intervento all’assemblea dell’associazione “Patria e Costituzione”, Roma, 8 maggio 2019 (contiene anche parti che non sono state lette in assemblea, per non eccedere troppo i tempi assegnati).
[13] “The European Crisis and the role
of the financial system”, Speech by Vítor Constâncio, Vice-President of the
ECB, at the Bank of Greece conference on “The
crisis in the euro area”, Athens, 23 May 2013; il testo è tuttora
reperibile al seguente link: https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/sp130523_1.en.html .
[22] Legge 24 dicembre 2012, n. 234. Norme generali sulla
partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e
delle politiche dell'Unione europea. Vedi: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2013-01-04&atto.codiceRedazionale=13G00003 .
NOTE
[1] Testo rivisto dell’intervento all’assemblea dell’associazione “Patria e Costituzione”, Roma, 8 maggio 2019 (contiene anche parti che non sono state lette in assemblea, per non eccedere troppo i tempi assegnati).
[2] Nietzsche non sottovalutava la difficoltà della cosa: “Soltanto di
rado anche il più coraggioso tra noi possiede il coraggio di ciò che veramente
sa…” (F. Nietzsche, Crepuscolo degli
idoli, ovvero come si filosofa col martello, tr. it. Milano, Adelphi, 1970,
2a ed. 1983, p. 25).
[3] S. Storm, “Lost in deflation: Why Italy’s woes are a
warning to the whole Eurozone”, Institute for New Economic
Thinking, Working Paper No. 94, 5 aprile 2019.
[4] S. Storm, cit.,
p. 15.
[5] S. Storm, cit.,
p. 20.
[6] S. Storm, cit.,
p. 22.
[7] S. Storm, cit., p. 26.
[8] S. Storm, cit., p. 34.
[9] Sul punto vedi V. Giacché, “La
scialuppa del Titanic. Dalla crisi ai servizi pubblici: il punto d’approdo
delle grandi famiglie del capitalismo italiano”, in Proteo, nn. 2-3/2003, in particolare il § 6. Il testo è scaricabile
al seguente link:
[10] Ho trattato estesamente
questo tema nel mio Costituzione italiana contro Trattati europei. Il
conflitto inevitabile, Reggio Emilia, Imprimatur, 2015.
[11] P. Bofinger,
“German wage moderation and the EZ crisis”, voxeu.org, 30 novembre 2015; https://voxeu.org/article/german-wage-moderation-and-ez-crisis .
[12] F. Saraceno, “Sparse
Thoughts of a Gloomy European Economist”, Francesco Saraceno’s Blog, 11
settembre 2014; https://fsaraceno.wordpress.com/2014/09/11/labour-costs-who-is-the-outlier/ .
[13] “The European Crisis and the role
of the financial system”, Speech by Vítor Constâncio, Vice-President of the
ECB, at the Bank of Greece conference on “The
crisis in the euro area”, Athens, 23 May 2013; il testo è tuttora
reperibile al seguente link: https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/sp130523_1.en.html .
[14] P. De Grauwe, The Limits of the Market. The Pendulum
between Government and the Market, Oxford, Oxford University Press, 2017,
pp. 117-124.
[15] L. Zingales, “Italy’s
Populists Can Beat Europe’s Establishment”, Foreign Policy, 3 aprile 2018; https://foreignpolicy.com/2018/04/03/italys-populists-can-beat-europes-establishment/
.
[16] Per una trattazione più
dettagliata del tema rinvio al mio intervento al Forum Confcommercio-Ambrosetti
del 23 marzo 2019: “Il sistema bancario
tra tradizione, innovazione e… regolamentazione”; il testo è scaricabile a
questo link: https://www.academia.edu/38808495/Vladimiro_Giacch%C3%A9_Il_sistema_bancario_tra_tradizione_innovazione_e...regolamentazione_intervento_al_forum_Confcommercio-Ambrosetti_I_protagonisti_del_mercato_e_gli_scenari_per_gli_anni_2000_Cernobbio-Villa_dEste_23_marzo_2019 .
[17] S. Rossi, Unione Bancaria: risultati raggiunti e prospettive future,
Wolpertinger Conference, Modena, 30 agosto 2018.
[18] Ivi, p. 5; corsivi miei.
[19] Intervista alla Deutsche Welle del 29 maggio 2018. Vedi sull’intervista e
sulle polemiche che ne sono seguite: https://www.dw.com/de/g%C3%BCnther-oettinger-erntet-mit-wahlempfehlung-heftige-kritik/a-43974559 , http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/oettinger-mercati-insegneranno-italiani-votare-modo-giusto-b3e13ea2-aded-41ea-bbd7-d8b876982d56.html ; in realtà l’audio dell’intervista conferma il
senso delle dichiarazioni di Oettinger.
[21] O. Blanchard, J. Zettelmeyer, “La
manovra italiana: un caso di espansione fiscale restrittiva?”, lavoce.info,
30 ottobre 2018; https://www.lavoce.info/archives/55700/la-manovra-italiana-un-caso-di-espansione-fiscale-restrittiva/ .
[22] Legge 24 dicembre 2012, n. 234. Norme generali sulla
partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e
delle politiche dell'Unione europea. Vedi: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2013-01-04&atto.codiceRedazionale=13G00003 .
[23] C. Tito, “Conte fa la pace con Visco.
I consigli di Bankitalia per non allarmare l’Ue”, la Repubblica, 7
settembre 2019.
[25] F. Fubini, “La prima partita di
Gualtieri: negoziare un deficit più alto”, Corriere della Sera, 6 settembre
2019.
[26] C. Tito, “Conte fa la pace con Visco.
I consigli di Bankitalia per non allarmare l’Ue”, la Repubblica, 7
settembre 2019; corsivi miei.
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