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giovedì 7 marzo 2019

VIVA L’8 MARZO, ABBASSO NON UNA DI MENO! di Daniela Di Marco

[ 08 marzo 2019 ]

Critica all’appello di Non una di meno per lo sciopero dell’otto marzo

8 marzo, Festa della Donna, o meglio, Giornata internazionale della donna.

Non festeggerò nulla né tantomeno parteciperò allo sciopero (trans)femminista indetto da Non una di meno.

Non sono fra quelle donne che in questi anni ha avallato il business commerciale, trastullandosi in consumistici festeggiamenti trasgressivi a base di cene in locali stracolmi di donne e spogliarelli maschili, contribuire a creare un uomo-oggetto pronto a far battere cassa a coloro da cui viene ingaggiato, non è nelle mie corde.

Che senso ha?

A ciò è stata per molto tempo relegata questa giornata il cui senso è stato totalmente stravolto, ma che trae origine dai sacrosanti movimenti femminili di inizio novecento che, rivendicando diritti fondamentali quali quello al voto, si battevano per l’emancipazione della donna.

Alcuni fanno risalire la data dell’otto marzo alla commemorazione degli incendi scoppiati in alcune fabbriche statunitensi, in cui perirono moltissime operaie (c’è discordanza storica su luogo e data: 1908 alla Cotton, una fabbrica di camice di New York che però sembra sia inesistente, o 1911 presso la fabbrica Triangle) altri, cui mi rifaccio, la ricollegano all’otto marzo 1917 (23 febbraio secondo il calendario giuliano) quando le donne di Mosca organizzarono un imponente manifestazione per chiedere “il pane e la pace”, l’inizio della fine per lo zarismo.

Per questo motivo nel 1921, la Seconda conferenza delle donne comuniste, fissò quel giorno come data celebrativa per la Giornata internazionale dell'operaia.

Ne è passata di acqua sotto i ponti, da allora; il movimento femminista ha percorso la sua strada.
Non c’è lo spazio per analizzare ciò che è stato, quali fratture lo hanno attraversato e i tanti rivoli in cui è diviso, una cosa è innegabile: da movimento rivoluzionario e socialista, si è trasformato oggi in movimento d’opinione e istituzionale, annullando le istanze rivoluzionarie. Non più movimento antisistema, niente più lotta contro padroni e sfruttatori, non più lotta di classe né progetti di trasformazione sociale, ma conflitto di genere.

Siamo oggi davanti ad un movimento a forte vocazione individualista che, in perfetto stile postmoderno decostruzionista, seguendo il femminismo radicale statunitense degli anni ’70 e l’esplosione dei Women’s e Gender Studies, sostenuti dai Cultural Studies, ha concentrato la sua attenzione sulla sessualità, arrivando, secondo me, a compiere il più grande femminicidio della storia: l’uccisone della donna in quanto tale, proprio per mano della donna.

E se non esiste più la donna, che senso ha una giornata internazionale a lei dedicata?

Ma spieghiamoci meglio.

Gli studi citati ci dicono che non c’è correlazione fra sesso biologico assegnato alla nascita e il genere di appartenenza conseguente, essendo il genere un costrutto socio-culturale, implicante da una parte la percezione che ciascuno ha di sé (identità di genere) dall’altro il sistema socialmente costruito intorno a quella identità (ruolo di genere). Dal momento che il sesso non è più sufficiente per individuare l’appartenenza al genere, sostenendo che dietro esso non vi sia nessuna natura e nessuna realtà, pervengono all’individuale e del tutto arbitraria modificabilità degli stessi grazie ai progressi tecnoscientifici e per di più ad una mobilità assoluta fra generi. Secondo il desiderio del momento, le infinite identità di ciascuno sarebbero libere scelte individuali sempre reversibili.

Il massimo dell’atomizzazione della persona, altro che donna, altro che genere!

E’ necessario secondo queste idee, che le convenzioni sociali si emancipino dalla natura, che le persone sleghino la loro identità dall’ordine sociale sottraendosi al dualismo sessuale di quello che definiscono eteronormatività (e il passo in direzione eterofobica è già avviato). 

A tutto questo è collegata la rivendicazione di nuovi diritti sessuali dei moderni femminismi che individuano il nemico nel maschio, eterosessuale, bianco, occidentale e fanno del desiderio un imperativo categorico: scegliere il proprio sesso, difendere le cosiddette minoranze sessuali, battersi per il diritto al matrimonio omosessuale e all’adozione, il diritto ad avere un bambino a qualsiasi costo, chissenefrega se viene sfruttato qualche utero di qualche donna (!) di qualche parte povera del mondo. «E’ un gesto d’amore» dicono. Tutto è sovvertito.

In nome della libertà dell’individuo borghese, unico dogma e valore intoccabile nella società liquida contemporanea, è stato seppelito il femminismo storico per far nascere il Trans-femminismo (Queer): «Che 100 nuovi generi nascano».

Non più le rivendicazioni delle donne proletarie, né un semplice inglobare le rivendicazioni delle comunità LGBT di postmoderna memoria.

Queste ormai sono un reperto archeologico, soppiantate dal più includente e terribilmente fluido LGBT*QIAP+ [ 1 ], sigla per forza di cose in costante cambiamento. 

Il fatto è che per i teorici di questo pensiero tutto sembra girare intorno all'identità di genere e quindi al sesso.

Mi chiedo: ma l’identità di un soggetto da cosa è determinata? Veramente dall'appartenenza di genere, come pensano le transfemministe? Penso di no, piuttosto credo che se si parla di "identità" ci sono di mezzo fattori come l'appartenenza di classe (sei un proletario o sei un capitalista), la funzione sociale (sei un funzionario del sistema o un suo nemico), sei un socialista o sei un liberista.



Non è un caso che questo radicale smantellamento del concetto di identità si inscriva dentro la visione globalista cosmopolita neoliberale («Porti aperti come i nostri culi»), con la sua esigenza di ingrassare il mercato promuovendo una mobilità internazionale che offre su un piatto d’argento paradisi fiscali, nazioni da depredare, forza-lavoro a basso costo, livellando sempre più i salari verso il basso e distruggendo quindi paesi, comunità, territori, madre natura, condizioni di lavoro e di vita, a unico beneficio di grandi imprese e multinazionali. Il passaggio da un genere all’altro è l’altra faccia della medaglia delle trasmigrazioni no border.

Per dirla con Formenti [ 2 ]: «I nuovi eroi di questa cultura sono gli appartenenti alle comunità LGBQT e i migranti (…) avanguardie cosmopolite di inedite comunità nomadi, figure che anticipano l’avvento di un cittadino del mondo destinato a rimpiazzare le vecchie identità nazionali etniche e culturali».

Ora, criticare questa brodaglia postmodernista è ritenuto non solo illecito, ma addirittura scabroso nei salotti elitari del Politicamente corretto, quelli, per capirci, di Jeff Bezos, di Marc Zuckemberg e Tim Cook.

Tutto ciò Non una di meno lo ha scritto nel suo dna.

Poteva sembrare che la nascita di questo movimento riportasse in auge dentro il movimento femminista italiano una battaglia politica degna di tale nome. Ma la confusione sotto il cielo è grande e grandi sono le contraddizioni di cui è portatore ben tradotte nell’Appello con cui hanno convocato lo sciopero di oggi.

Se guardate il sito di Non una di meno, vedrete in home il banner, in cui a caratteri cubitali è scritto: 8 marzo Sciopero Globale Transfemminista.

Hanno avuto l’accortezza di non usare la dicitura transfemminista nel testo dell'appello che indice lo sciopero, ma non siamo così stupidi da non tenere conto di ciò che da tanto tempo teorizzano, dicono e scrivono («la rivoluzione o sarà transfemminista o non sarà»). Hanno anche tolto il riferimento alle diverse possibili soggettività sessuali, ma sono ben incluse nel testo specifico che indice lo sciopero “dei e dai generi”.

Non si limitano a questo, sostengono lo sciopero “dei e dai consumi”, dal “lavoro produttivo e riproduttivo”, e, denunciando l’attuale reddito di cittadinanza, chiedono: reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale, così da essere libere di andare dove vogliono, coperte dal “permesso di soggiorno europeo senza condizioni”.

Richieste nuove «per inventare un tempo nuovo».

La distanza siderale dalle masse di donne lavoratrici e precarie, è evidente, per non parlare della conclamata subalternità alla distopia europeistica. 
Scommetto che la maggioranza delle donne che oggi sono in strada, non hanno idea di tutto ciò.

Stando così le cose, non solo non ho nulla da festeggiare, non ho motivazioni per aderire ad uno sciopero ideologico e politico di cui non condivido nulla, per di più sul tavolo ce ne stanno tante perché oggi osservi addirittura una giornata di lutto.

NOTE:


[ 1 ] LGBT*QIAP+ è l’acronimo per persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trans o non binarie (*), Queer, Intersessuali, Asessuali, Pansessuali, il + finale sta a indicare l’apertura verso qualsiasi altra autodefinizione in relazione alla propria identità di genere e/o orientamento sessuale.

[ 2 ] Carlo Formenti, Il Socialismo è morto, viva il Socialismo!, Meltemi Editore, gennaio 2019



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martedì 5 marzo 2019

LA GRANDE TRAPPOLA di M. Micaela Bartolucci



[ 5 marzo 2019 ]


Mala tempora currunt...

Parafrasando Marx ed Engels direi che il ruolo del femminismo post sessantottino, dinanzi all’incantesimo che ha esso stesso prodotto, è pari a quello dell’apprendista stregone che si trovi, impotente, a dominare le forze sotterranee che lui stesso abbia evocato. Ha distrutto senza ricostruire, lasciando in campo solo macerie e la reazione non si è fatta attendere.

Ovvero la famiglia è morta, viva la famiglia.
Non si esce da questo dualismo, artificialmente creato e, come in uno stadio, assiepati in una curva ci sono i sostenitori della famiglia tradizionalmente, considerata fonte di ogni bene, nell’altra siedono, confusamente riuniti, tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano codesta fonte di piacere. Qui è l’errore, qui è l’incantesimo; questi potenti spacciatori di liquame culturale che formano l’immenso Moloch del pensiero dominante ci mostrano che esistono solo due fazioni: da una parte un post femminismo, confuso ed orbo, che ha abdicato tutte le sue rivendicazioni per la sacrosanta parità di genere al globalismo LGBTQIA+, dall’altra i difensori pleistocenici della famiglia patriarcale. 


Questi spettri si aggirano indisturbati ovunque. Sui mezzi sociali, come nelle piazze, si affrontano, tali novelli gladiatori, in virtuali patetici combattimenti. Gli uni a colpi di improbabili manifestazioni circensi della peggior risma, che dovrebbero far sembrare sensato il disarmante spettacolo di uomini vestiti di piume e paillettes, sghignazzanti ed euforici, o in tenuta sado-maso che vorrebbero far credere di lottare per il riconoscimento dei diritti omosessuali e quello di donne che facendo bella mostra di tette e culi, variamente esibiti, vorrebbero essere prese sul serio nell’infuriarsi per lo sfruttamento del corpo della donna (mi riferisco al fenomeno da baraccone di Femen ed altri paradossali scempiaggini). 


Si risponde, a questa deriva circense, con melliflue immagini di famiglie uscite dalla retorica del ventennio, mirabolanti video che ci parlano delle meraviglie del nucleo familiare, improbabili fotografie del “si stava meglio quando si stava peggio”. Intanto, nella realtà parallela al loro ambivalente surreale, esiste ancora l’omicidio come risposta alla separazione, la violenza carnale come risposta ad una supposta provocazione o ad un rifiuto, lo sfruttamento della prole come rivendicazione di diritti economici o domiciliari nelle cause di divorzio, donne costrette a vendere il proprio utero a ricchi omosessuali che comprano neonati, madri ultracinquantenni che, sfidando ogni legge naturale, dopo una “brillante carriera” lavorativa, vogliono assolutamente soddisfare il proprio egoismo cercando di procreare con tutti i mezzi possibili, non si fa più educazione sessuale nelle scuole superiori ma pedagoghi quotatissimi, come Vladimir Luxuria, danno lezioni, su come si diventa transessuali, ai bambini delle elementari, ci si batte sul doppio cognome ma si cancella madre e padre per sostituirli con genitore 1 e genitore 2. Siamo all’apoteosi della cazzata assurta a diritto civile, si va contro la più banale e basilare delle norme democratiche, ben oltre le donne in vetrina in Olanda: assistiamo alla totale denigrazione del ruolo naturale, di donna e madre, che, invece di essere protetto e rispettato, è vilipeso ed oltraggiato da un’ideologia scellerata che permette e ritiene etico, tra le altre nefandezze, la fabbrica e l’acquisto di bambini a coppie che non possono averne, non per problemi legati alla fertilità ma perché, semplicemente, l’omosessualità non contempla la procreazione. Tutto questo è assolutamente assurdo ed aberrante. 

Apriamo una parentesi e chiariamo subito, per i tuttologi marxisti della domenica, che la famiglia è stata assolutamente funzionale al modo di produzione capitalista-manufatturiero che l’ha propugnata e difesa fino agli anni sessanta, poi il modo di produzione ed i desiderata delle élite sono cambiati e, la famiglia, non era più necessaria, almeno in occidente. Nel terzo mondo serviva e serve ancora, chiaramente, per la delocalizzazione a basso costo che sfrutta, come nell’ottocento, non solo le braccia dei genitori ma anche quelle dei bambini nella produzione di merci per un occidente asservito al consumismo trionfante. Nell’attuale società liquida occidentale, al momento, serve il singolo; esso è perfettamente funzionale al consumo: la casa, gli acquisti, le spese che, prima, venivano divisi all’interno di un nucleo familiare o di coppia, sono a carico di singoli individui, tutto è moltiplicato all’infinito. “Single è bello” ecco i magnifici anni ottanta! Da lì tutto è cominciato, il sistema economico stava cambiando e doveva mutare la struttura sociale. 

Si è iniziato con la falsa emancipazione della donna e ci hanno convinto che la parità di genere dovesse necessariamente passare in forma di omologazione. Il maschio era il modello di riferimento e, le “donne in carriera”, anche esteticamente, si rifacevano allo stereotipo wallstreattiano dell’uomo d’affari. La donna doveva equipararsi all’uomo in una finta parità di genere, solo estetica, perché in realtà la disparità, economico-sociale, era fortissima. Le donne che non lavoravano fuori casa erano spregiate, delle nullità, chi decideva di lavorare part-time e crescere i figli era considerata, da una certa ottica femminista, sottomessa ad una mentalità maschilista, — sì, sì, proprio così — c’erano dei diktat estetici e, direi, etici incontestati. Chi non si adeguava era fuori. Le critiche più feroci venivano proprio dalle donne, molto spesso da quelle stesse che uscivano dalla temperie femminista degli anni settanta e la cui evoluzione ha portato alle disastrose, parere strettamente personale, conseguenze che oggi si manifestano nel confusionario amalgama informe dello pseudo-femminismo odierno. Contemporaneamente si radicalizzano, proprio a partire da quegli anni, alcuni miti, che partono dalla “buona borghesia” come, per esempio, quello della colf straniera o della baby-sitter, altrettanto straniera: questo merita una piccola riflessione, infatti, all’epoca si cercava personale che parlasse inglese o francese, faceva molto chic e si pagava bene per questo privilegio, oggi, anche a causa della recessione ideologica, bambini ed anziani sono assistiti da persone, sottopagate, che a mala pena parlano italiano, per giungere fino al paradosso del dog-sitter, cioè ti compri un cane ma non hai neanche il tempo di portarlo a spasso! Ah le magnifiche sorti e progressive…


Tornando alle meravigliose propaggini del nuovo femminismo di casta, ritengo che l’otto marzo sia una metafora abbastanza chiara di questo processo. Dalle lotte nelle piazze per rivendicare la parità di diritti, il divorzio, l’aborto o la soppressione del delitto d’onore, si è passati, in un crescendo triste, alla cena con le amiche, con spogliarello maschile annesso ed il trionfo della mimosa, fino ad arrivare ai cortei di Non una di meno il cui aberrante programma politico-sociale è uscito, magicamente, e con esso si fonde totalmente, dal variopinto mondo no-global, no-border, ma fatto di unicorni e arcobaleni di un esoterico melting-pot sociale e sub-culturale. Le élite applaudono felici e brindano al loro successo mentre smantellano, in un assordante silenzio, i consultori, mettono a rischio la 194, distruggono l’istruzione — compresi asili, scuole ed università —, aboliscono l’articolo 18, riformano le pensioni, importano mano d’opera a bassissimo costo, chiudono i punti nascita degli ospedali di prossimità, fanno passare 10 vaccini… La sola risposta, visibile, a questo delirante universo distopico, sembra essere la restaurazione del duetto dio-famiglia di stampo ultra conservatore. Al Gay Pride si risponde col Family Day. Quale entusiasmante livello culturale si esprime in queste due contrapposizioni ideologiche!

Occorrerebbe uscire da tale dicotomia dogmatica in cui ci hanno costretto, questo non può voler dire, chiaramente, andare indietro di un secolo, ma guardare la situazione senza cadere nella trappolona del finto progresso teorizzato da questo pseudo femminismo che trova la propria somma espressione nello sdoganamento acritico dalla teoria gender. Basterebbe iniziare usando un po’ di buon senso e considerare tutto questo nulla, abbagliante e sfavillante, come funzionale al pensiero dominante e la falsa morale, che gli si contrappone, come residuato post nucleare, pericolosissimo e da maneggiare con cura. Non dobbiamo tornare indietro né, tantomeno, andare avanti, dovremmo semplicemente fermarci. Occorre prendere il tempo per elaborare un pensiero critico, non siamo di fronte ad una aporia, siamo dinanzi a due falsi ideologici, uno elaborato per distruggere, l’altro un fossile giurassico che dovrebbe attenere solo all’archeologia.

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sabato 24 novembre 2018

"NON UNA DI MENO" CHE? di Gerardo Lisco

[ 24 novembre 2018 ]

Oggi è la giornata di protesta promossa dai gruppi  lgbt*qia+ assieme alla coalizione femminista— per la precisione trans-femminista o "femminista transezionale" — Non Una Di Meno. La piattaforma si può leggere QUI. 
L'autore di questo articolo sostiene che questi movimenti sono un devastante cascame dell'ideologia liberista e un attestato della sua perdurante egemonia.


*  *  *
Le piazze di Roma e Torino e l’unica lotta possibile: QUELLA DI CLASSE

di Gerardo Lisco


Donne appartenenti alla upper class si mobilitano a Roma e a Torino contro altre donne. Queste stesse donne non si sono però mobilitate contro la Fornero, la Boschi, la Lorenzin, la Giannini, la Fedeli o la Madia fautrici di provvedimenti legislativi che hanno smantellato il sistema pensionistico, precarizzato il lavoro, favorito le banche, tagliato la spesa sanitaria, sottratto risorse a Università e Scuola – penalizzando lavoratrici, studenti e famiglie – introdotto norme funzionali alla privatizzazione ed altro ancora. Ognuno dei provvedimenti citati ha avuto come unico scopo la finanziarizzazione dell’economia con la conseguente crescita della disuguaglianza e della ingiustizia sociale. La modalità delle organizzatrici delle due manifestazioni richiama la mobilitazione delle donne e delle minoranze sessuali e artistiche all’indomani della elezione di Trump. Questo tipo di mobilitazione prova, se ce ne fosse ancora bisogno, l’egemonia culturale neoliberale sul mondo. Ragioni per organizzarsi e scendere in piazza anche contro questo Governo ce ne sarebbero e più di una. Anni di politiche neoliberali hanno prodotto povertà, degrado delle periferie, disuguaglianza, precarietà ed altro ancora. Gli effetti prodotti da anni di neoliberalismo avrebbero dovuto spingere in piazza milioni di persone. I ceti sociali che stanno pagando sulla propria pelle i costi di tali politiche, abbandonati da chi avrebbe dovuto rappresentarli, hanno scelto di farlo con l’unico strumento a loro disposizione: il voto. Manifestazioni organizzate da “madamin” contro le politiche economiche neoliberali, in questi anni, non ne abbiamo viste. 

Le organizzatrici di queste due manifestazioni non ricordano nemmeno lontanamente Luxemburg, Balabanoff e Kiuliscioff. La manifestazione di Torino è stata organizzata a sostegno della TAV. Tale opera, esempio della finanziarizzazione dell’economia e quindi funzionale alla speculazione finanziaria, progettata 30 anni fa, è ampiamente superata e quindi inutile. Le risorse finanziarie disponibili per la TAV potrebbero essere utilizzate, ad esempio, per l’ammodernamento delle rete infrastrutturale esistente e invece no. Ed è per questa ragione che la scelta del governo di voler operare un’attenta analisi costo/benefici, come è successo per il gasdotto trans-adriatico, merita attenzione. Alle organizzatrici delle manifestazioni di Roma e Torino ciò che interessa realmente è difendere le posizioni di rendita e quindi di classe. Questa loro difesa prova che l’unico vero conflitto è quello di classe. I conflitti di genere non sono in grado di incidere realmente sui rapporti di forza e sulla redistribuzione della ricchezza. Le “ madamin” di Torino e Roma difendono e rappresentano gli stessi interessi di: Fornero, Giannini, Boschi, Fedeli, Lorenzin, Madia, Gelmini, Bernini, ecc.ecc. Il conflitto di genere non è conflitto di classe. Una donna e un uomo sfruttati saranno sempre espressione della classe subalterna. 

Dominio e sfruttamento non seguono il genere ma la classe sociale di appartenenza. Il conflitto di genere è solo una costruzione ideologica, funzionale al capitalismo neoliberale, utile a deviare le masse dalla lotta fondamentale contro le disuguaglianze sociali. Le manifestazioni di Roma e Torino mi ricordano le signore dell’alta borghesia cilena che manifestavano contro Allende fornendo l’assist al golpe di Pinochet e quelle più recenti contro Lula e la Roussef. Sia chiaro nè l’ Appendino e nè la Raggi sono paragonabili ad Allende; ma il senso politico delle due manifestazioni e il disprezzo verso le masse popolari che si sono permesse di votare i due sindaci mi hanno fatto tornare alla mente quelle altre manifestazioni. La conferma a questa mia idea viene dai commenti dei media mainstream che mirano ad accreditare l’idea che le piazze di Torino e Roma sono di sinistra perché organizzate da donne omettendo accuratamente la classe sociale d’appartenenza e gli interessi economici che rappresentano. La culturale neoliberale mira a convincere l’opinione pubblica e gli stessi sfruttati che l’unica Sinistra possibile sia quella schierata a difesa del libero mercato e dell’ individualismo. La Sinistra è tale solo se alternativa al Liberalismo. Non si può confondere la libertà dal bisogno, premessa per la realizzazione della persona, con l’esaltazione individualista del Liberalismo. Una tale confusione è un salto indietro nella storia di almeno due secoli. L’attuale mainstream culturale non a caso parla di limitare la Democrazia e il diritto di voto in nome delle competenze. Un tale argomento è proprio del Liberalismo dei ceti dominanti dell’800. 

Allora si sosteneva che il diritto di elettorato attivo e passivo spettasse solo a coloro che possedevano ricchezza ed istruzione. Ricchezza ed istruzione andavano di pari passo e secondo la vulgata dell’epoca, di nuovo in voga, ricchi e istruiti sono gli unici ad avere competenze e interesse verso la cosa pubblica. Il leit motiv dei manifestanti di Roma e Torino è lo stesso. I ceti sociali dominanti dopo aver trasformato la Democrazia in antisociale, adesso tentano di costruire un sistema politico Neoliberale e antidemocratico. Le organizzatrici delle manifestazioni di Torino e Roma rappresentano gli interessi dei ceti dominanti e sono portatrici di una cultura politica neoliberale antidemocratica ed antisociale. Di fronte a un dato come questo l’unico conflitto possibile è quello di classe contro l’ingiustizia sociale e la diseguaglianza. Altri conflitti sono solo funzionali agli interessi delle classi egemoni.

* Fonte: l'Interferenza

lunedì 19 novembre 2018

FEMMINISMO DI REGIME di Alessandro Visalli

[ 19 novembre 2018 ]

Carlo Formenti, sia in “La variante populista”, sia in un intervento su Sinistra in rete pubblicato originariamente su Il Rasoio di Occam, estende un argomento sull’uso dei movimenti da parte del capitalismo al caso del ‘femminismo’.

La tesi di Formenti muove da un testo del 2014 di Luc Boltanski e Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”. Un poderoso studio sul ‘nuovo spirito del capitalismo’ che ha superato il modo di produzione fordista, imperniato su organizzazioni grandi e rigide, istituzioni burocratiche che erogavano protezione richiedendo lealtà, stili di vita ordinati e prevedibili, in favore di una flessibile esaltazione della iniziativa, un bisogno di autoespressione e di autenticità, di imprevedibilità. Boltanski e Chiappello focalizzano i movimenti alla metà del secolo scorso, quando la fiammata del ’68, destruttura la famiglia e le istituzioni autoritarie e paternaliste investendole con la critica. La critica dei movimenti era un impasto instabile di una tradizionale ‘critica sociale’, che derivava dalla lunga tradizione socialista, e da una nuova ‘critica artistica’, che si imperniava su una domanda di libertà vissuta in una chiave individuale a un breve passo dall’essere individualista.

La frattura, generazionale e culturale, con le strutture consolidate della sinistra storica è uno dei fattori, nel ventennio 1968-89, che porta per Formenti e per gli autori citati[1], ad uno slittamento decisivo: la libertà come scelta individuale non è più percepita come un ideale della destra, al più del liberalismo, ma lo diventa tutto ciò che appare autoritario, oppressivo, conservatore. La ‘critica sociale’, quasi senza avvedersene, scompare dall’orizzonte mentre tutte le domande di riconoscimento identitario, di emancipazione dai vincoli gerarchici e burocratici, è identificata automaticamente come di ‘sinistra’.

Questo ‘nuovo spirito’ viene incorporato nella modalità di funzionamento del capitalismo, a livello delle sue imprese (si guardi ad esempio questa comunicazione aziendale). Tutti i manuali di management del ventennio parlano di flessibilità, mobilitazione delle risorse umane, strutture snelle e flessibili, riduzione della gerarchia, soggettivazione. 

Non si tratta, per Formenti, né di una mistificazione ideologica da parte di un ‘capitalismo’ preesistente e capace di incorporare qualsiasi critica non ‘strutturale’, né di un adattamento alle pressioni esterne del lavoro[2], ad un corpo sociale esterno e fondato su un proprio principio. Ma si tratta di un’unità tra i rapporti sociali di produzione e l’ambiente storico-culturale nel quale si manifestano. Il rifiuto delle gerarchie e delle forme di organizzazioni rigide che ispirano i movimenti sociali porta alla prevalenza di alcuni topoi politici: la mistica della società civile, la rivendicazione dei ‘diritti’ come potenziamento degli individui, lo slogan di cambiare il mondo partendo dai sé, la necessità di disintermediare la politica (ovvero anche la rappresentanza ed i partiti, visti come insopportabilmente burocratici e castali).

Questo spirito del tempo è ad una brevissima distanza dalla critica neoliberale al keynesismo ed alla forma economica del ‘trentennio glorioso’. Ronald Inglehart, lo descrive in modo molto chiaro già nel 1977 in “La rivoluzione silenziosa”, la sicurezza esistenziale conquistata dalle classi medie occidentali durante gli anni sessanta, nel benessere diffuso che viene creato dal fordismo realizzato, muta i valori egemonici. Si produce in quegli anni un “punto di inversione” che fa perdere centralità a quelli che chiama “i valori materialisti” (che ispiravano la ‘critica sociale’ e la lotta di classe) in favore di “valori post-materiali” (la qualità della vita, l’ambiente, la sicurezza, l’autoespressione). Nel successivo “La società postmoderna” l’analisi è lucidissima:

“i postmaterialisti non sono non materialisti, e neppure antimaterialisti. Il termine indica un set di fini che sono ritenuti importanti dopo che le persone hanno ottenuto la sicurezza materiale e proprio perché l’hanno ottenuta. Così la perdita di sicurezza potrebbe portare ad un graduale ritorno alle priorità materialiste[3]

Ma chi sono i “postmaterialisti”? Non certo tutti, si tratta solo dei “segmenti più sicuri delle società industriali avanzate”; se prevalgono è perché la società del benessere si è ‘cetomedizzata’. Dal punto di vista degli anni ottanta e novanta, ed in coerenza con le teorie economiche neoliberali[4], si pensa che questo raggiungimento sia stabile e crescente. Soprattutto se si garantiscono interconnessioni, libertà di movimento, innovazione, meritocrazia e flessibilità.

Di questo spirito del tempo partecipa, e non potrebbe essere altrimenti, anche la ripresa dei movimenti di autoespressione, fondati sulle identità, che proliferano a partire dagli anni sessanta, e tra questi il nuovo ‘femminismo’. Un vasto movimento, altamente differenziato e disomogeneo, che contiene alcuni veri e propri miti fondativi, secondo la lista ricordata da Formenti, che: tutte le femministe siano uguali, esista una unità naturale per il fatto di essere donne, il femminismo sia una politica delle donne per le donne, il collettivo sia il movimento, gli spazi attribuiti alle donne siano di per sé positivi, che il ‘personale’ sia automaticamente ‘politico’, che la democrazia sia consenso.

Naturalmente queste approssimative espressioni sono più largamente condivise nella società e nei suoi movimenti, e sono presenti nelle forme ‘ingenue’ di femminismo, mentre in molte versioni critiche[5] ci sono significative prese di distanza. La Federici, in particolare, evidenzia come la conversione in senso riformista del movimento femminista sia avvenuto proprio mentre si stava sviluppando un irresistibile processo di femminilizzazione del lavoro, con una massiccia immissione di forza-lavoro femminile nei processi produttivi e la valorizzazione di qualità normalmente concepite come ‘femminili’ (la vocazione relazionale, la capacità di cura, di comunicazione) nel dispositivo produttivo delle imprese di successo. Ciò perché la produzione si terziarizzava.
Il processo è stato utilizzato, o a funzionato, per smantellare le strutture di welfare ed estendere la flessibilità, il lavoro part-time, la precarietà, per effetto delle caratteristiche della competizione femminile.
Inoltre il movimento femminista nel suo complesso, in particolare nelle versioni ‘ingenue’, comunque prive di carica di ‘critica sociale’ (ma dense di ‘critica artistica’), fa scomparire dietro l’orizzonte il conflitto di classe tra le donne, che diventano tutte ‘sorelle’.

Nell’articolo “Contro il femminismo di regime” Carlo Formenti accusa alcune influenti aree femministe di esprimere rispettivamente un “cattivo universalismo” e, all’opposto, un “cattivo relativismo”. Oggetto del suo attacco sono da una parte la posizione ‘gender’, in particolare di Judit Butler[6], che la esprime in forma più equilibrata, e dall’altra quella del cosiddetto femminismo mainstream.

Butler, peraltro, critica il “cattivo universalismo” del mainstream sostenendo:

“1) che esse non sono l’unico segmento di popolazione esposto a condizioni di precarietà e di privazione dei diritti; 2) che la popolazione sussumibile sotto la denominazione minoranze di genere e sessuali (quindi non solo le donne ma la comunità LGBTQ) è differenziata al proprio interno in termini di classe, razza, religione, appartenenze comunitarie linguistiche e culturali.
Da questa duplice presa d’atto, viene fatta derivare un’importante conseguenza politica: il movimento femminista dovrebbe diffidare delle forme di riconoscimento pubblico (riconoscimenti, aggiungo io, che oggi gli piovono generosamente addosso da partiti e governi di centro, destra e sinistra, media, canzoni, film, programmi televisivi, aule parlamentari e di tribunale, ecc.) soprattutto se e quando tali riconoscimenti servono a deviare l’attenzione dal massiccio disconoscimento dei diritti di altri soggetti.” 

Il ‘cattivo universalismo’ femminista compie una translazione meccanica della scolastica posizione di alcune sinistre marxiste nella ricerca del ‘soggetto’ rivoluzionario della Storia (solo che lo identifica, con un trasferimento di senso meccanico, dalla classe operaia al genere femminile, in quanto soggetto oppresso). Sarebbe, dunque, il genere femminile l’incarnazione dell’interesse generale dell’umanità. Appare, in questa ipotesi, ovvio che “la sua riproposizione in condizioni storiche mutate finisce di fatto per sposare i valori dell’universalismo borghese occidentale, con la conseguenza di tracciare confini amico/nemico semplificati, che neutralizzano il groviglio di antagonismi sempre più complessi e intrecciati cui ci troviamo di fronte”.

D’altra parte già Inglehart sottolineava che in sincronia con lo slittamento verso valori post-materialisti dei ceti soddisfatti si era verificato un doppio movimento politico-elettorale: dei ceti medi, i centri urbani, verso sinistra e dei ceti popolari, le periferie, verso destra[7], in una vera e propria “inversione di classe”. Dunque sostenere che il genere femminile (ovvero la sua parte borghese e sensibile ai valori post-materialisti, quindi impegnata nelle politiche identitarie e nell’autoespressione) sia il nuovo ‘soggetto rivoluzionario’, in vece, dei lavoratori, non è altro che la formalizzazione di questo doppio spostamento.

Sostiene sempre Formenti, anche la sofisticata posizione della Butler ricade nell’altro corno del dilemma. Esaspera una posizione decostruttiva ed individualista, per cui la persona riesce ad astrarre dalle condizioni in cui si colloca riassumendo, come dice Luisa Muraro, “nell’identità personale qualsiasi identità”[8].

“L’esaltazione delle “singolarità” - che accomuna i gender studies alle correnti mainstream delle teorie postcoloniali, delle filosofie poststrutturaliste e del postoperaismo – è infatti un tratto caratterizzante di quel pensiero “americanizzato” che tende a neutralizzare le differenze <> – di classe, genere, etnia, religione, ecc. – sostituendole con la galassia delle microidentità, che vengono fatte proliferare fino a coincidere, appunto, con la singola persona”.

Insomma, è la stessa Muraro che la sospetta di subalternità alla logica del capitalismo contemporaneo.

Il punto di snodo dell’articolo di Formenti è però quando si chiede se “esistono, all’interno del campo femminista, punti di vista teorici in grado di superare tali contraddizioni, contribuendo a creare le premesse per la costruzione di un blocco sociale anticapitalista che non può prescindere dall’apporto del movimento delle donne?” 

La risposta è positiva: ci sono alcuni autori che stanno cercando di porre le basi intellettuali di un “nuovo femminismo socialista”. Sono Nancy Fraser ed il suo concetto di “crisi della cura” come parte della “crisi capitalista”. La posizione disloca la crisi fuori della sfera strettamente economica, precisamente al confine tra produzione e riproduzione. Come Luxemburg Fraser sostiene che le attività “non economiche” di riproduzione sociale (nelle case, nei quartieri, nelle reti informali), sono precondizione della stessa esistenza del sistema economico, ma sono destabilizzate dalla tendenza egemonica dell’accumulazione. La “crisi della cura” nasce da questa contraddizione antagonistica.

Secondo la sintesi del nostro:

“È proprio cogliendo questa combinazione perversa di emancipazione e mercatizzazione che Fraser offre quello che forse è il suo contributo più importante all’analisi delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. La “perversione” è il frutto della convergenza fra la “guerra di classe dall’alto” - per usare le parole di Luciano Gallino - del capitale contro le ridotte capacità di resistenza della forza lavoro dei paesi occidentali e le rivendicazioni dei nuovi movimenti sociali (femministe, ecologisti, LGBTQ, ecc.) i quali, sostiene Fraser riprendendo e approfondendo le tesi di Boltanski e Chiapello, hanno dato vita a un paradossale “neoliberismo progressista” che celebra la diversità, la meritocrazia e l’emancipazione mentre accetta o addirittura considera come positivo lo smantellamento delle forme di protezione sociale tipiche della precedente fase capitalistica. La critica contro ogni tipo di gerarchia – di sesso, genere, etnia, razza e religione – viene fatta propria da un capitalismo gauchiste che si incarna nelle imprese della Silicon Valley, nell’industria culturale di Hollywood e nelle produzioni immateriali di servizi avanzati, mentre trova espressione politica nei Democratici alla Clinton, nel New Labour di Tony Blair e nelle sinistre socialdemocratiche europee. Al tempo stesso la rabbia delle classi subalterne che, abbandonate dai loro rappresentanti storici, si rivolgono ai populismi di destra, viene liquidata con disprezzo come fascista, razzista e sessista da questa sinistra sex and the city.”

La cosiddetta “lotta al patriarcato”, certamente ancora presente nelle pieghe della società contemporanea (nella quale, come riconosceva già Sombart all’inizio del secolo scorso, coesistono sempre modi di produzione diversi e confliggenti), è in questo quadro residuale e di retroguardia. Rischia, anzi, di fare il lavoro del nemico.
Oggi l’immaginario dominante, e più funzionale alla produzione di valore e distruzione dell’umano, è, come scrive la Fraser: “è liberale-individualista ed egualitarista rispetto al genere: le donne sono considerate uguali agli uomini in ogni sfera, meritevoli di uguali opportunità per realizzare i loro talenti, compreso – forse in modo particolare – nella sfera della produzione. La riproduzione, per contro, appare come un residuo arretrato, un ostacolo al progresso da eliminare, in un modo o nell’altro, nella strada verso la liberazione”.

Insomma, come avevo scritto nella presentazione del libro “Contromano” di Fabrizio Marchi:

All’autoritarismo delle forme tradizionali si sovrappone e sostituisce, certo gradualmente, una forma sottile, ma più ferrea, di autoritarismo del mercato. In altre parole, la questione non è tanto del “plusvalore non pagato” o di appropriarsi del potere giuridico di disporre della proprietà privata, ma di ridefinire la “forma sociale del valore stesso”, ed il suo feticismo che mette in concorrenza tra di loro tutte le classi e gli individui entro esse, siano essi maschi o femmine. La “forma sociale del valore” si costituisce, infatti, senza che nessuno la progetti, come struttura senza soggetto (anonima e desessuata) con l’immenso potere di agire “dietro le spalle” di tutti gli uomini e le donne, sottomettendoli ad un processo di trasformazione dell’energia umana in denaro. Ovvero in una oggettivazione dei rapporti di dominazione che si nutrono delle vite che incapsulano. Che di fatto le identificano. Il capitale, così letto, non è appropriabile. Non è questione di possedere i mezzi di produzione, perché la vera produzione è di rapporti sociali e quindi forme dell’umano, oggettivati nel rapporto con il denaro come dominus totale. O meglio del denaro come traduttore e condensazione in uno della dominazione, che coinvolge insieme “possessore” e “posseduto”, creditore e debitore, accumuli e decumuli. Rispetto a tutto questo il “patriarcato” non è che un residuo fossile, ancora qui e l’ì presente, ma superato sistematicamente e di ostacolo al ‘movimento automatico’.

In altre parole le forme sociali imperniate sulle autorità tradizionali sono obsolete e disfunzionali rispetto allo stato della tecnica ed alle esigenze della valorizzazione (in particolare ‘fittizia’, ovvero finanziarizzata), il potere ed il valore oggi passa per il controllo delle menti, dell’informazione e non per le soggettività stabilite.

Al post di Formenti, tuttavia, lo stesso Marchi risponde, in “Caro Formenti, il femminismo è uno solo…”,

La critica di Marchi si impernia sulla cerniera dell’articolo di Formenti, ovvero sul tentativo di trovare dei punti di vista teorici, entro il campo femminista, che abbiano la potenzialità di superare le contraddizioni di costruzione del discorso come parte del più ampio campo del “politicamente corretto” (multiculturalismo, politica della differenza, lotte identitarie e delle minoranze), per creare le condizioni, nuovamente, della ricostruzione di un “blocco sociale anticapitalista”, portando in esso le energie e le capacità di mobilitazione del movimento delle donne.
Si tratta di realismo politico, o, per come la mette Marchi, di opportunità politica.

C’è una differenza di posizione nelle due letture che è chiaramente esplicitata: il punto è che si occupa di questi temi “non solo dal punto di vista teorico ma soprattutto da quello pratico, molto pratico”.  

La tesi di Marchi è, dunque, che non c’è spazio pratico (evidentemente quello teorico è giudicato irrilevante) per un femminismo che sfugga alla funzione di (inconsapevole) ancella residuale della modernizzazione neoliberale. Che, quindi, tutti i femminismi realmente esistenti sono caratterizzati dalla criminalizzazione del genere maschile, giudicato portatore inevitabile del patriarcato. Il punto di attacco di Marchi è “Non una di meno”, un movimento molto largo di sigle femministe, piuttosto ‘plurale’ (altro modo di dire confuso) e ‘dal basso’ come è di moda fare da qualche tempo, che abbastanza non a caso aderisce al cartello di “Potere al popolo”, lanciata nel 2016, secondo la Elisabetta Teghil dalla “socialdemocrazia riformista”.

La prima frase del documento “Verso l’assemblea nazionale a Bologna”, ad esempio, recita:

“Negli ultimi anni le immense mobilitazioni planetarie delle donne e lo sciopero femminista hanno reso evidente che la violenza maschile e di genere è un fattore strutturale della società globale. In ogni parte del mondo, questa violenza è la risposta brutale a ogni pretesa di libertà e di riscatto avanzata dalle donne e da chiunque rifiuti di essere un oggetto silenzioso e passivo di violenza. Questa violenza assume forme diverse, attraversa le case e i luoghi di lavoro, la famiglia e le istituzioni ed è una violenza sociale, perché sostiene e garantisce la riproduzione delle gerarchie su cui si regge complessivamente l’ordine neoliberale”.

La Teghil sostiene che “le compagne e le femministe hanno perso talmente tanto i riferimenti politici di anni di lotte”… che “le parole che avevano costruito e costituito l’ossatura del femminismo vengono rilanciate come uno spot pubblicitario svuotate dai contenuti effettivi, il tutto condito da un’accattivante dichiarazione di anticapitalismo”.

Leggendo questi incipit non si può che essere d’accordo con lei.

Si dice che “la violenza maschile e di genere è un fattore strutturale della società globale”, prendendo a prestito un gergale marxista completamente fuori di ogni plausibile sfera di senso. Segue una frase che dovrebbe esplicarne il senso, “in ogni parte del mondo, questa violenza è la risposta brutale a ogni pretesa di libertà e di riscatto avanzata dalle donne e da chiunque rifiuti di essere un oggetto silenzioso e passivo di violenza.

Questa frase è di notevolissima costruzione, andiamo con ordine:
-        sarebbe “strutturale” alla formazione “della società”,
-        ma, questo è importante, “in ogni parte del mondo” (dalla Cina comunista, al più piccolo ed ‘arretrato’ villaggio indonesiano, alla city di Londra, alla civilissima Svezia o alla tradizionalista Calabria interna, per dire) questa risposta alle pretese di libertà.
-        Pretese, sembra di capire individuali, dato che di violenza individuale e non pubblica o di Stato si parla qui.
Ma c’è anche di più:
-        la frase ha una chiusa che dissolve, senza avvedersene, la specificità della denuncia, derubricandola a tautologia.
-        La violenza è la risposta brutale a chiunque (maschio o femmina) rifiuti di essere oggetto passivo e silenzioso di violenza.
-        Ovvero, la violenza è la risposta a chi non accetta la violenza.

Complimenti.

Al di là di questo scivolamento (espressione, evidentemente, di un’obiezione “in foro interiore” mal gestita), l’incipit continua affermando che “questa” violenza (sulle donne) assume forme diverse e “sostiene e garantisce la riproduzione delle gerarchie su cui si regge complessivamente l’ordine neoliberale”.

Ovvero abbiamo qui un “ordine” che si regge su “gerarchie” le quali sarebbero create da una violenza sulle donne. È completamente dissolta qualunque differenza di classe (tanto più la lotta).

La frattura costitutiva il politico è definita invece nella divisione tra minoranze “LGBTQIA+” e una non meglio precisata “società”, caratterizzata da un famigerato “ordine patriarcale” (in qualche manifesto è scritto “usciamo dal medioevo”, sempiterno grido di battaglia di ogni liberale a partire dal settecento).

Tutta la retorica del movimento (che naturalmente dice anche cose più che giuste ed opportune, che appoggio senza alcuna riserva) sembra diretta contro lo Stato, e dunque automaticamente per il ‘mercato’, luogo di libertà e autodeterminazione. Un esempio: “Il mancato accesso a reddito, saperi, tecniche e strumenti, a interventi e farmaci, si traduce di fatto nella negazione della nostra capacità di autodeterminarci, funziona come dispositivo governativo di controllo e disciplinamento di corpi e vite”.

Seguono veri campionari di tuttismo e sinistrismo, la cui ispirazione di fondo è un misto di liberalismo radicale, anarchismo (per Gramsci[9] una sua evoluzione), e semplice confusione, come questo:

“Siamo transfemministe e transnazionali: siamo tutte persone in transito nel tempo, tra i generi, tra i territori e gli spazi urbani, oltre i confini che vogliono impedire violentemente la libertà di movimento, seguendo il nostro cammino di liberazione da stereotipi e norme in cui non ci riconosciamo e che non ci rappresentano. vogliamo rilanciare una cultura di pace contro le guerre, le logiche militariste e di occupazione finalizzate allo sfruttamento delle risorse ambientali e al controllo del loro prezzo, alla distruzione della terra, al suo assoggettamento al servizio del profitto. Rivendichiamo l’abolizione delle dicotomie gerarchizzanti che vedono gli altri animali come polo inferiore di un binarismo più profondo di altri, quello umano-non umano, che sembra biologico e quindi “naturale”, ma che è invece politico e culturale. Siamo portatrici di strategie diverse, più radicali, che non rafforzino privilegi e dominio di una specie sull’altra, di alcun* soggetti su altr* resi invisibili ma che sono portatori di desideri e dignità. Ci riconosciamo nella resistenza di tutti i corpi resi oggetto per poter essere sfruttati”.

La radicale sconfitta della tradizione socialista e marxista emerge da queste miscellanee, o da frasi come “vogliamo partire dai desideri delle persone”, per “rigenerarci liberamente”. La rivoluzione è dunque solo “culturale” e si definisce interamente nella “liberazione di soggettività”.

Anche se non se ne avvedono affatto è questo lo spirito più autentico del liberismo.

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