martedì 31 luglio 2018

FOA PRESIDENTE! FIRMA LA PETIZIONE

[ 31 luglio 2018 ]

Alberto Bagnai, Marcello Foa e Vladimiro Giacchè


Il testo della petizione lanciata due giorni fa:


«In questi giorni Marcello Foa è vittima di un attacco da parte di alcune forze politiche che avversano la sua candidatura a presidente della Rai. Foa è un esempio di giornalista intellettualmente onesto, coraggioso, che ha pubblicamente denunciato e smascherato, attraverso il suo blog e varie conferenze fatte in giro per l’Italia, le tecniche della comunicazione usata dall’establishment per manipolare e condizionare le decisioni dei cittadini. Attento osservatore delle dinamiche politiche e geopolitiche, ha anche avuto il pregio di raccontare imparzialmente e con rigore analitico le contraddizioni di questa Unione Europea e della moneta unica, l’Euro. Da qui, molto probabilmente, la contrarietá alla sua nomina al vertice della Rai da parte di molti esponenti politici.

Firmiamo questa petizione perchè Foa sarebbe, invece, l’uomo giusto al posto giusto a capo di un’azienda per troppi anni retta al sevizio dei “poteri” e non dei cittadini.

Per una Rai rinnovata, trasparente e per l’interesse pubblico: Foa Presidente!»


PER FIRMARE CLICCA 



Per farsi un'idea su Marcello Foa, ascolta quel che dice...


MEDIA, POTERI FORTI E SUDDITANZA PSICOLOGICA

TRUMP, CONTE E DAISY OSAKUE...

[ 31 luglio 2018 ]

«Con la visita lampo di Giuseppe Conte a Washington, il governo giallo-verde ha incassato ieri la sponda americana. Apparentemente senza colpo ferire. Fra «Donald» e «Giuseppe» ha colpito l’assenza di note stonate. La chiave di lettura sta tutta nel «siamo due governi di cambiamento». L’immigrazione fa da collante psicologico. L’Italia riceve un fondamentale appoggio americano per il Mediterraneo, con il riconoscimento di primogenitura in Libia come principale "promotore della stabilizzazione in Africa del Nord"».

Così LA STAMPA sintetizza i risultati del viaggio di Conte negli USA. Non c'è dubbio, un bell'assist di Trump al governo giallo-verde, non solo nell'opera di contenimento della Francia in Libia ma anche, supponiamo, nella resistenza all'euro-germania. E se è così lo vedremo presto nella disputa su Def e Legge di bilancio. Non è certo di poco conto per Roma avere l'appoggio di Washington nel contrasto all'egemonia tedesca nella Ue.

Un incontro, quindi, anche ove non sancisse un vero e proprio asse strategico, che ha la sua grande importanza. Esso certo conferma che quello italiano, oggi come ieri, è un imperialismo subalterno, obbligato a destreggiarsi come può nella contesa tra le potenze planetarie. Ma torneremo presto su questo aspetto.

Quello che è obbligatorio segnalare oggi è la vera e propria auto-censura a cui si è sottoposta la stampa della sinistra liberal e "comunista" per occultare il successo dei giallo-verdi.

La Repubblica relega l'incontro Trump-Conte a quinta notizia.
Stessa solfa, come rispondendo al medesimo riflesso condizionato, il manifesto
Nella grafica a destra la prima pagina del quotidiano oggi in edicola. Il manifesto, come si vede, fa anche peggio di Repubblica

La prima notizia è quella dell'uovo lanciato nel torinese all'atleta di colore Daisy Osakue, che serve per gettare l'allarme: "dieci aggressioni razziste in 50 giorni". Il tutto, va da sé, per dare addosso a Salvini e al governo "fascio-leghista", condannato come responsabile morale "dell'ondata razzista" e quindi per dare la parola... alla Bonino.

Che il gesto contro Osakue abbia una matrice razzista non è nemmeno certo, tuttavia per questi cialtroni è la notizia più importante del giorno.

L'ennesima prova che certa sinistra anti-nazionale con la testa, ha perso del tutto il senso delle proporzioni. Siamo oltre la politica, qui c'è di mezzo il principio di realtà, si entra dunque nella psicanalisi....


lunedì 30 luglio 2018

PROTEGGERE JULIAN ASSANGE !

[ 30 luglio 2019 ]

Dal giugno 2012 l'antimperialista Julian Assange è rifugiato nell'ambasciata dell'Ecuador nel Regno Unito.
Il nuovo presidente dell’Ecuador Lenin Moreno, contro la decisione del presidente precedente Rafel Correa, avrebbe deciso di consegnare il fondatore di Wikileaks agli Stati Uniti. Un atto gravissimo vista la durissima condanna che gli sarebbe inflitta dalla "giustizia" USA.
Volentieri pubblichiamo questo articolo che chiama alla solidarietà con Assange. Di più: mentre siamo sommersi da una martellante campagna per l'  "accoglienza", mentre l'Italia e la Ue accettano migliaia di rifugiati (anche a chi non ne avrebbe diritto), perché non chiedere al governo di offrire lo status di rifugiato al numero uno dei perseguitati politici?

* *  *
Per la libertà di Julian Assange
di Stefano Zecchinelli


“Ogni volta che siamo testimoni di un’ingiustizia e non reagiamo, addestriamo il nostro carattere ad essere passivi di fronte all’ingiustizia , così, a perdere ogni capacità di difendere noi stessi e coloro che amiamo”. (Julian Assange)

Gli analisti che trattano la tragedia personale e politica di Julian Assange omettono, continuamente, una valutazione politica elementare: il governo inglese si sta comportando nei confronti del fondatore di Wikileaks nello stesso modo in cui Benito Mussolini si comportò con Antonio Gramsci, uno dei dirigenti più importanti del Partito comunista d’Italia. Se aggiungiamo che al governo conservatore londinese si sono affiancati due cosiddetti “zombie di sinistra’’, Lenin Moreno e Pedro Sanchez, il discorso quadra. Chi vuole morto Assange? La Fondazione Clinton, i neocon vicini alla cerchia di Bush, l’estrema destra inglese ed il buffone Pedro Sanchez che continua ad incarcerare i patrioti baschi e gli indipendentisti catalani. La ‘’sinistra zombie’’ ha sciolto il popolo reale eleggendone uno immaginario fatto di omosessuali, femministe, minoranze varie di genere e consumatori di droghe leggere (e non solo); il PSOE (socialisti spagnoli), rappresenta al meglio questa anomalia storica.

Chi è Julian Assange? Cediamo la parola a Paul Craig Roberts, uno che dell’intelligence (repressiva) ‘’yankee’’ ha profonde conoscenze:
«Julian Assange è un giornalista, non una spia. Poiché ha pubblicato materiale segretato che prova la falsità e la criminalità del governo USA, Washington è riuscita a farlo segregare a Londra presso l’ambasciata ecuadoriana fin dal 2012 e ora sta negoziando col nuovo presidente dell’Ecuador perché revochi il suo diritto di asilo e lo consegni agli USA».[1] 
Lenin Moreno si sta coprendo di vergogna, tradendo la volontà dell’ex presidente Correa e non merita ulteriori commenti. Non sono sufficienti le manifestazioni di solidarietà; la sinistra antimperialista ha il dovere di organizzare un fronte globale in difesa della vita di questo “cyber-resistente”. Assange è un eroe, il governo britannico ha seguito – fedelmente – le orme di Mussolini, è un dovere di chi resiste impedire che il nostro non faccia la fine di Gramsci.

Tempo addietro annotavo che dal caso Assange emerge: 
«Una concezione ‘’usa e getta’’ del diritto internazionale, una ‘’democraticità sui generis’’ ad uso e consumo delle potenze imperialiste. Su che basi di diritto internazionale la Clinton vuole aggredire la Siria oppure riaprire le ostilità contro l’Iran ? Evidentemente il ‘’diritto’’, in regime capitalistico, non può essere aderente alla ‘’giustizia’’ ma possiamo identificarlo con la ‘’potentia’’ (potenza) ovvero la facoltà delle grandi nazioni di aggredire i piccoli paesi. Chavez ricordava ai giornalisti eurocentrici che tutto questo ha un solo nome: imperialismo. Assange — come il defunto presidente venezuelano — ha provato a spiegarci come funziona la macchina della disinformazione imperiale: possiamo stupirci della sua triste sorte?» [2] 
Lo stesso diritto alla privacy viene cestinato, infatti «il giornalista australiano ha dato un ennesimo e durissimo colpo agli Usa, svelando il tema complesso di internet: ‘’Il business model di Google è la raccolta della vita privata delle persone: raccogliere queste informazioni, archiviarle, indicizzarle e costruire modelli di comportamento basati su questi dati. E tutto questo viene venduto a fini pubblicitari. Di fatto, è il medesimo modello che le agenzie di sorveglianza come la Nsa e il Gchq hanno messo in atto». 
Ci troviamo davanti — a partire dalla rete, vera lama a doppio taglio — ad un sistema, tanto di monitoraggio, quanto di indottrinamento e controllo. A chi appartiene facebook su cui, a breve, diffonderò questo articolo?». Il capitalismo implica una immensa macchina burocratica basata sulla sorveglianza; le imprese commerciali schedano, attraverso il telemarketing, abitudini, interessi ed addirittura ‘’potenzialità economiche’’ dei soggetti interessati ai loro prodotti. Si tratta d’una palese violazione della libertà individuale, ma la fredda legge del profitto non fa sconti. 
La distopia di Orwell, 1984, non è l’incubo di un visionario.

Gli aguzzini di Julian sono maschere di facciata del potere (capitalista) come Teresa May, Donald Trump, Lenin Moreno e Pedro Sanchez. Proprio in queste ore la stampa spagnola ha ingaggiato una vera e propria guerra contro Wikileaks riempiendo di letame il suo fondatore. Pedro Sanchez è un uomo venerato dai radical chic europei; vende armi all’Arabia Saudita, incarcera patrioti baschi e catalani, striscia ai piedi dell’estrema destra – neofascista – venezuelana, ed ora vuole morto Assange. Emblema di una sinistra invertebrata, nemica dei popoli, socia in affari delle lobby dominanti.

Il nostro non poteva esimersi dall’odio delle femministe più estremiste. Lo accusano di essere uno stupratore quando prove inoppugnabili dimostrano l’appartenenza alla CIA di Anna Ardin, l’accusatrice. Una signora che 
«In aggiunta al suo curriculum anti-Castro e pro-CIA, Anna Ardin a quanto pare si diletta nel suo sport preferito, il male-bashing [Ndr. pestaggio anti-maschile][4] Un forum Svedese riporta che la donna è un’esperta in molestie sessuali e nelle “principali tecniche maschili di soppressione”. Una volta, mentre teneva una lezione, uno studente maschio del pubblico guardò i suoi appunti invece che lei. Anna Ardin lo denunciò per molestie sessuali perché lui la discriminò in quanto donna e perché, sostenne la Ardin, fece uso delle “principali tecniche maschili di soppressione” nel tentativo di farla sentire invisibile. Quando lo studente venne a sapere del reclamo della donna, la contattò per scusarsi e spiegarsi. La risposta di Anna Ardin fu un’altro reclamo per molestie sessuali, ancora una volta perché il ragazzo stava usando “le principali tecniche di soppressione”, questa volta per sminuire i suoi sentimenti». [3]
Loschi individui, amorali, creati artificialmente dagli apparati delle potenze imperialiste; i ‘’sentimenti’’ diventano un’arma politica, manipolabili in base alle circostanze. Per il giornale cubano, Granma, questa donna ”è nota per i suoi articoli al vetriolo su siti web finanziati dall’Usaid”. La ‘’sinistra imperiale’’ — compresi i gruppi anarchici ed alcuni (non tutti) trotskisti — odia Cuba, se ne frega della controinformazione di un giornale prestigioso come il Granma e si è unita a testa bassa — non potrebbe fare altrimenti — alla crociata britannica ed al loro nuovo mito: Pedro Sanchez.

I giornalisti italiani stanno dando il peggio del peggio, senza un minimo di deontologia professionale. Roberto Saviano si è trasformato da tempo in un megafono della lobby israeliana, ripetendo pedissequamente la più trita e ritrita propaganda femminista. Poche voci hanno offerto un servizio realmente democratico. L’analista Glenn Greenwald ci ha spiegato che: 
«Assange, naturalmente, si opporrebbe ad un simile tentativo di estradizione, in quanto la pubblicazione di documenti non è un reato riconosciuto e per il fatto che gli Stati Uniti vogliono la sua estradizione sulla base di accuse politiche che, secondo i trattati [internazionali], non possono servire come pretesto per un’estradizione. Ma ci vorrebbe almeno un anno, che potrebbe anche prolungarsi fino a tre, prima che una corte inglese prenda una decisione su queste problematiche connesse all’estradizione. E, mentre tutto questo si trascina, Assange rimarrebbe di certo in prigione, dal momento che è impensabile che un giudice britannico possa rilasciarlo su cauzione, visto quello che era successo l’ultima volta che era stato posto in libertà»[4] 
Ed ancora: 
«Tutto questo significa che è molto probabile che Assange, nella migliore delle ipotesi, debba trascorrere almeno un altro anno dietro le sbarre, e finirà con l’aver passato un decennio in prigione, senza mai essere stato accusato, o condannato, per alcun reato. Sostanzialmente è stato punito, imprigionato, dal sistema». 
La libertà del fondatore di Wikileaks è preziosa, a mio avviso non è ammissibile un’ora in più d’ingiusta detenzione. I giornalisti non vogliono prendere atto della fine de facto, imposta soltanto dalla CIA, della libertà di stampa; lavorano alla fin fine per conto delle intelligence, quindi diventano garanti di questo o quell’altro gruppo capitalistico transnazionale. Non si parla più di informare, ma di orientare le masse. Le agenzie di stampa battono cassa, guardano ai fatturati, ragion per cui i complessi militar-industriali li riempiono di dollari. Il silenzio, certamente ben retribuito, dei loro “giornalisti” si fonda su una gran quantità di ‘’verdoni’’. Quanto costa un arlecchino dell’imperialismo che si fa passare per giornalista anti-mafia?

Nel 2016 concludevo: 
«Julian Assange ha affrontato questa enorme e micidiale macchina burocratica spiegandoci il suo funzionamento: per gli Usa adesso è un ‘’terrorista’’; è giusto che noi lo si consideri come una sorta di eroe moderno».
 Julian Assange sta diventando una sorta di Gramsci moderno. E’ nostro dovere difenderlo e sostenerlo con tutte le nostre forze.

* Fonte: Interferenza

NOTE


https://www.pressenza.com/it/2018/06/caso-julian-assange/

http://www.linterferenza.info/esteri/3292/

https://comedonchisciotte.org/forum-cdc/#/discussion/29364/israel-shamir-sul-caso-assange

https://comedonchisciotte.org/lecuador-sta-per-ritirare-lasilo-offerto-ad-assange-e-lo-riconsegnera-alla-gran-bretagna-e-poi/

A CHI CONVIENE SPACCARE L'ALLEANZA M5S-LEGA? di Piemme

[ 30 luglio 2018 ]

Silvio Berlusconi — la bestia nera di tutti i "progressisti" che si fan dare la linea dalla conventicola de la repubblica —, ha definito il governo M5s-Lega "il più a sinistra della storia".
Affermazione categorica che, dato il pulpito, deve far riflettere.
Anzitutto ci dice che il cavaliere nero, in fatto di tassonomia politica, contrariamente alle panzane postmoderne, crede e come esista e persista la dicotomia destra-sinistra. I capitalisti non amano gli arzigogoli concettuali, come Berlusconi sono tipi pratici: è di destra ubbidire al grande capitalismo, è di sinistra andare incontro agli interessi del popolo lavoratore.

Il film che vedono a sinistra è opposto. Quello giallo-verde sarebbe il "governo più a destra della Repubblica", peggio, sarebbe un governo "fascista".

clicca per ingrandire

Per il segretario di Rifondazione comunista (vedi grafica a destra dal sito del Prc) Salvini non solo sarebbe l'erede di Mussolini ma addirittura del Ku Klux Klan. 
Spiegate ad Acerbo che il rito del KKK di bruciare la croce simboleggia appunto il rifiuto di venerare la croce, quindi  l'esatto contrario della sua esposizione. Massima apostasia per i cattolici quella del KKK, visto la croce è emblema della passione, morte e risurrezione di Gesù.
Stendiamo un pietoso velo e torniamo alle cose serie.

Per capire meglio cosa voglia intendere Berlusconi ci corre in soccorso Luciano Fontana, direttore del CORRIERE DELLA SERA. Occorre leggere con attenzione il suo editoriale nell'edizione di ieri: Il grido di allarme che cresce.
«C’è qualcosa di molto preoccupante nelle decisioni e negli annunci che ogni giorno arrivano dagli esponenti del nuovo governo. C’è un sentimento diffuso di disagio nel mondo dell’impresa, soprattutto nel Nord del Paese. Alcune scelte hanno già avuto conseguenze immediate, altre possono cambiare (irrimediabilmente) la cultura del lavoro e dell’impresa nel nostro Paese. Misure sui contratti, Ilva, Alta velocità, gasdotto Tap, Alitalia: sono i capitoli di un «vasto programma» che sta diffondendo l’idea di un’Italia che si chiude al mondo, non rispetta gli impegni, rinuncia alle sfide della competitività nel mercato globale, ostacola chi il lavoro lo crea. Una cultura che ha pregiudizi verso gli imprenditori (siano essi piccoli, medi o grandi), che ingabbia lo spirito d’iniziativa individuale, il desiderio di migliorare la propria condizione di vita con le armi della competenza, del rischio e della determinazione. Si può decrescere (non sappiamo se felicemente o no), tanto ci penserà lo Stato. O la Cassa Depositi e Prestiti, cassaforte del risparmio degli italiani. E se non ci sono i soldi per gli interventi pubblici meglio accumulare altro deficit. Come se non avessimo già un debito pubblico enorme che i contribuenti, prima o poi, dovranno pagare. Le vicende dell’acciaieria Ilva a Taranto e della Tav Torino-Lione sono emblematiche soprattutto per il segnale che stiamo lanciando agli investitori stranieri che ancora producono in Italia o avrebbero intenzione di farlo. Prima erano la burocrazia e la corruzione a costituire i principali ostacoli, ora c’è un’ideologia di governo improntata al sospetto. (...) Sta radicandosi l’illusione che lo Stato penserà a tutto: con i sussidi o con i suoi interventi. Un Eden, un mondo fantastico in cui ogni cosa è possibile. Il grido d’allarme è rivolto soprattutto a Matteo Salvini, detentore di un largo consenso nel mondo produttivo. Fino a quando asseconderà l’alleato di governo?».
""L'Italia che si chiude al mondo", "che rinuncia alle sfide della competitività del mercato globale", un governo che penalizza "La cultura del lavoro e dell'impresa", che svela "pregiudizi verso gli imprenditori e ingabbia lo spirito d'iniziativa".... 

Decodifichiamo quel che scrive Fontana: "Sappiamo bene che questo governo non è anticapitalista. Esso tuttavia, in quanto populista, risponde anzitutto alle istanze delle classi sociali che stanno in basso, e calpesta quelle delle classi che stanno in alto. E per andare incontro a chi sta in basso il governo deve invertire le politiche neoliberiste, l'idea che il mercato debba ubbidire a politiche pubbliche, rimettendo dunque al centro lo Stato.

Sembra di sentire, prima ancora che Luigi Einaudi, Milton Friedman:
«Ci sono molte varianti del liberismo. C'è un liberismo che propone un governo nullo, anarchico. C'è un liberismo che propone un governo limitato. […]  Ma in pratica non importa perché puntiamo tutti verso la stessa direzione».
Berlusconi in modo rozzo, Fontana in forma elegante c'entra il punto: il rischio è che questo sia il primo governo occidentale ad invertire la rotta, a chiudere con le politiche macroeconomiche liberiste e globaliste. E lorsignori sono molto preoccupati non solo perché questo "esperimento populista" conduce alla colisione con la Ue, potrebbe avere successo. 

Non sia mai! Occorre impedirlo! Di qui l'insidiosa manovra: lisciare il pelo alla Lega di Salvini affinché rompa l'alleanza con Di Maio e quindi faccia cadere il governo.

Dal che sorge la domanda: conviene al popolo lavoratore che questa manovra del grande capitalismo anti-nazionale ed euro-globalista vada in porto? O non è forse vero il contrario, che dobbiamo augurarci che l'alleanza M5s-Lega non si rompa?

Indovinate qual è la (non) ardua sentenza.


domenica 29 luglio 2018

LA GUERRA DELLE PAROLE di Carlo Galli

[ 29 luglio 2018 ]

Populismo, sovranismo, nazionalismo, razzismo....

Scrisse un giorno Costanzo Preve che avrebbe preferito dialogare con Papa Ratzinger piuttosto che coi tanti "somari" che pullulano nella sinistra. Siamo sicuri che per Carlo Galli [nella foto] avrebbe fatto un'eccezione. Insigne accademico e pensatore politico, deputato prima del Pd, quindi per Sel e poi per  Articolo 1-Mdp. 
Volentieri pubblichiamo questo suo breve saggio, che preso vorremmo commentare.

1. Strategie
Dopo la sconfitta del 4 marzo le élites politiche, economiche e mediatiche hanno reagito in modo diversificato. L’analisi del Pd è racchiusa nelle due affermazioni di Renzi: «la ruota gira» e «pop corn per tutti», che – per non ricorrere a giudizi impegnativi come quelli di nichilismo, cinismo, vuoto intellettuale – è quantomeno da definire una manifestazione di irresponsabile perdita di contatto con la realtà e di fatalistica attesa degli errori altrui.
La risposta delle élites tecnocratiche ed economiche della Ue, poi, è di alternare lusinghe e minacce, offrire 6.000 euro per ogni immigrato accolto, e minacciare con lo spread se ci saranno troppi sforamenti dei parametri dell’euro.
Le élites finanziario-mediatiche, un tempo portatrici del consenso mainstream,proseguono da parte loro la lotta con i loro tipici mezzi politici indiretti, nella speranza di delegittimare i vincitori e il popolo che li ha votati, in vista di riconquistare il potere grazie ai fallimenti del governo. Gli strumenti di questa lotta sono linguistico-culturali e vanno dal suscitare e coltivare la pubblica emotività sul tema dei migranti ad alcuni usi linguistici che i media mainstream non hanno inventato ma che rilanciano ossessivamente.
A parte l’accusa di “fascismo” agli avversari, elettori ed eletti, che pare eccessiva e fuori bersaglio se allude a una dittatura, a un “regime”, e che pertanto viene a significare poco più che una generica “malvagità” del popolo e delle élites vittoriose, fra le parole più frequenti ci sono i termini “sovranismo”, “populismo”, “nazionalismo”, “razzismo”. Si tratta di armi di battaglia, di macchine per la guerra linguistica, per lo scontro tra propagande: dalla parte opposta si mettono in campo infatti termini come “onestà” e “sicurezza”, generici e ambigui, e non meno mobilitanti e polemici; ma almeno capaci di vincere le elezioni, benché non altrettanto efficienti nella guerra linguistica.
E quelle elezioni sono state vinte dai partiti che, se non altro, hanno riconosciuto il pesantissimo disagio sociale in cui il Paese versa, e che il Pd ha invece sostanzialmente negato dando l’impressione di voler lasciare tutto com’è, o in ogni caso di non avere né le idee né l’intenzione di cambiare le cose.
C’è anche, va detto, la posizione oltranzista di chi non vuole «seguire i populisti sul loro terreno», e non solo rifiuta radicalmente le loro ricette ma non vuole ascoltare il grido di dolore che attraverso il populismo si esprime, e affida non alla propaganda ma alla dura lezione delle cose, alle rappresaglie della realtà economica e dei suoi “spontanei” meccanismi, la vittoria dell’ordine politico e sociale che le elezioni di marzo hanno rovesciato. Ma è una posizione difficile da tenere. In ogni caso a essa, prudentemente, si aggiunge la propaganda, la retorica.
La logica di questa retorica – che definiremo la retorica dello scandalo, dello sdegno permanente – consiste nell’imporre un terreno di gioco su cui combattere lo scontro politico fra le élites mainstream e il popolo, mettendo quest’ultimo, fin dall’inizio della partita, dalla parte del torto. La strategia è discriminare culturalmente e moralmente chi si è ribellato alle conseguenze degli errori di quelle stesse élites; ovvero chi in una crisi catastrofica ha cercato protezione, e naturalmente non l’ha chiesta ai vecchi governanti, che le protezioni avevano tolto di mezzo. Insomma, la strategia di rimettere al loro posto i perdenti che hanno osato protestare, e di rovesciare il mondo rovesciato dalla ribellione delle masse.
Tutti i termini in questione hanno infatti intento accusatorio e implicita intenzione punitiva: sovranismo significa tribalismo incivile; populismo significa ragionare con la pancia e con il rancore; nazionalismo significa xenofobia e provincialismo egoista; razzismo, infine, è il male assoluto, la sistematica e ignorante violenza verso i deboli e i diversi. L’accusa, ovvia, è che tutto ciò – questi atteggiamenti, questa cultura diffusa – mette a rischio la democrazia, tutelata invece dal “politicamente corretto” liberal. Al quale si deve ritornare, riconducendovi i riottosi concittadini, bisognosi di rieducazione dopo essere stati sottratti ai cattivi maestri, ai pifferai magici che hanno vinto le elezioni.
Al contrario, sembra chiaro che è una follia tanto pensare di recuperare consenso per questa via, quanto presentare queste come “analisi politiche” che consentano di comprendere che cosa è successo. Se il governo giallo-verde è il fascismo (e non lo credo), sarebbe come fare dell’antifascismo criticando questo o quell’atteggiamento o provvedimento di Mussolini, e lanciando invettive contro la dittatura, invece di seguire la via genealogica, storico-concettuale e storico-economica, di Gramsci.
Ma è difficile credere che gli opinionisti mainstream non vadano oltre la constatazione che in marzo hanno vinto il rancore, la rabbia e la paura, e non riescano a chiedersi che cosa mai – quali eventi, quali processi, quali strutture – abbia prodotto nelle masse questi riprovevoli stati d’animo, queste biasimevoli passioni (ad esempio, quale precedente disastro nella rappresentanza politica abbia generato l’odio e il disprezzo degli italiani verso il parlamento, e sia quindi all’origine anche delle disinvolte proiezioni post-parlamentari di alcuni esponenti di un partito di governo). Fintanto che la retorica dello scandalo non lascia il posto all’analisi, è folle sperare che le posizioni che si reputano biasimevoli perdano terreno. E quindi è forse possibile ipotizzare che se quella retorica non è follia sia piuttosto una dissimulazione, un gioco a parlare d’altro, per non ammettere colpe ed errori enormi, nella speranza che alla retorica della delegittimazione preventiva dell’incubo giallo-verde segua una reale catastrofe della sua azione, e che tutto torni come prima, cioè alle vecchie egemonie.
2. Errore
L’errore è naturalmente avere sposato (non solo subito, ma accettato e glorificato) il paradigma neoliberista, e poi quello ordoliberista sotteso all’euro; paradigmi diversi che prevedono entrambi la deflazione, la disuguaglianza sociale, la subalternità e la flessibilità del lavoro dipendente, che in tempi di crisi diventano – in assenza di “argini” politici e giuridici – precarietà e insicurezza esistenziale di massa. Il paradigma, insomma, che nega la dignità del lavoro e il ruolo egemone della politica e a questa affida il compito di garantire il mercato (ed eventualmente di aiutare i perdenti, o di punirli se troppo devianti e rumorosi), mai ipotizzando che il governo delle cose del mondo possa risiedere altrove che nelle potenze economiche – ad esempio, in una democrazia in cui i lavoratori (il lavoro dipendente, di diritto e di fatto, e non una generica “comunità nazionale”) abbiano una posizione politica conflittuale e quindi tendenzialmente paritaria, e non subalterna, rispetto alle potenze dell’economia –. Insomma l’errore non è che ci sia stata una crisi – gli economisti mainstream sanno bene che il capitale funziona appunto così –, ma che il paradigma economico preveda che dalle crisi si esca aiutando strutturalmente il capitale e solo episodicamente e marginalmente i lavoratori, che in ogni caso devono essere disponibili ad assecondare ogni richiesta del capitale in temporanea difficoltà. L’errore è che non si sia immaginato che ci sarebbero state reazioni politiche a tutto ciò; di non aver pensato che la politica possa guidare un’uscita dalla crisi, con una soluzione che non consista di salvataggi per gli uni e di eliminazione dei diritti per gli altri (le “riforme coraggiose” a danno dei deboli) ma di “riforme di struttura” (come si diceva ai tempi sovversivi del primo centrosinistra, e come si potrebbe cercare di dire anche oggi, mutatis mutandis: in fondo, la questione è la stessa, cioè allineare capitalismo e democrazia, naturalmente divergenti).
Avere trascurato la politica, e avere ignorato che questa avrebbe potuto vendicarsi: questo è stato l’errore strutturale, che alle élites è costato il potere politico, ma che non viene ammesso. Se ci volessimo servire dell’antica dottrina cattolica, potremmo dire che la mancata ammissione (confessio oris) nasce dal mancato pentimento (contritio cordis) e dà a sua volta origine al mancato ravvedimento operoso (satisfactio operis). Insomma, pervicaci e impenitenti, le élites politiche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo sono in peccato mortale, e ne pagano il fio. Ovvero, sono finite all’opposizione e paiono doverci rimanere a lungo.
Ma, come si diceva, credono di potere uscire in breve dall’inferno della perdita del potere aspettando che agli italiani “passi” il rancore, oppure che questo si sposti verso gli attuali governanti, dei quali si attende la rapida scomparsa di scena per impresentabilità e inefficienza. E nell’attesa combattono la guerra linguistica.
3. Battaglie
Una guerra le cui battaglie sono già state enumerate, ma che vanno studiate un po’ più da vicino, per vedere, in ciascuna di esse, come vengano costruiti i fronti del Bene e del Male, e come ai due fronti si possa contrapporre una “verità”; che non vuole essere un assunto dogmatico ma il suggerimento di uno sguardo realistico. Per una possibile politica oltre la propaganda.
Sovranismo, dunque. Ovvero l’aggressivo particolarismo che sarebbe la presunta radice politica dei nostri mali. Il cui opposto positivo sarebbe invece l’universalismo collaborativo, declinato in globalismo o in europeismo secondo i casi (in realtà, si tratta di due prospettive che possono anche essere opposte). Una contrapposizione costruita per non parlare di sovranità, ovvero della pretesa di un soggetto politico, i cittadini nel loro complesso, che lo Stato che li rappresenta persegua gli interessi nazionali e protegga i cittadini stessi. Una pretesa che di per sé non ha nulla di reazionario e che è insita nell’essenza della politica: protego ergo obligo è il cogito dello Stato, la sua ragion d’essere, la sua mission. Una pretesa che può essere anche democratica, come appare dalla nostra Costituzione che collega il popolo alla sovranità e non ai mercati o ai trattati dell’euro. Una pretesa, del resto, avanzata e praticata, secondo le proprie forze, da tutti gli Stati europei, nessuno escluso. Lo Stato sovrano è un anacronismo? Pare di sì: la sinistra globalista lo minimizza, quella moltitudinaria lo deride (i risultati si vedono). Forse invece potrebbe essere una leva, o meglio un punto d’appoggio, transitorio ma obbligato, per rispondere alla sistemica insicurezza alla quale i cittadini sono esposti e sacrificati, e che non tutti trovano eccitante e ricca di opportunità – un dato che chi fa politica dovrebbe conoscere –.
Populismo, poi. È con ogni evidenza il nome che le élites mainstream danno a ciò che dice e fa il popolo quando hanno perso il contatto con esso. È come se dicessero: «se non ci obbedisci, sei plebe; se hai perso la fiducia in noi, ragioni con la pancia». L’opposto positivo è invece la “ragionevolezza”, il dare ragione alle élites, alle loro narrazioni. La verità è che il populismo con le sue semplificazioni è un segnale della crisi politica terminale di un intero ciclo politico-economico, quello democratico-keynesiano, crollato dapprima economicamente sotto i colpi del neoliberismo e, trent’anni dopo, anche culturalmente e ideologicamente. Una crisi di legittimità che si tratterebbe di decifrare nelle sue cause e non di deridere nei suoi effetti. Certo, impostare la politica sull’onestà e sulla lotta ai vitalizi, o sull’ossessione anti-migranti, è riduttivo e fuorviante, ma non perché è una mossa populista, quanto piuttosto perché non è per nulla radicale. Come altrettanto poco radicale è stracciarsi le vesti ad ogni uscita pubblica scorretta di questo o di quel governante, senza mai andare oltre la predica moral-superficiale; senza mai capire a quali problemi quel governante sta comunque rispondendo.
Nazionalismo, inoltre. Ossia il ritorno di culture politiche improntate all’atavismo e all’aggressività xenofoba, viste come un regresso a quelle condizioni che hanno portato l’Europa a suicidarsi con due guerre mondiali. E quindi il nazionalismo è appunto ciò contro cui si è costituita l’Europa del dopoguerra. È il nemico. Il suo opposto positivo è invece l’apertura reciproca delle culture e delle istituzioni, l’interculturalità, il federalismo o addirittura la sovranità degli Stati Uniti d’Europa, che solo una inspiegabile e irragionevole resistenza nazionalistica non lascerebbe realizzare. La verità è che tutti in Europa perseguono interessi statal-nazionali, e che tuttavia di nazionalismo e di nazione (differenti e opposti, come da tempo sappiamo) oggi in Italia e altrove c’è poca o nessuna traccia (piaccia o dispiaccia; ovvero, che ciò sia detto in negativo o in positivo). Non c’è alcuna visibile richiesta, da parte della società, di identità, di comunità di destino, di tradizione, e neppure la cultura va in questa direzione: con una certa pigrizia intellettuale si scambia per nazionalismo (cioè le si dà un nome vecchio) la richiesta sociale di una protezione che si manifesti efficacemente dentro il livello storico e istituzionale esistente, cioè dentro il perimetro degli Stati nazionali. Certo, questi nacquero anche attraverso il mito della nazione, allora progressivo. Ma di questo mito identitario oggi non c’è neppure la caricatura, se non ai campionati di calcio: da tempo l’individualismo e il familismo hanno colpito a fondo, e modelli culturali internazionali si sono affermati irresistibilmente ormai da decenni. L’esigenza di condurre una vita in dimensione storica, sottratta all’eterno presente dell’universale raccolta di merci neoliberista, non sembra essersi ancora radicata nelle masse.
Razzismo, infine, è il nome dato all’insicurezza ostile dei poveri e degli incolti. Che si sentono minacciati non da un generico “diverso” ma da un concreto ingresso, al tempo stesso pubblico e clandestino, di persone fin troppo simili a loro. E i penultimi si specchiano negli ultimi, li temono e li esorcizzano, perché vi vedono certo persone bisognose di aiuto ma capiscono anche che non possono essere aiutati a spese loro, delle fasce più fragili, che dai migranti si sentono minacciati anche dal punto di vista economico. Né a spese esclusive di quel fragile vaso di coccio che è l’Italia nel consesso europeo, inchiodata da patti leonini, sottoscritti dalla destra e rinnovati dai governi seguenti, che hanno cercato di fare del nostro Paese il campo profughi del continente in cambio di altri benefici macroeconomici. Tanto più che gli altri Paesi d’Europa non smaniano certo per ricevere migranti, per sostituirsi all’Italia. Come che sia, l’opposto positivo è in questo caso il cosmopolitismo contrapposto alla chiusura egoistica, la pietà contrapposta alla spietatezza, oppure, da un punto di vista moral-politico, l’appello alla fraternità, il terzo trascurato della triade rivoluzionaria; ma si avanzano anche esortazioni ad apprezzare l’utile economico che dai migranti deriverebbe in termini di Pil e di pagamento delle pensioni agli italiani, come se i migranti trovassero facilmente, in Italia, lavoro stabile, legale e non servile, e come se in futuro le loro pensioni non dovessero essere pagate. La verità è che l’insofferenza, in sé deplorevole, verso i migranti nasce dalla sofferenza e dalla insicurezza reali dei cittadini, che nessuna promessa europea, sempre disattesa, o nessun sermone o catechismo riuscirà, da solo, a esorcizzare. Solo la politica ci riuscirà, se sarà una politica efficace e concreta.
4. Politica e parole
La guerra delle parole è al tempo stesso un’arma, un diversivo, e un andar fuori bersaglio. Se la sinistra moderata europeista e quella radicale globalista e moltitudinaria non capiscono ciò, non hanno speranza. Vanno lasciate alle loro battaglie minoritarie, poiché hanno evidentemente rinunciato all’analisi politica realistica.
Certo, le parole e la propaganda sono anch’esse parte della politica. Ma le parole fanno politica quando indicano a questa una direzione, un obiettivo: non quando sono il punzecchiamento più o meno sdegnato, sempre e solo “reattivo”, rispetto alle parole e alla politica altrui. Se è così, il far guerra con le parole significa ripiegare, non saper fare nulla di politico, essere subalterni alle politiche e alla propaganda altrui.
Chi vuole cambiare qualcosa, posto che sia possibile, non deve schierarsi dalla parte di una propaganda o di un’altra. Al primo posto non viene la parola della propaganda, ma la parola dell’analisi e della critica: a questa può seguire l’azione, accompagnata, a questo punto, dalla parola di una propaganda non parassitaria ma autonoma ed egemonica. L’opposizione, se vorrà esistere, dovrà analizzare, criticare e parlare in proprio. Anziché forgiare una lingua di guerra all’interno della guerra delle lingue, deve costruirsi una lingua di verità, di realismo, di radicalismo non parolaio, di radicamento sociale, che spiazzi e trascenda il discorso politico corrente.
«Politica» implica insomma che con le parole si afferrino le cose, le strutture, i processi, i soggetti. La politica è l’attività di chi non si limita a opporre propaganda a propaganda ma di chi si chiede come si possa «mettere la mani negli ingranaggi della storia», col pensiero e con l’azione, senza limitarsi ad aspettare gli errori altrui – del resto, se il quadro politico-economico si sfascia, chi ne trarrà vantaggio difficilmente saranno i vinti di oggi –.
Per chiudere, un esempio. Si sta diffondendo l’idea che nel discorso pubblico di “sinistra” si debbano recuperare la nazione, e lo Stato nazionale, perché è su questi concetti, o temi, che si è stati sconfitti il 4 marzo (come ho detto, credo che ciò sia non esatto, e che la sconfitta si sia consumata sulla protezione e non sulla tradizione, sulla sicurezza e non sulla patria). Ecco allora le proposte di “nazionalglobalismo”, di “patriottismo europeo”, di “federazione sovrana di Stati sovrani”.
L’obiettivo è di non lasciare la nazione ai nazionalisti, lo Stato agli statalisti, la sovranità ai sovranisti, l’Europa agli europeisti. E fin qui va bene: si tratta di smarcarsi dalla polemica quotidiana, di guardare oltre, di tentare di imporre un altro terreno di gioco. Ma pur dovendosi apprezzare la direzione nuova che si cerca di intraprendere, resta da sottolineare che in alcuni casi si tratta di concetti di cui la storia (ad esempio, la guerra civile statunitense) ha dimostrato la non praticabilità, o in altri casi di provocazioni intellettuali che in quanto tali non sanno indicare alcuna tappa intermedia tra il presente e il futuro, tra il problema e la soluzione. Che vogliono costruire miti più che discorsi razionali.
Ma in politica anche la parola mitica per essere capace di mobilitare deve avanzare un progetto realistico e condivisibile, un obiettivo difficile ma raggiungibile attraverso una via che va indicata nella sua concreta materialità. E a maggior ragione questo è l’obiettivo della parola razionale.
Questi nuovi miti dovranno quindi essere preceduti da analisi critiche, e dovranno essere riformulati dopo che il pensiero critico si sarà misurato con la questione del rapporto fra sovranità nazionale e sovranità europea, nonché del rapporto fra politica ed economia. E ciò non per pedanteria accademica, ma per realismo, per efficacia tanto critica quanto propagandistica. In caso contrario si resterà ancora una volta in superficie. Detto altrimenti, questi nuovi “miti” non avranno la forza di smuovere alcunché, e meno che mai i popoli, fintanto che attraverso di essi non verrà veicolata un’idea credibile di sicurezza sociale e di reale integrità della persona, finalmente sottratta al suo presente destino di essere in balia di potenze economiche incontrollate, di processi che li trascendono. Fintanto che del mito politico non farà parte anche la consapevolezza che «finanza è una parola da schiavi».

I SOCIALISTI E IL CAMPO POPULISTA di Giancarlo D'Andrea*

[ 29 luglio 2018 ]

Una presenza socialista: Quando? Dove? Come?

Per un vecchio socialista rivoluzionario come me è stato veramente piacevole incontrare nuovamente, sulle pagine di SOLLEVAZIONE (in questo strano, non solo per motivi meteotologici, mese di luglio) compagni socialisti, più giovani e più brillanti del sottoscritto. Segno che qualcosa si muove dopo il terremoto del 4 Marzo anche in questo campo piccolo e così disastrato.

Mi riferisco ai tre articoli ospitati su Sollevazione il 7 Luglio LA SINISTRA (COMPASSIONEVOLE) ZINGARESCA di Norberto Fragiacomo, dirigente nazionale di Risorgimento Socialista, subito seguito il 9 Luglio da UNIRE I PATRIOTI COSTITUZIONALI  di Giuseppe Angiuli, giovane dirigente socialista patriottico pugliese e, last but not least, il 16 Luglio con IL PUNTO DI NON RITORNO di Riccardo Achilli, socialista economista e fine analista politico.


Ci eravamo incontrati lo scorso anno durante la breve esperienza della Confederazione per la Liberazione Nazionale, l'esperienza senza dubbio più avanzata, a mio avviso, nel campo di quella sinistra italiana popolare e patriottica che in breve tempo, per dissidi interni che andrebbero nuovamente indagati alla luce della situazione dopo il 4 marzo e la formazione del governo M5s-Lega, si è purtroppo arenata e ci ha portato su sponde diverse e con posizioni che andrebbero giusto appunto riconsiderate.

Uno di questi tre giovani compagni è rimasto in Risorgimento Socialista, e ha attraversato l’esperienza della coalizione elettorale Potere al Popolo assieme a Giorgio Cremaschi in Eurostop e quanto in questo momento in questo gruppone stia avvenendo. Un secondo si è impegnato nell’esperienza, non certo di successo, di Lista del Popolo assieme a Giulietto Chiesa e Antonio Ingroia — nonostante il tradimento del programma originario della lista elettorale. Il terzo, infine, ha scelto di dare un contributo di analisi e approfondimento che risulta sempre acuto e stimolante [Riccardo Achili è tra i firmatari del documento di Fassina e D'Attore in vista del congresso di LeU, NdR].


Ora, all’indomani del voto popolare più importante dal 1948, che ha comportato un terremoto nel panorama politico per come lo abbiamo vissuto per decenni, quindi la nascita della coalizione governativa populista — inedita e impensabile per quanti hanno perduto nel corso degli anni ogni contatto con un popolo e un Paese impoverito e umiliato —, terremoto che prosegue con violente e ripetute scosse telluriche in tutti i campi della vita del Paese; ecco, forse sarebbe giunto il momento di riannodare i fili di un ragionamento politico cercando di comprendere la realtà e le dinamiche sociali che la sottendono.

Leggere le riflessioni, critiche e più spesso autocritiche, dei tre compagni di questa area socialista che in ogni caso, pur tra errori e colpevoli incertezze, non ha portato comunque il cervello all’ammasso, incoraggia a riprendere con la pazienza che contraddistingue chi ha a cuore la possibilità che nel marasma che stiamo attraversando, dentro la battaglia per la riconquista della sovranità nazionale e per l’attuazione della costituzione si faccia strada l’idea di una necessaria prospettiva socialista per il nostro popolo e per la nostra Patria.


Sarebbe sicuramente utile che insieme si riprendesse il confronto rispondendo ognuno per come la vede alle tre domande che sono davanti a noi:

(1) Quando?

Io penso che sia giunta l’ora di rivendicare a testa alta, dentro una battaglia di liberazione nazionale, per la riconquista della sovranità popolare, uno sbocco popolare e socialista dall’ordine turbo capitalista che ha distrutto il Paese, impoverito milioni di persone, e fatto arretrare diritti e dignità fino a livelli insopportabili. Se non cogliamo il momento potrebbe rivelarsi fatale, il tempo è ora!


(2) Dove?

Nel campo del popolo che si ribella come può e con i mezzi e i canali di espressione che riesce a utilizzare, qui, nel campo del popolo contro le élite, nel campo populista con tutte le sue contraddizioni, sporcandoci le mani con la nostra classe, con chi suda e lavora, con chi combatte disperatamente per riconquistare lavoro e dignità: senza esitazione contro le oligarchie e le forze che la sostengono — di destra, di centro e soprattutto della sinistra che ha venduto il popolo e il nostro Paese. 


(3) Come?

Riorganizzando le nostre fila, nella maniera più democratica possibile, con la consapevolezza che la società liquida imposta dalle oligarchie richiede disciplina e militanza organizzata per 
«... affrancarsi definitivamente da una sinistra fellona e traditrice, da decenni posta al servizio permanente del finanz-capitalismo e, in secondo luogo, quello di serrare le fila per ritrovarsi tutti quanti nel progetto ambizioso e non più rinviabile di dare vita ad una nuova area politica del patriottismo costituzionale» 
come ha sostenuto il compagno Angiuli, incamminandosi quindi sulla strada, coraggiosa ma non facile, proposta da Fragiacomo di abbandonare
« ... una sinistra rigidamente anti-sovranista la formazione cui appartengo [Risorgimento Socialista, NdA] dovrà fare tosto o tardi i conti: forse è preferibile abbandonare il gruppone finché si è in tempo forse, cercando in solitudine sentieri nuovi e — si spera — nuovi (o magari “vecchi”) compagni di avventura piuttosto che incamminarsi in corteo verso il burrone dell’irrilevanza e della banale accettazione dell’esistente».
Sono assolutamente convinto che abbiamo bisogno di una forza politica indipendente che stia nel campo populista con chiarezza e senza tentennamenti, che proprio grazie alla sua coesione politica ed organizzativa sia in grado di applicare tattiche flessibili, intelligenti ed audaci, come sostiene il compagno Achilli anche adottando forme di 
«entrismo intelligente e critico dentro il corpaccione del populismo di potere, per lavorarlo dall’interno, cercando di piegarne a sinistra, per quanto possibile, le enormi potenzialitŕ di consenso che presidia».
Si credo sia ormai non più rinviabile, ne andrebbe della coerenza e credibilità di ognuno di noi quattro, che noi si ricominci a tessere la tela…..

* Giancarlo D'Andrea è membro del Comitato centrale di P101

sabato 28 luglio 2018

QUAL È LO SCONTRO DECISIVO? di Alessandro Chiavacci

[ 28 luglio 2018 ]



Non è nostro costume pubblicare interventi che attengono alla vita interna della nostra organizzazione. Facciamo un'eccezione con questo denso contributo critico del compagno Chiavacci poiché non solo riteniamo cogenti le questioni di cui tratta — natura e giudizio sul governo giallo-verde, politiche economiche keinesiane e/o liberiste, funzione dello Stato, quindi la questione dell'immigrazione — non solo perché ne condividiamo la sostanza, ma anche perché riteniamo che quanto Chiavacci sostiene sia rilevante per tutta la sinistra patriottica.  Siccome il Comitato centrale di P101 è chiamato in causa, sarà esso a rispondere.

UNA PROPOSTA A P101

Agli inizi di luglio avevo proposto, al neo eletto ufficio politico di P 101 di promuovere, prima fra le forze sovraniste, poi, successivamente, verso il governo, una campagna per chiedere una commissione d’inchiesta interparlamentare sul ruolo delle cosiddette “Ong” nei riguardi della immigrazione. La mia richiesta si basava sul fatto che il problema della immigrazione clandestina verso l’ Italia non si riduce a quello della risposta da dare ad una immigrazione spontanea da diversi paesi africani, ma riporta ad un progetto sovranazionale ispirato dalla finanza sovranazionale, con sostegni diversi, di cui le Ong sono strumenti e soggetti.

La richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sulla questione mi sembrava del tutto comprensibile. In più, io auspicavo che la commissione d’inchiesta fosse INTERPARLAMENTARE, cioè coinvolgesse i parlamenti di molti dei paesi coinvolti dalla questione delle migrazioni, sia europei (in primis al gruppo di Visegrad, all’Austria, alla Slovenia, alla Macedonia e potenzialmente anche alla Russia, nord africani (ovviamente la Libia, eventualmente anche Tunisia, Algeria, Egitto e i paesi di provenienza del flusso migratorio. Non mi chiedete come avrei fatto io a coinvolgere questi paesi: la nostra restava una proposta che, una volta ottenuto il consenso del governo, sarebbe marciata sulle gambe dei governi e non sulle nostre.

L’assunzione alla base di questa proposta era evidentemente il riconoscimento che sul tema delle migrazioni si gioca una partita mondiale, che va ben al di là della pur giusta scelta di Salvini di opporsi agli sbarchi delle Ong, e che riguarda un confronto mondiale fra sovranismo e forze globaliste.

Il Comitato centrale della nostra organizzazione che si occupava dell’argomento era il 23 luglio. La conclusione che mi è stata riportata, è che, benché sia apprezzato e condiviso l’intento della proposta, gli organi dirigenti di P101 ritengono che lo scontro fondamentale sarà a settembre al momento della presentazione del Def [quindi la Legge di bilancio, NdR]. In altri termini, secondo P101, lo scontro fondamentale sarà sulla violazione dei vincoli europei riguardo deficit e debito pubblico.

Il Documento di Economia e Finanza è il documento che ogni governo è obbligato a presentare alla Commissione Europea con cui dichiara le intenzioni per i prossimi 3 anni. Nel Def 2017, l’ultimo politicamente significativo del governo Gentiloni, le cifre relative all’indebitamento netto dello Stato italiano sono dell’1,6% del Pil per il 2018, dello 0,9% per il 2019 e del pareggio di bilancio per il 2020.

Le cifre indicate nel Def sono significative ma non del tutto impegnative per i governi in carica. Infatti per il 2017 il deficit pubblico effettivo è risultato del 2,3% anziché dell’1,9 originariamente previsto a causa, secondo Padoan, delle crisi bancarie, mentre il Def “a legislazione corrente” presentato dal governo Gentiloni ad aprile per il 2018 prevede già un deficit pubblico dell’1,8% contro l’ 1,6 previsto.

L’abbassamento delle stime di crescita per il 2018, dall’ 1,5% previsto dal governo Gentiloni all’1,1 dell’ultima stima del Fmi darebbero spazio per una rallentamento della riduzione del deficit anche per il 2018 e 2019.

L’intenzione dichiarata dal governo Conte e dal ministro Tria sembrano, secondo le ultime dichiarazioni, di violare gli obiettivi previsti rimanendo comunque all’interno, per il 2019, del 3% di deficit sul Pil, e di rimandare di un paio di anni il pareggio di bilancio.

Posto che i valori del deficit previsto per il 2019 e il 2020 avrebbero comunque dovuto essere riviste al rialzo, è questo lo sconvolgimento economico che il governo giallo-verde si preparerebbe a porre in atto? E’ questa la scelta strategica che ci imporrebbe di sostenere, contro l’aggressione della Ue, le scelte di questo governo?

Io noto che l’aggressione a questo governo è già cominciata, ed è in pieno svolgimento. Ricordo che la magistratura ha bloccato “tutti i conti” riferibili alla Lega di Salvini, per un valore di 49 milioni che tale partito non ha. Il che significa che se qualche militante volesse fare una sottoscrizione questi soldi andrebbero direttamente nei fondi bloccati dalla magistratura. Il procuratore torinese Armando Spataro chiede ai giudici della costa di proibire le decisioni del ministro dell’interno volte ad impedire lo sbarco delle Ong con i migranti. Il presidente dell’ Inps Boeri è in pieno conflitto con il governo e da qualche parte si auspica la disobbedienza della Pubblica Amministrazione nei confronti del Governo. La Ong spagnola Open Arms si propone di portare in giudizio governo italiano e guardiacoste libici, ha già simulato un paio di incidenti mortali per i profughi e il servetto Fratoianni vuole imbarcarsi con le navi della Open Arms. La commissione europea porta in giudizio l’ Ungheria di fronte alla Corte di Giustizia europea per le sue posizioni sull’immigrazione. Famiglia Cristiana titola “vade retro Salvini”, Nigrizia denuncia come non cristiano il governo italiano per la posizione sui migranti, in qualche chiesa provano a proibire l’accesso ai leghisti, e, in sostanza, la chiesa cattolica, che si suppone eserciti il suo “magistero spirituale” su una inezia tipo 1,3 miliardi di individui, sta scendendo massicciamente in campo contro Salvini.

Invece, secondo P101, quale sarebbe il terreno fondamentale di scontro…? Quello della violazione dei parametri imposti dalla Ue, terreno che è incerto quanto al suo verificarsi, poco significativo nei rapporti con la Ue (che prevede sforamenti in caso di “riforme strutturali”, e la flat tax potrebbe esserlo), poco rilevante sul suo significato economico, denso di forti possibili conseguenze negative secondo le modalità con cui tale violazione avverrebbe.

P101 immagina un forte, decisivo scontro a settembre con il ministro Tria, che pare il più sensibile al rispetto dei parametri europei, ma proprio oggi Conte nega contrasti con Tria e ribadisce “Non esiste che lasci” e “Non va considerato un elemento estraneo a questo governo”.

E poi, quali sarebbero le destinazioni del deficit che questo governo si proporrebbe di realizzare? Attualmente le ipotesi sembrano: la realizzazione della flat tax, che Tria ribadisce sarà nella prossima finanziaria, il completamento della Tav, ribadita da Toninelli e Salvini, che certo rientra fra gli investimenti, ma a me non pare fondamentale, oppure l’ipotesi sollevata da Tria di far scattare le clausole di salvaguardia sull’Iva, in modo tale da realizzare sotto apparente coercizione un trasferimento dell’imposizione da quella diretta a quella indiretta.

Tria aveva anche avanzato la proposta che la commissione Ue escludesse gli investimenti pubblici dal computo del deficit: una proposta sensata, rilevante e coerente con la teoria economica ortodossa. Ma dubito che la Commissione si lascerà convincere, e in più dubito anche della capacità di questo governo di fare investimenti in un’ottica di pianificazione economica, e infatti il solo investimento di cui si sente parlare è quello della Tav.

Il fatto che una forza sovranista di stampo socialista come P101 affidi il suo giudizio sul governo alla realizzazione di un relativo deficit di spesa secondo un’ottica più o meno keinesiana mi sembra una follia.

In un articolo pubblicato tempo fa da questo stesso blog, Sollevazione, (Ciao ciao Keynes, specie nella parte prima), avevo espresso la mia convinzione che il keinesismo avesse notevoli carenze intrinseche, e che in ogni caso non fosse uno strumento adeguato per l’azione politica socialista e sovranista.

Non ripeterò le argomentazioni di allora, che oggi dovrei anche ampliare e integrare, ma voglio andare al nucleo centrale, o più evidente, di quel discorso.

Il keinesismo rappresenta lo Stato come un compratore di beni e servizi come gli altri. Era il modo che aveva Keynes di far passare il suo discorso fra capitalisti, politici e accademici di formazione liberista. “Se lo Stato spende in situazione di crisi ci guadagniamo tutti” sembrava dire, e così faceva passare fra i capitalisti estremamente riluttanti l’idea di una parziale socializzazione dei profitti (o dei risparmi, o del plusvalore: scegliete voi) realizzata attraverso la spesa in deficit e la manovra sulla moneta. Il problema è che lo Stato, anche solo fermandosi al piano economico, NON E’, NON E’ MAI STATO un compratore di beni e servizi; e soprattutto, non lo è oggi, dopo 80 anni di stato sociale o di stato interventista.

In quell’articolo ricordavo che lo Stato è in primo luogo un produttore di norme, un legislatore; in secondo, un proprietario di aziende e di beni pubblici; in terzo luogo un produttore di servizi; in quarto luogo un redistributore del reddito; e solo in quinto luogo un acquirente di beni e servizi.

Tanto per esemplificare, e solo per rimanere alla composizione della spesa pubblica, oggi essa è rappresentata in Italia (dati Istat) all’84% da redistribuzione del reddito ( pensioni e altre prestazioni in denaro, stipendi della P.A., interessi sul debito, aiuti a famiglie e imprese) e solo al 16% da acquisti di beni, servizi e investimenti.

LA BATTUTA DI STIGLITZ

L’amico Leonardo Mazzei mi chiese allora: “Vabbè, ma sempre spesa è, no…?” No, non è così. Per spiegarlo citerò un episodio. Nel maggio 2012 Joseph Stiglitz, a margine di un convegno, ebbe uno scambio di battute con Mario Monti. “Perché, con la disoccupazione che avete, non aumentate la spesa?” chiese Stiglitz. “Abbiamo i vincoli europei sul deficit” rispose Monti “Perché, non lo conoscete il teorema del moltiplicatore del bilancio in pareggio…?” chiese Stiglitz, e Monti, imbarazzato, non seppe che replicare.

Il teorema del moltiplicatore del bilancio in pareggio, dovuto all’economista Haavelmo, dimostra come, anche se compensata da maggiore imposizione fiscale, un aumento di spesa pubblica genera comunque un aumento del prodotto interno lordo, e nella stessa misura dell’aumento di spesa (il moltiplicatore del bilancio in pareggio è infatti uguale a uno). Il problema è che questo non vale se la spesa si compone di redditi distribuiti anziché di beni e investimenti. In tal caso, occorre confrontare la propensione ad investire e a spendere dei soggetti che percepiscono il reddito con quella di chi deve pagare le imposte, e il moltiplicatore potrebbe anche assumere un valore negativo. Dunque, il sapere a chi e come si prende e a chi e come si distribuisce è di molto maggiore importanza sul “ quanto” si spende.

QUATTRO TERRITORI

Dicendo che lo Stato, nell’economia, è in primo luogo un legislatore, in secondo un proprietario, in terzo un produttore, in quarto un redistributore prima di essere un acquirente, non intendevo solo fare una critica estemporanea alle politiche keinesiane, ma individuare QUATTRO TERRITORI sui quali si può sviluppare la politica economica di un governo e dunque rilevanti per un soggetto socialista e sovranista. Cominciamo dal primo.

PRIMO TERRITORIO: LEGISLAZIONE

Questo territorio è così vasto che non sono certo in grado di trattarlo. Posso solo esporre qualche notazione che ha effetto sul reddito nazionale, sul bilancio dello Stato, e sul sistema produttivo italiano.

Il turismo, principale industria italiana, è oggi oggetto dell’attività “predatrice” dei motori di ricerca on line, di nazionalità americana, tedesca, olandese. Si tratta di Trivago, di Expedia, di Trip advisor, di Booking.com, di Airbnb e altri. Sfruttando la loro posizione oligopolistica sul mercato, questi soggetti ottengono commissioni del 15% o superiori sul valore della prenotazione. Considerando che il fatturato della ospitalità in Italia è, per il 2017, di 22,5 miliardi di euro, anche una stima prudenziale fa ritenere che oltre un miliardo di euro finisca all’estero, con perdite di qualche centinaio di milioni per l’erario.

Airbnb riferiva di gestire (ma il dato è vecchio) 200.000 bed and breakfast, sabotando, a parte le conseguenze per il reddito nazionale e per l’erario, l’industria alberghiera italiana.

Nei trasporti di linea la rete tedesca Flixbus sta soppiantando la rete italiana Baltour, organizzata anni prima dalla senese Sena.

La liberalizzazione selvaggia del trasporto taxi organizzata da Uber sta sconvolgendo le imprese locali.

Amazon sta sconvolgendo il commercio al minuto e inizia a inserirsi nel commercio di farmaci (“vi procuriamo anche la ricetta del vostro medico di fiducia…”) potenzialmente spazzando la rete delle farmacie.

La politica dei centri commerciali garantisce buoni introiti Imu ai Comuni ma elimina piccole imprese, desertifica i centri storici e aumenta i problemi di traffico. La creazione di grandi “outlet” con 150 o più negozi permette a grandi imprese multinazionali di controllare direttamente la fase della distribuzione senza creare nessuna propria rete di distribuzione, gestita con il sistema del franchising, che significa “guadagni a me, rischi a te”.

SECONDO TERRITORIO: PROPRIETÀ

Lo Stato, nelle sue varie articolazioni, è proprietario di imprese, beni pubblici, frequenze. Io vorrei vedere come il governo Conte si muoverà nei confronti di Eni, Enel, Rai, Poste e Cdp, reti di telecomunicazioni, reti autostradali, risorse idriche, minerarie , spiagge e nei confronti delle 10.000 (pare) società municipalizzate.

TERZO TERRITORIO: PRODUZIONE DI SERVIZI, OVVERO AUTORIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

Una delle carenze della contabilità nazionale, costruita dai keinesiani con concetti liberali è l’incapacità di valutare il prodotto della Pubblica Amministrazione, che infatti viene valutato sulla base dei costi, presupponendo che una ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e materiali sia già stato fatto. La conseguenza paradossale è che se un governo demagogico raddoppiasse gli stipendi della P.A. senza fare alcun cambiamento il Pil della P.A. raddoppierebbe, mentre se un governo dotato di poteri magici a parità di risorse e di stipendi raddoppiasse la produzione di servizi il Pil della P.A. non cambierebbe.

Entro il governo Conte sembrano pullulare le proposte di intervento sulla P.A.: la ministra Bongiorno propone di prendere le impronte digitali per rilevare le assenze sul lavoro, dalle parti dei 5 stelle si parla di premiare il whistleblowing (cioè la soffiata) e di creare “agenti provocatori” per snidare i casi di corruzione ed i corrotti. Queste proposte, oltre ad essere insignificanti, hanno il grave difetto, dato dalle concezioni liberiste che le animano, di vedere il lavoratore della Pubblica Amministrazione, e la stessa P.A., come possibile fonte di reati anziché di vedere, sia il lavoratore che la stessa P.A. come soggetto finalizzato alla realizzazione del bene comune. Non sono le singole proposte ad essere di per sé sbagliate (magari lo sono anche), ma è proprio l’ottica che è sbagliata.

Per spiegare perché quelle proposte sono irrilevanti e sbagliate farò due esempi concreti: il caso della mia scuola e quello della società romana dei trasporti, l’ Atac.

Il caso della mia scuola

Lo scorso anno, dato che una collega membro del consiglio di istituto era andata in pensione, mi è stato chiesto di sostituirla. Visto che questi incarichi sono molto poco ambiti, la mia accettazione è stata apprezzata con plauso e sollievo dagli altri insegnanti per lo scampato pericolo.

Uno dei compiti del consiglio di istituto è l’approvazione del bilancio: un bilancio limitato perché, come è noto, gli stipendi sono pagati dal tesoro e le strutture, la loro manutenzione e i consumi spettano alla provincia.

Guardando il bilancio, assieme alla dirigente, abbiamo individuato un caso di utilizzo improprio delle risorse di 43.000 euro: di per sé non granché, ma comunque il 10% del nostro bilancio. Si trattava di questo: l’ Ufficio Scolastico Regionale, per ragioni a noi ignote, aveva deciso di appaltare i servizi di pulizia di un certo numero di scuole, compresa la nostra, ad una società esterna, con la conseguenza che i nostri bidelli erano costretti all’inattività. D’intesa fra dirigenza, consiglio di istituto e RSU abbiamo chiesto all’ Ufficio scolastico regionale di rivedere tale assegnazione.

Capisco che qualcuno dirà che quella dell’USR era una misura assistenziale (specie per quella società) e un modo per espandere la spesa pubblica assistenziale. Il fatto è che la nostra scuola aveva dovuto rinviare di un anno, per mancanza di fondi, la realizzazione del registro elettronico, i fondi per i corsi di recupero e per i corsi di alfabetizzazione non ci sono, la carta igienica e quella per le fotocopie ci sono a giorni alterni.

Se racconto questo caso non è per vantare la nostra attività, ma per dire due cose: la prima è che anche in un settore cronicamente sottodotato di risorse come quello della scuola, ci sono sprechi. La seconda è che le scuole pubbliche e private, in Italia, sono 67.000. Escludendo le scuole private, quelle dell’infanzia gestite dal Comune, e considerando che le singole scuole sono normalmente raggruppate in istituti che hanno l’autonomia di bilancio, le istituzioni scolastiche sono 8288. Ci sono poi i bilanci del ministero, quelli degli uffici scolastici regionali e provinciali e quelli di altri istituti vari, nazionali e regionali, comunque legati alla pubblica istruzione. Quindi, nel solo settore della istruzione, i bilanci sono probabilmente vicini a 9.000. Ci sono poi i settori della Università e della Ricerca, anch’essi dipendenti dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Miur). Fatta una stima ragionata, si può valutare che in un solo ministero, quello della Istruzione, Università e Ricerca i bilanci siano fra 15.000 e 20.000. Pensate che le proposte della Bongiorno sulle impronte digitali, o quelle penta stellate sul whistleblowing e sugli “agenti provocatori” possano avere qualche efficacia…? E quelle di qualche ministro che da Roma, a scadenze regolari, propone “tagli lineari” a questo o a quel ministero…?

Il caso Atac

L’azienda romana dei trasporti pubblici, l’ Atac, è in crisi da diversi anni. Nel 2017 vanta un deficit di 200 milioni di euro su un bilancio di 1100 milioni di euro, un debito di 1,5 miliardi, una flotta di veicoli senescente in cui i mezzi nuovi sono spesso “cannibalizzati” per trovare i pezzi di ricambio per quelli vecchi perché le aziende fornitrici non forniscono più i ricambi necessari, dato che l’azienda è in ritardo con i pagamenti. Molte corse vengono soppresse, i contratti di servizio violati e il Comune si assume per ora l’onere delle penalità comminate dalla regione.

In questa situazione, i radicali hanno proposto, a norma dello Statuto Comunale, un referendum per la privatizzazione dell’ Atac, cioè per l’assegnazione con una gara di appalto del trasporto pubblico di Roma.

Ora, qualcuno pensa che un nuovo amministratore, dotato di luminose capacità gestionali, di un alto senso civico e di sprezzo per il lucro sia capace di individuare e risolvere in modo significativamente migliore degli amministratori precedenti i problemi del trasporto pubblico di Roma…?

Ma per piacere! L’unica possibile soluzione dei problemi dell’ Atac sta nell’interpellare i suoi 12.000 lavoratori. Non le sue rappresentanze sindacali, che hanno già dato prova delle loro qualità di sottomissione e di collaborazionismo in passato (basta chiedere ai lavoratori), ma proprio i lavoratori stessi. Quelli che conducono gli autobus, quelli delle pulizie, quelli delle mense (ora soppresse) quelli dell’officine e ricambi, quelli della controlleria o della commercializzazione e di ogni altro settore in cui si articoli l’attività dell’ Atac.

La soluzione per l’ Atac (come per molti settori della Pubblica Amministrazione) non sta nell’attendere un nuovo e illuminato amministratore, né nell’attendere passivamente i propri diritti sindacali, ma sta nel farsi della classe operaia classe dirigente. E’ quello che aveva capito Gramsci quando nella Torino del dopoguerra lanciò i Consigli di fabbrica contro le vecchie Commissioni Interne. Consigli di fabbrica, non RSU. Consapevolezza organizzata dei lavoratori, non referendum. Potere operaio, non sindacalismo.


QUARTO TERRITORIO: REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO

Anche in questo territorio non posso che dare delle notazioni. Per questo, come per altri settori dell’intervento dello Stato, sarebbero necessarie commissioni tecniche specifiche.

Do per scontato che i lettori di Sollevazione rifiutino la “flat tax”. A parte i problemi di equità, il progetto Siri a cui le proposte concrete del governo giallo verde faranno più o meno riferimento ha il problema dell’insostenibilità, visto che 50 miliardi di copertura sono previsti dall’entrata “una tantum” della pace fiscale, e il problema fondamentale che favorisce i soggetti che risparmiano, tesaurizzano e esportano il denaro all’estero anziché quelli che consumano e investono. Agli elettori della lega, convinti di lavorare fino ad un certo giorno di giugno per lo Stato, andrebbe spiegato che lo Stato redistribuisce in forma di reddito verso le persone il 65% dei suoi introiti, un 16% lo spende acquistando dai privati beni e servizi (e dunque ne aumenta il fatturato) e ne “consuma” come reddito per i suoi dipendenti solo il 19%. (Istat, Contabilità nazionale).

Parlare dell’elemento “redistribuzione del reddito” nel ruolo dello Stato significa anzitutto parlare di sistema fiscale, e io non ne parlerò adesso per non dire quattro banalità, ma anche degli stipendi dei dirigenti pubblici, e delle loro liquidazioni. E’ probabile che le liquidazioni di due o tre dei manager di Stato o di qualche banca posseduta dalle Fondazioni equivalgano al peso della manovra sui vitalizi. Del resto, anche i manager delle 10.000 società municipalizzate non lo fanno gratis.

CONCLUSIONI

I dirigenti di P101 hanno deciso di non considerare prioritaria la proposta relativa alla commissione d’inchiesta sul rapporto fra Ong e migrazioni, ignorando che è su quella che si sta svolgendo contro il governo italiano, e proprio adesso, una battaglia di portata micidiale. Propongono invece di sostenere il governo giallo verde in un presumibile scontro con l’ Europa e i suoi vincoli (che ovviamente anch’io auspico e sostengo) ma a prescindere dai contenuti economici pratici di tale rottura; mentre secondo me le forze socialiste e sovraniste dovrebbero certo sostenere questo governo come risultato della rivolta popolare contro i vincoli posti dell’ Europa, ma con una proposta economica propria, e su quella base confrontarsi e scontrarsi con il governo. Una dialettica con il governo giallo-verde è necessaria, ma per instaurare una tale dialettica bisogna prima costituirsi come Antitesi.


RAI, UNA BUONA NOTIZIA: MARCELLO FOA PRESIDENTE di Piemme

[ 28 luglio 2018 ]

L'élite è letteralmente imbufalita. Non s'aspettavano, da Salvini e Di Maio un tale strappo. Mentre Fabrizio Salini diventa amministratore delegato, il giornalista Marcello Foa [nella foto] è stato designato come presidente della RAI. 

Un breve inventario dei titoli che campeggiano questa mattina sui principali organi di stampa rende l'idea della profonda irritazione di lorsignori:
«Marcello Foa, l’orgoglio sovranista alla presidenza Rai». - IL SOLE 24 ORE 
«Rai: Marcello Foa, giornalista sovranista. Il tweet contro Mattarella: «Ma non volevo offendere» Estimatore di Bannon e di Putin. Il gelo del Quirinale sul suo nome». - CORRIERE DELLA SERA   
«Alla fine dell'ennesimo braccio di ferro sui vertici Rai, quando il consiglio dei ministri è lì lì per cominciare, Matteo Salvini estrae dal cilindro il nome del suo vero candidato alla presidenza della tv di Stato: il sovranista Marcello Foa». - LA REPUBBLICA
«È sulla figura del nuovo presidente, vicino alla Lega, che si scatena la bagarre. Foa finisce nel mirino del Pd per le sue opinioni ultrasovraniste espresse su Twitter, compreso il «disgusto» rivolto al presidente Mattarella per le sue posizioni europeiste». - LA STAMPA 

«PRESIDENTE SOVRANISTA: FOA A VIALE MAZZINI - Vicino a Salvini e vicepresidente del think tank di Bagnai. Contributor di Russia Today, arma della propaganda putiniana». - HUFFINGTON POST
Se lorsignori sono incazzati noi non possiamo che essere contenti. Abbiamo avuto modo di leggere quanto Foa ha scritto negli anni contro il dogma dell'euro e il mito europeista, lo abbiamo ascoltato in occasione di convegni e incontri nei quali abbiamo apprezzato la sua lucidità analitica e politica. Abbiamo apprezzato la sua apertura, la sua capacità d'ascolto, il suo spirito democratico.

L'élite — ma senti chi parla! — grida allo scandalo per la "lottizzazione" da parte di M5s e Lega. Giusto invece espugnare la Rai, una delle roccaforti del pensiero unico euro-liberista e che da due mesi non fa che sparare alzo zero sul governo giallo-verde. Giusto quindi che la RAI cessi di essere il sancta sanctorum di un'élite screditata e distante dai sentimenti popolari.

Col voto del 4 marzo la maggioranza dei cittadini ha non solo chiesto ma gridato che c'è bisogno di una svolta radicale. Il principale banco di prova per verificare se questa svolta ci sarà è certo la politica economica (lavoro, reddito e diritti per le classi subalterne). Le élite nostrane, sostenute dai grandi poteri oligarchici europei, daranno aspra battaglia.

Si poteva lasciare nelle loro mani l'artiglieria pesante della RAI?






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