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mercoledì 18 maggio 2016

I LIMITI DELLA POLITICA MONETARIA: LA BCE PUÒ CONTROLLARE LE INSOLVENZE NON L'INFLAZIONE di Emiliano Brancaccio e Thomas Fazi

[ 18 maggio ]

Le politiche monetarie “non convenzionali” non stanno dando i risultati sperati. Il quantitative easing, così come le manovre tese a portare i tassi d’interesse nominali verso lo zero o addirittura a livelli negativi, non appaiono in grado di sospingere l’inflazione e la crescita del PIL verso il loro sentiero “normale”, né sembrano capaci di allontanare le principali economie avanzate dal precipizio della deflazione. L’Unione monetaria europea è in questo senso un caso esemplare. La BCE ha abbattuto il costo del denaro e ha accresciuto la liquidità in circolazione in una misura impensabile prima dell’inizio della crisi. Ciò nonostante, l’inflazione dell’eurozona è addirittura tornata in territorio negativo e non vi è certezza sulla possibilità che arrivi almeno ad azzerarsi alla fine dell’anno.

In questo scenario, da più parti hanno iniziato a diffondersi dubbi sul modo convenzionale in cui viene interpretato il ruolo dei banchieri centrali. Alcuni commentatori sostengono che dopo la “grande recessione” iniziata nel 2008 le autorità monetarie dovrebbero ampliare ulteriormente gli strumenti d’intervento e soprattutto dovrebbero smetterla di perseguire di obiettivi rigidi d’inflazione per puntare invece verso target più flessibili, come ad esempio una data crescita del reddito nominale.

Fuori e dentro le istituzioni, i segnali di interesse verso tali proposte non mancano. A ben guardare, tuttavia, questo modo di affrontare il problema della inefficacia delle politiche monetarie presenta un grave limite. Sia che si adottino i vecchi obiettivi d’inflazione sia che si scelgano target più flessibili, le ricette suggerite continuano a basarsi sul vecchio assunto monetarista secondo cui le banche centrali sarebbero in grado, in un modo o nell’altro, di controllare la spesa aggregata. Non viene neanche presa in considerazione la possibilità che gli strumenti delle banche centrali, più o meno convenzionali, non siano in grado di controllare la spesa aggregata e quindi, in generale, non consentano di perseguire nessuno degli obiettivi che si prefiggono, che si tratti di inflazione o anche di reddito nominale.

Un articolo di prossima pubblicazione sul Journal of Post-Keynesian Economicsfornisce nuovi elementi a sostegno della tesi secondo cui le banche centrali, in generale, non sono in grado di governare la spesa aggregata (Brancaccio, Fontana, Lopreite, Realfonzo 2015). Utilizzando un modello VAR con dati trimestrali per l’area euro tra il 1999 e il 2013, gli autori hanno indagato sull’esistenza o meno di relazioni statistiche tra l’andamento del tasso d’interesse di mercato o dei tassi di rifinanziamento della BCE, da un lato, e la dinamica del reddito nominale intorno al suo trend di lungo periodo, dall’altro.

L’analisi empirica ha mostrato che gli scostamenti del reddito nominale dal trend non sono influenzati dai movimenti dei tassi di interesse: in particolare, la riduzione del costo del denaro non sembra in alcun modo favorire un recupero del reddito nominale verso il suo andamento tendenziale di lungo periodo. A quanto pare, dunque, governando i tassi d’interesse il banchiere centrale non è in grado di controllare la spesa aggregata e quindi non può incidere efficacemente sull’andamento della produzione, dell’occupazione, del reddito nominale, e tantomeno dell’inflazione. L’evidenza, in effetti, contrasta con tutte le interpretazioni convenzionali dell’operato delle banche centrali, dalla famigerata “regola di Taylor” alle più recenti regole fondate su un “target di reddito nominale”.

L’analisi empirica ha evidenziato pure che gli scostamenti del reddito nominale effettivo dal suo trend di lungo periodo influenzano l’andamento del tasso d’interesse: per esempio, a una crescita del reddito più blanda rispetto al trend corrisponde una riduzione dei tassi d’interesse, e viceversa. Questo risultato sembra supportare un’interpretazione del ruolo della banca centrale le cui origini risalgono al celebre Lombard Street di Walter Bagehot, e che è stata poi ripresa e sviluppata da vari studiosi di orientamento critico.

Questo filone di ricerca alternativo suggerisce che il ruolo effettivo del banchiere centrale è più complesso di quello che gli viene solitamente attribuito: esso consiste nel regolare la solvibilità delle unità economiche e più in generale la stabilità finanziaria del sistema. L’autorità monetaria, cioè, muoverebbe i tassi d’interesse nella stessa direzione del reddito nominale non certo per tentare di governare quest’ultimo, che è fuori dalla sua portata, ma allo scopo non meno rilevante di controllare la differenza tra reddito e onere del debito, in modo da tenere a bada la dinamica dei fallimenti, delle bancarotte e delle liquidazioni del capitale.

Secondo questa visione, il banchiere centrale agisce come “regolatore” di un conflitto tra capitali solvibili, capaci di accumulare profitti superiori al servizio del debito, e capitali in perdita e dunque potenzialmente insolventi. Tale conflitto è inoltre tanto più violento quanto più restrittiva sia la politica fiscale del governo, che riduce i redditi nominali medi e colloca quindi un numero maggiore di unità economiche sotto la linea dell’insolvenza. Dati gli orientamenti delle politiche di bilancio, dunque, il modo in cui la banca centrale manovra il tasso d’interesse rispetto al reddito nominale medio influisce sul ritmo delle insolvenze e sulla connessa “centralizzazione” dei capitali: vale a dire, sulle liquidazioni dei capitali più deboli e sul loro progressivo assorbimento ad opera dei capitali più forti (Brancaccio e Fontana 2015).

Questa diversa interpretazione della politica monetaria consente di guardare sotto un’altra luce anche l’attuale scenario dell’eurozona. Con politiche di bilancio pubblico votate all’austerity, in vari paesi la crescita nominale del reddito resta troppo bassa, situandosi spesso al di sotto dei tassi d’interesse di mercato. Ciò significa che l’attuale politica monetaria della BCE non è in grado di frenare la tendenza europea alla centralizzazione, ossia alle liquidazioni dei capitali situati nelle aree periferiche e alla loro eventuale acquisizione da parte di capitali presenti in Germania e nelle zone caratterizzate da migliori andamenti macroeconomici.

Questa tendenza è ben documentata dalla drammatica divaricazione tra i tassi di insolvenza delle imprese europee (Creditreform 2016). Tra il 2007 ed il 2015 la Germania ha segnato una riduzione delle insolvenze delle imprese a un ritmo medio del 3 percento all’anno. Al contrario, nello stesso periodo Spagna, Portogallo e Italia hanno fatto registrare una violenta crescita delle insolvenze, con incrementi medi rispettivamente del 37, del 21 e del 16 percento all’anno. Negli ultimi tempi in Spagna si è assistito a un calo dei fallimenti, che tuttavia non consente nemmeno di avvicinarsi alla situazione ante-crisi. In Italia il quadro non migliora, mentre in Portogallo nell’ultimo anno si registra addirittura un ulteriore aggravamento delle bancarotte. Si tratta di una forbice senza precedenti, che oltretutto si ripercuote sugli andamenti dei bilanci delle banche dei diversi paesi dell’Unione, creando i presupposti per nuove, asimmetriche crisi bancarie.

È dunque illusorio pensare che la BCE, da sola, sia in grado di contrastare la deflazione. La sua politica monetaria, piuttosto, influisce sulle insolvenze e sulle liquidazioni dei capitali, che tuttora colpiscono in modo asimmetrico i paesi membri dell’Unione. Anziché attardarsi su target d’inflazione impossibili, è su quest’ultimo problema che il dibattito di politica monetaria dovrebbe maggiormente concentrarsi.

* Fonte: Econopoly - Il Sole 24 ore



Bibliografia

Brancaccio, E., Fontana, G. (2015). ‘Solvency rule’ and capital centralisation in a monetary union, Cambridge Journal of Economics, advance access online, 29 October.

Brancaccio, E., Fontana, G., Lopreite, M., Realfonzo, R. (2015). Monetary Policy Rules and Directions of Causality: A test for the Euro Area, Journal of Post Keynesian Economics, 38 (4).

Creditreform (2016), Unternehmensinsolvenzen in Europa, Jahr 15/16.

venerdì 15 aprile 2016

BANCHE: UN RATTOPPO CHIAMATO "ATLANTE" di Leonardo Mazzei

[ 16 aprile ]

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Spesso la finanza è immaginifica. E a volte ricorre alla mitologia. E' nato così «Atlante», che anziché portare l'intera volta celeste sulle spalle, come nella leggenda, questa volta dovrà occuparsi di mantenere in piedi il sistema bancario italiano. Non è detto che l'impresa si riveli più facile.
Ma che cos'è Atlante? Questa nuova creatura governativo-bancaria altro non è che un Fia (Fondo di investimenti alternativo), di natura teoricamente privata, dotato di una semplice (si fa per dire) mission: garantire la ricapitalizzazione degli istituti di credito in crisi, ripulire i bilanci degli stessi dal peso insopportabile delle sofferenze. In una parola, evitare il crac di buona parte del sistema bancario nazionale.

Insomma, dopo aver rimandato per anni gli interventi necessari, dopo aver subito la disastrosa regola europea del bail in, dopo aver incassato il nein euro-tedesco alla bad bank, la classe dirigente italiana (governo, Bankitalia, maggiori gruppi bancari, eccetera) ha partorito il gracile Atlante. Riuscirà questo fondo a raggiungere gli obiettivi dichiarati? Crederlo non è difficile, è praticamente impossibile.

Certo mostra di crederci Renzi, e come potrebbe essere diversamente! «Atlante sarà la soluzione ai problemi delle banche italiane» ha twittato trionfante come sempre il fiorentino. E come lui si sono precipitati a cantare le lodi del nuovo eroe mitologico i solitamente più austeri Visco e Padoan. Ma anche loro non potevano fare nulla di diverso. Siccome la forza di Atlante è in larga misura solo virtuale, è chiaro che occorre un pressing per convincere gli investitori ed i mercati finanziari della robustezza dell'operazione.

Del resto gli alti e bassi della Borsa sono lì a dimostrare la precaria fiducia degli operatori finanziari, mentre il forte calo registrato dalle due banche maggiormente impegnate in Atlante (Intesa e Unicredit) è il segno di una pesante sfiducia sulle prospettive del fondo.

Più che una soluzione, Atlante sembra proprio un rattoppo. Ma un rattoppo fatto male, ispirato ad una logica emergenziale piuttosto che "sistemica", come invece capita di sentir dire a sproposito in questi giorni.

La verità è che solo un robusto intervento dello Stato potrebbe risolvere la situazione. Piccolo particolare, esso contrasterebbe con le rigide norme europee, dunque non si potrà fare finché si resterà nell'eurozona. Ecco allora Atlante, il minuscolo coniglio uscito dal cappello di una classe dirigente che ormai vive alla giornata.

Gira che ti rigira torniamo sempre a questi nodi. Così concludevamo un articolo della fine del 2015: «
Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate. Questa è la posizione che dovrebbe assumere chiunque abbia a cuore le sorti del popolo lavoratore. Altre non ne vediamo».
E' evidente infatti che un salvataggio senza nazionalizzazione sarebbe solo un regalo agli istituti privati ed ai loro ricchi proprietari. Ma è altrettanto evidente che senza un vero intervento pubblico non potremo avere alcun salvataggio, con le disastrose conseguenze sull'economia nazionale che tutti sono in grado di immaginare.

Da questi nodi non si scappa. Padoan e Visco lo sanno bene, ma non possono dirlo, sia per ragioni ideologiche - dato che equivarrebbe ad ammettere il fallimento del sistema -, sia per ragioni concrete, visto che da Bruxelles ci metterebbero meno di un minuto a pronunciare un gigantesco no.

In queste condizioni la montagna non poteva che partorire il topolino. Questa volta per gonfiarsi il petto e fingere una forza che non c'è l'hanno chiamato Atlante, ma più che un gigante sembra proprio un nanerottolo.  


Fatte queste premesse, entriamo ora nel merito. Per ragioni di chiarezza espositiva lo faremo per punti.

1. Che cos'è Atlante?

Abbiamo già detto che Atlante è un fondo di investimenti. La sua particolarità sta nella sua architettura, nelle sue finalità, nelle regole che si è dato.

La struttura proprietaria è la prima caratteristica da evidenziare. Si dice che la dote iniziale del fondo sarà tra 5 e 6 miliardi di euro. Di questi, 3 miliardi arriveranno dalle banche, con Intesa ed Unicredit in testa con una quota di circa un miliardo ciascuno. Un altro miliardo arriverà dalle assicurazioni, 500 milioni dalle Fondazioni, 5/600 milioni dalla Cassa depositi e prestiti. Altri 500 milioni verranno dalla Sga (Società per la gestione delle attività). La somma si ferma così attorno ai 5,5 miliardi, ma altri soggetti potrebbero aggiungersi. Difficile comunque che si raggiunga la soglia massima prevista di 6 miliardi.

L'adesione ad Atlante è volontaria, ma il fatto che struttura, finalità e indirizzo gestionale siano stati il frutto di tre riunioni tenutesi presso il MEF (Ministero dell'Economia e delle Finanze), spiega assai bene perché si parli di "operazione sistemica". Diciamo che le alte sfere del sistema capitalistico italiano - specie quelle che governano il settore finanziario - hanno cercato un punto d'intesa per provare una specie di "piano B" per il salvataggio del sistema bancario.

Un salvataggio - e qui veniamo alle finalità di Atlante - da perseguire agendo in due direzioni, la partecipazione alle ricapitalizzazioni e - soprattutto - l'alleggerimento delle sofferenze presenti nei bilanci delle banche. Sulle ricapitalizzazioni il primo test sarà pressoché immediato. Sono infatti imminenti gli aumenti di capitale necessari per tenere in piedi la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, due istituti che abbisognano di capitali freschi per un totale di 2,5 miliardi. Ma nella lista di attesa pare ci siano già la Cassa di Rimini e quella di Cesena, nonché la Banca di San Miniato. Conclusione: se la risposta degli azionisti di queste banche fosse particolarmente bassa, il che certo non stupirebbe, Atlante potrebbe bruciare subito più della metà dei fondi iniziali. Qualcuno arriva a prevedere perfino un 70%...

La partita più grossa è comunque quella delle sofferenze, che d'ora in avanti chiameremo per comodità npl (non performing loans). La chiave di volta su cui tutto si regge sta in una regola che sarebbe scritta in un documento di 18 pagine, ovviamente segreto ma non per tutti, che prevederebbe l'acquisto degli npl a prezzo di carico anziché a prezzo di mercato. 

Se fosse davvero così, se - del tutto ipoteticamente - Atlante fosse in grado di acquistare tutti gli npl presenti nei portafogli delle banche a quel prezzo, il problema si risolverebbe da solo. O meglio, si risolverebbe per le banche, ma si complicherebbe assai per Atlante e per i suoi fondatori (in larga parte sempre banche), dato che alla fine qualcuno dovrà pur sostenere l'enorme differenza esistente tra il prezzo iscritto a bilancio (mediamente attorno al 44% del valore nominale) ed il 20% attualmente considerato di "mercato". Una differenza che tradotta in euri ammonta alla non modica cifra di 48 miliardi.

Certo, i fautori di Atlante sostengono che con la sua attività il fondo riuscirebbe a far rialzare di qualche punto il valore di mercato degli npl. Ma qui di punti percentuali per far quadrare i conti ne servono ben 24... Ed anche se Padoan parla di un effetto leva di 50 miliardi, secondo il Sole 24 Ore l'obiettivo di Atlante sarebbe quello di smobilizzare 15-20 miliardi di npl. Cioè meno del 10% della loro massa complessiva...

2. Come finirà il contenzioso con l'Europa?

Già si sarà capito il punto di probabile frizione con la Commissione europea. Non solo le regole dell'Unione Bancaria impediscono gli aiuti di stato, ma le norme eurocratiche considerano tali anche gli effetti derivanti da azioni private in qualche modo ispirate, favorite o - peggio - coordinate dai governi nazionali. Questo perché verrebbe in qualche modo alterata la "concorrenza".

E' questo il motivo per cui, alla fine, non si è fatta la bad bank. Il bello è che tanti paesi europei (Germania in testa) hanno usati soldi pubblici per mettere in sicurezza le loro banche (leggi QUI), ma oggi che toccherebbe all'Italia non lo si può più fare. Insomma: «chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdàmmoce 'o passato, simmo 'e Napule paisà». Solo che queste regole non vengono da Napoli, bensì da Berlino.

La rigidità europea che ha stoppato la bad bank si ammorbidirà di fronte alle spalle private di Atlante? C'è da dubitarne, anche se Padoan e Visco si sbracciano (magari un po' troppo) per dire che non ci saranno problemi. In realtà non ci vuole molto a capire che il parto delle riunioni al MEF non è propriamente "privato". 

Contrariamente ad altre ipotesi circolate, si è cercato di minimizzare il ruolo di Cdp - banca pubblica per l'80,1% - proprio per non mettere una trave negli occhi dei funzionari dell'euro-germania. Basterà questa accortezza, quando il problema dal punto di vista dei dogmi euristi è semmai quello del prezzo "politico" degli npl? Non lo possiamo sapere, dato che la decisione sarà eminentemente politica. 

Certo è che in materia bancaria in Europa se ne vedono di tutti i colori. E' notizia recentissima quella che riguarda Deutsche Bank. La banca tedesca, che ha emesso derivati per 75mila miliardi (20 volte il Pil del suo paese), si ritrova proprio per questo in una situazione alquanto rischiosa. Le norme bancarie, approvate dal Comitato di Basilea, imporrebbero dal 2018 regole più restrittive sul calcolo del valore dei derivati in bilancio. Regole assai pericolose per Deutsche Bank e per le banche tedesche in genere. Bene, il governo di Berlino ha immediatamente messo in atto una forte pressione su Basilea affinché tornasse indietro. Missione compiuta: lunedì scorso il Comitato ha annunciato il dietrofront. Questa la conclusione di Alessandro Plateroti sul Sole 24 Ore: «Che dire? Mercato Unico, regole uniche: quello che fa bene a Berlino fa bene all'Europa. Rischi sistemici compresi».   

Ipotesi: il governo Renzi ha forse trattato con il governo tedesco uno scambio utile ad entrambi, del tipo io faccio finta di non vedere i derivati e tu fai finta di non vedere la garanzia sugli npl? Difficile dirlo. Fino ad ora tutte le decisioni in materia bancaria sono sempre andate a vantaggio della Germania ed a svantaggio dell'Italia. Se oggi le cose andassero diversamente, questo vorrebbe dire solo una cosa, che il bubbone dei derivati è molto, ma molto più grande di quel che già sappiamo. Cosa che in effetti non è da escludere. 

3. Perché diciamo che è solo un rattoppo?

Il problema è che anche ipotizzando che le resistenze europee possano essere in qualche modo superate, resta la straordinaria debolezza di Atlante.

Già la tempistica mostra uno strumento messo in piedi con una logica emergenziale. Le banche venete devono ricapitalizzare e l'operazione potrebbe fare flop? Ecco che arriva in fretta e furia Atlante a fare da garante, ed abbiamo già detto come questa priorità potrebbe assorbire il grosso del capitale raccolto.

Parlando del solo Monte dei Paschi, Francesco Giavazzi scriveva a fine febbraio di un salvataggio da 10 miliardi. Adesso invece, con soli 6 miliardi scarsi si vorrebbe mettere in sicurezza l'intero sistema bancario... E' evidente che qualche conto non torna.

In realtà, a voler prendere sul serio quanto viene dichiarato, si scopre che tutto si regge su alcune speranze del tutte ipotetiche. Si spera che la garanzia fornita alle ricapitalizzazioni garantisca il successo delle stesse, senza che Atlante debba svenarsi per queste. Si spera - come abbiamo già visto - che il mercato degli npl si riprenda: ma allora come giustificare la prezzatura governativa al 17% applicata alle famose 4 banche "risolte" a novembre? E come giustificare la pressione esercitata dalla Bce di Mario Draghi affinché la Carige accettasse l'offerta del fondo Apollo, con un prezzo degli npl sempre al 17%? 

Questo nessuno ce lo spiega. Ed al posto di un minimo di razionalità ci tocca leggere testi ideologici come quello che Federico Fubini ha rifilato ai suoi lettori lo scorso 10 aprile. Secondo il giornalista del Corriere, che scriveva alla vigilia della nascita di Atlante, della quale evidentemente molto sapeva, il modello ha da essere quello adottato per il salvataggio di Ltcm, il grande fondo americano che fu salvato nel 1998 da un pool di 16 banche, spinto a tal fine dalla Federal Reserve. Quello di Fubini è un racconto quasi epico, con una specie di "capitalismo solidale" (fra capitalisti, questo è sottinteso), che alla fine riesce pure a guadagnarci qualcosa, ma sempre in nome di un fine superiore. Un modello che oggi ci viene proposto in questi termini: «una coalizione di responsabili sul mercato che si faccia carico dell'interesse collettivo».

Ma com'è bello il capitalismo di Fubini, e quanto è emozionante! Peccato che non esista. Le banche americane del 1998 pensavano certamente ai loro affari, ed una congiuntura ben diversa dell'attuale fece il resto.

Anche le banche italiane di oggi, nonché gli altri soggetti coinvolti, pensano certamente al loro interesse. A quello di impedire crisi finanziarie potenzialmente devastanti anche per gli istituti più solidi, a quello di apprezzare gli npl che tutti hanno in pancia, a quello di evitare gli effetti recessivi che ogni crac porta con se. Ma il punto è che lo strumento Atlante non potrà essere qualcosa di più di un rattoppo. Un rattoppo magari utile nell'immediato, ma del tutto inadeguato rispetto alle necessità sistemiche. 


4. Atlante potrebbe funzionare solo se...

Un'operazione come quella ipotizzata dal Fubini potrebbe funzionare solo a due condizioni: 1) una dotazione di capitale molto più elevata, 2) una vera ripresa economica, diciamo con tassi di almeno il 2% per parecchi anni consecutivi.

Su quanto possa essere realistica la seconda condizione non sprechiamo inchiostro. In quanto alla prima, se le cifre stanziate dai vari soggetti coinvolti sono così modeste una ragione ci sarà...

Il fatto è che la questione degli npl può essere risolta solo da una garanzia pubblica sul loro prezzo di acquisto. Una garanzia che si dice sia in qualche modo implicita nel testo del documento segreto al quale abbiamo già accennato, ma che con la dotazione attuale non può che riguardare comunque una quota troppo piccola di sofferenze.  

5. Conclusioni

La conclusione è dunque semplice. Non crediamo al "capitalismo solidale" di Fubini, né crediamo che l'Unione Europea (salvo qualche interessato scambio su Deutsche Bank) sia disposta a particolari concessioni in materia. Che un sistema bancario italiano alla deriva, e dunque violentemente deprezzato, sia nei sogni e negli interessi della finanza predatoria internazionale è del tutto evidente. Al tempo stesso, non scopriamo oggi la leggendaria irresponsabilità della classe dirigente italiana.

Atlante è la risultante di tutti questi elementi. Non è il gesto d'orgoglio di una borghesia nazionale in cerca di riscatto. E' invece soltanto la mossa difensiva di una borghesia compradora che non osa andare al cuore del problema. Quel cuore che sta non solo nelle regole, ma nell'autentico dominio dell'euro-germania.

Con le mezze misure non si salva l'economia del paese. Questo vale per i ridicoli decimali di "flessibilità" di Renzi e Padoan, per gli accordicchi di Alfano sui migranti, come per i rattoppi dei nostrani banchieri sulla devastante crisi degli istituti che guidano.

giovedì 28 gennaio 2016

BANCHE: L'ATTACCO TEDESCO ALL'ITALIA di Leonardo Mazzei

[ 28 gennaio ]


Perché non finirà a tarallucci e vino

C'è o non c'è un attacco tedesco all'Italia? Certo non ci sono i carri armati al Brennero, ma c'è o non c'è una guerra economica neppure tanto nascosta? Chi rispondesse con sicumera di no avrebbe di diritto l'iscrizione garantita al concorso a premi per l'ipocrita dell'anno. La cosa è così palese che persino i grandi imbonitori del politically correct(uno per tutti: Paolo Mieli) preferiscono assumere una diversa postura: non negano l'attacco, ma pensano che all'Italia convenga far finta di non vederlo.

Che nella classe dirigente non manchino i vigliacchi è cosa nota. Costoro non fanno mai seri bilanci storici. La loro narrazione del «sogno europeo» sta andando a pezzi? Non importa, conta solo continuare ad esser servi, a dire signorsì ai padroni di turno che gli staccano l'assegno mentre loro scrivono articoli sempre più timorati del Dio Euro(pa). 

Ci sono poi i quadratori del cerchio. Costoro vedono già meglio il problema, ma pensano di poterlo risolvere con qualche brillante trovata lessicale. E' il caso del think tank della Luiss sceso in campo in questi giorni (leggi qui) per dirci che: a) sì, è vero, la politica tedesca è un bel problema per il nostro paese, ma... b) l'Italia deve ricominciare ad occuparsi del debito pubblico perché... c) a quel punto l'UE (leggasi Germania) potrebbe accettare di tornare a forme di «coordinamento accentrato» tali da determinare un qualche tipo di solidarietà europea.

Ora, a parte che non si vede proprio come un nuovo impulso alla politica dei sacrifici possa mettere l'Italia in condizioni migliori delle attuali, quando mai in passato l'euro-Germania ha accettato politiche davvero solidali? Il no alla mutualizzazione del debito pubblico non è mai venuto meno, alla faccia di chi predicava gli eurobond, mentre il no alla condivisione del rischio bancario è cosa di questi giorni, ripetuta a caratteri cubitali, e visibile in chiaro anche da Marte.

La novità semmai è un'altra. Ed è che il rifiuto teutonico di ogni forma di solidarietà sul fronte bancario è motivata proprio dalla messa in evidenza dei rischi del debito sovrano. Detto in maniera semplice: noi tedeschi non possiamo  prenderci rischi per le vostre banche, anche perché sono piene di titoli del debito pubblico, contenenti un rischio default (che va dunque prezzato) e soggetti (questo lo aggiungo io) ad una tendenziale svalutazione non appena la Bce porrà fine al quantitative easing

Queste cose la Germania le ha messe in chiaro. Ma prima di vederlo più da vicino c'è da affrontare quella che vorrebbe essere un'altra obiezione. Quella secondo cui «i tedeschi hanno le loro buone ragioni». Obiezione che accogliamo da subito, purché se ne traggano le dovute conseguenze. Le loro buone ragioni si chiamano più esattamente interessi. Ma se la difesa degli interessi nazionali della Germania è considerata legittima, perché non dovrebbe essere egualmente legittima la difesa degli interessi italiani?

Si dirà che così l'Unione Europea è pronta a passare a miglior vita. Vero, è così e non ci dispiace affatto. Ma non perché ci piacciono i più triviali istinti nazionalistici, ma perché - mentre siamo convinti che possa esistere un nazionalismo democratico - c'è qualcosa di assai peggiore della rinascita dei nazionalismi, ed è il dominio di un nazionalismo (quello tedesco) sulle altre nazioni, sugli altri popoli. Questa è l'Europa reale di oggi, questo è il problema col quale misurarsi. 


Le tavole della legge della Bundesbank

A fine anno ci siamo già occupati dell'arroganza chimicamente pura del sig. Lars Feld, che non è esattamente un signor nessuno, bensì il più importante consigliere economico della signora Merkel. Così sghignazzava costui dalle colonne del solito Corriere della Sera il 19 dicembre scorso:
«Prevedo un pieno bail-in. I tagli alle obbligazioni e ai conti correnti sopra i 100 mila euro dovranno aiutare a ristrutturare le banche, perché la Commissione Ue impedirà salvataggi delle banche da parte del governo o sussidi nascosti agli istituti. Non saranno permessi». 

Un bel siluro non solo alle banche, ma all'intera economia italiana. Bella la solidarietà in salsa tedesca! Ovviamente il prepotente Lars non parlava solo per se stesso. Dietro di lui il governo di Berlino, la Bundesbank, la maggioranza parlamentare CDU-CSU/SPD, i media del paese.

Ora, tutto si può dire, ma non che i tedeschi non lavorino con metodo. Così, giusto per togliere ogni incertezza, per diradare ogni italica illusione, è arrivato un banchiere dal nome ignoto al grande pubblico, ma che di mestiere fa il vice a Draghi alla Bce in quota Bundesbank

Il suo nome è Andreas Dombret, il suo messaggio è chiaro: le banche, va da se quelle italiane in primo luogo, dovranno alleggerire il proprio «rischio sovrano». Dovranno cioè detenere un quantitativo limitato di titoli del debito pubblico di ogni singolo stato, e dovranno prezzare il rischio default sui titoli che gli resteranno in portafoglio.

Insomma, la solidale Germania continua a temere di doversi fare carico, anche in piccola parte, dei debiti altrui. Dunque, siccome per alcuni stati (Italia in primis) il rischio default è reale (prego prendere nota), i titoli del debito di questi stati vanno opportunamente svalutati nei bilanci delle banche che li detengono. Per capirci, se una qualsiasi banca detiene titoli per un miliardo diBund tedeschi ed un altro miliardo di Btp italiani, ai primi andrà dato un valore di 1 miliardo (100%), mentre i secondi potrebbero valere magari 950 milioni, forse 900 (90%) e giù a scendere a seconda delle situazioni.

Non so se a tutti sono chiare le catastrofiche conseguenze per un paese come l'Italia, ma anche per gli altri stati della periferia sud dell'eurozona, del meccanismo proposto (ormai è ufficiale) dalla Bundesbank e dal governo di Berlino. In ogni caso non sarà male elencarle.

In primo luogo, le banche italiane si troverebbero costrette a vendere grosse quantità di titoli, mettendosi nelle mani del «mercato», cioè della speculazione, per stabilire il prezzo della (s)vendita.

In secondo luogo, i tassi di interesse del debito italiano - che stanno in relazione inversa con il prezzo - crescerebbero in misura consistente, cancellando di brutto gli stessi vantaggi delquantitative easing

In terzo luogo, i bilanci delle banche nazionali, che detengono più o meno tutte grosse quantità di Btp, subirebbero perdite enormi, da compensare o con pesanti ricapitalizzazioni o più probabilmente ricorrendo al simpatico bail in che tanto piace a Berlino. A pagare sarebbe ciò la gran massa dei risparmiatori.

In quarto luogo, il peggioramento dei conti pubblici che ne deriverebbe, spingerebbe a nuove misure di austerità, dunque ad una nuova recessione, quindi ad un ulteriore aumento delle sofferenze bancarie.

E meno male che tutto è stato concepito - parole dell'ineffabile sig. Dombret - dalla necessità di «spezzare il circolo vizioso tra Stati e banche». In realtà, qualora la pazzesca proposta della Germania dovesse passare, assisteremmo esattamente ad un fenomeno diametralmente opposto di quello enunciato da Dombret. Altro che rottura del circolo vizioso tra rischio bancario e rischio sovrano! Avremmo, al contrario, un cortocircuito tra questi due poli in cui si condensa il lascito finanziario della crisi economica degli ultimi 8 anni. Con conseguenze devastanti.

Ora, siccome capire queste cose dovrebbe essere più o meno alla portata di tutti, come si fa a sostenere che quella scatenata dalla Germania non è - in senso economico - una guerra contro i paesi più deboli dell'eurozona, e contro l'Italia in primo luogo?

Ma, diranno gli increduli, cosa avrà mai da guadagnarci, la Germania, da una simile guerra? Tralasciando qui gli aspetti politici e quelli riguardanti la questione dei flussi migratori, che nel nord Europa pensano sempre più di scaricare sui paesi del sud (essenzialmente Grecia ed Italia), ci sono almeno quattro ragioni che spingono Berlino a mettere in ginocchio il nostro paese: 1) se i Btp si svalutano, i Bund si rivalutano: in questo modo (grazie alla moneta unica) sarà l'Italia a pagare il debito pubblico tedesco, 2) se le banche italiane continuano ad indebolirsi è inevitabile che finiscano in pasto ad istituti bancari di paesi più forti, ovviamente a prezzo stracciato, 3) banche messe così sotto pressione faranno sempre meno credito, con immaginabili ripercussioni sugli investimenti nel settore manifatturiero, il che alla Germania non potrà certo dispiacere.

Il governo italiano in un vicolo cieco

Se questa è la situazione, appare evidente il vicolo cieco in cui si è irresponsabilmente cacciato il governo Renzi. Sia chiaro, le colpe dei nostrani euristi vengono da lontano - come dimenticare, ad esempio, l'entusiastica adesione della maggioranza che sosteneva il governo Monti al fiscal compact ed alla follia del pareggio di bilancio in Costituzione? - e tuttavia l'aver accettato il meccanismo del bail in non è certo una responsabilità minore.

Fin qui Renzi ha risposto in maniera minimalista, aprendo diversi fronti polemici (banche, gasdotti con la Russia, migranti, flessibilità di bilancio), ma senza una chiara strategia. E pensare che, in materia di banche, il no tedesco al fondo di garanzia sarebbe stata l'occasione da cogliere per rimettere in discussione l'intera Unione bancaria a partire dal bail in

Ma così non è stato perché manca il coraggio di andare alla radice del problema. E l'attuale governo si regge su un blocco sociale assai eterogeneo, la cui direzione è comunque tracciata da alcuni centri di potere che non potranno andare allo scontro con l'UE senza prima frantumarsi al loro interno.

Renzi ha certamente capito che la questione bancaria non finirà a tarallucci e vino. E sa che su di essa si giocherà buona parte del suo consenso. Tutto ciò rende sostanzialmente inevitabile lo scontro con l'euro-Germania, ma come vorrà condurlo? E con quali forze?

La politichetta del «battere i pugni» per qualche decimale di flessibilità ormai non ha più senso. Non solo non funziona per far partire una vera crescita, ma la Commissione europea sembra comunque decisa a chiudere il rubinetto degli zerovirgola. 

Renzi dovrà dunque scegliere: o prova ad ingaggiare una battaglia politica vera, mettendo nel conto la possibilità di una rottura dell'eurozona, oppure dovrà acconciarsi al ruolo del solito politicante che sbraita a fini elettorali interni, ma senza la capacità di uscire davvero dalla gabbia in cui lui, i suoi predecessori, il suo partito insieme a buona parte dell'intero sistema politico, hanno condotto il paese.

Ovvio che questa seconda ipotesi equivarrebbe alla fine politica del fiorentino. Fine che diversi commentatori, ma non il sottoscritto, danno ormai per certa. Ma su questo converrà tornare con un altro articolo.


Andare alla radice del problema

Abbiamo detto che la classe dirigente nazionale non ha il coraggio di andare alla radice del problema. Cosa significa in concreto? Significa che - come ho cercato di mostrare - ogni problema affrontato nell'ambito della gabbia dell'euro diventa irrisolvibile. Significa che ogni questione viene piegata a vantaggio di chi quella gabbia controlla. Significa che i paesi resi più deboli dalla moneta unica devono sempre pagare il conto. E non solo in materia economica, ma anche sulla gestione dei flussi migratori e sulle scelte energetiche.

Andare alla radice significa dunque mettere in discussione l'euro, preparandosi al ritorno alla sovranità monetaria. 

Volete un esempio? Abbiamo visto come - rimanendo nella moneta unica - la crisi bancaria sia irrisolvibile, idem l'intreccio tra di essa e la questione del debito pubblico. Entrambi i problemi sarebbero invece affrontabili con una moneta nazionale. Solo grazie ad essa lo Stato potrebbe ricapitalizzare, nazionalizzandole, le banche. Solo così potrebbe ripartire il credito. Solo così si aprirebbe la strada per affrontare il dramma della disoccupazione, della precarietà e dei salari da fame.

E sul debito pubblico, perché non rispondere alla minaccia di usare i «mercati» per far ripartire il solito spread, con l'ipotesi di un bel default selettivo nei confronti dei titoli detenuti dalle banche estere qualora queste cominciassero a giocare al ribasso? Minaccia per minaccia, ho la vaga impressione che funzionerebbe.

Ovviamente, il governo che potrebbe davvero ingaggiare una simile lotta è di là da venire. Ma i tempi stringono e potremmo essere alle porte di cambiamenti epocali.


PS - Ciliegina sulla torta: ieri la Commissione Europea ha presentato un rapporto in cui il debito pubblico italiano viene considerato ad «alto rischio» nel medio periodo, esattamente dal 2017. Una tempistica niente male, dato che per la presentazione di uno studio triennale si è scelta proprio la vigilia dell'odierno incontro tra Padoan e la commissaria Vestager sull'ipotesi di bad bank. Ma non pensate male, non c'è nessuna guerra in corso, a Bruxelles e Berlino sono buoni. E se mostrano sempre più spesso i denti lo fanno solo per il nostro bene...

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