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martedì 30 agosto 2016

CONTRO LA RETORICA COSMOPOLITICA DELLA "CITTADINANZA UNIVERSALE" di Danilo Zolo

[ 30 agosto ]

«La cancellazione della cittadinanza nazionale e dei suoi valori in nome dell'ideale universalistico della cittadinanza universale è una strada che conduce, nonostante le buone intenzioni dei suoi sostenitori, nelle braccia dell'imperialismo statunitense e del suo progetto di egemonia mondiale mascherato sotto le vesti della diffusione planetaria dei valori occidentali».

Danilo Zolo [nella foto ] è uno dei più prestigiosi filosofi del diritto viventi.
Autore di numerosi libri e saggi, molti dei quali tradotti in svariate lingue.
Ci pare molto utile pubblicare alcune parti di un suo libro del 2007: Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata (Edizioni Punto Rosso).


INTRODUZIONE

Da cittadini a sudditi: è questo il processo di regressione politica oggi in corso nelle 'democrazie del benessere' occidentali. La qualifica di cittadino si oppone a quella di straniero, sempre meno a quella di suddito. La cittadinanza torna ad essere un dato formale, con una connessione sempre più incerta con i diritti dei cittadini, con la loro dignità e autonomia, con il loro sentimento di solidarietà e di appartenenza ad una comunità politica. La cittadinanza tende a divenire una pura ascrizione anagrafica che sopravvive come strumento di discriminazione dei non cittadini. In Europa —in Italia in particolare— ha sinora operato come una clausola che esclude i migranti 'extracomunitari' dalla titolarità o dal godimento dei diritti fondamentali. È una clausola che li riduce, soprattutto se irregolari, ad una condizione di non-persone, che li rifiuta, li respinge o li rinchiude in carcere. Una condizione non razzista della cittadinanza esigerebbe che a tutti gli stranieri che vivono e lavorano in Europa venisse concessa la piena cittadinanza in tempi rapidi e senza condizioni capestro.


È sempre più evanescente la grande, nobile idea, riproposta da Thomas Marshall nella seconda metà del secolo scorso, della cittadinanza come luogo in cui si realizzano le condizioni politiche, economiche e sociali della piena appartenenza di un soggetto ad una comunità organizzata: l'ambito della realizzazione effettiva —non della semplice titolarità giuridica— di aspettative sociali collettivamente riconosciute come legittime, espressione di una solidarietà pubblica fruita e condivisa da tutti i cittadini. E si dissolve a maggior ragione l'idea welfarista del carattere inclusivo ed espansivo dei diritti soggettivi in una traiettoria evolutiva che dovrebbe correggere la deriva discriminatoria dell'economia di mercato, procedendo per tappe successive dai diritti civili a quelli politici e a quelli sociali, verso approdi sempre più egualitari.

Nei paesi occidentali, a partire dalla fine della Guerra fredda, si sono verificate profonde mutazioni del sistema politico ed economico, tali da stravolgere le strutture stesse della cittadinanza. Dalla società dell'industria e del lavoro siamo passati alla società postindustriale dominata dalla rivoluzione tecnologico-informatica e dallo strapotere delle forze economiche che sfruttano le dimensioni globali dei mercati proiettando le disuguaglianze sociali su scala planetaria. Il fallimento del 'socialismo reale' e la spinta della globalizzazione hanno messo in crisi anche le istituzioni del Welfare State e fortemente contratto i diritti sociali, a cominciare dal diritti al lavoro, soprattutto delle nuove generazioni. I processi di globalizzazione economica consentono alle grandi corporations industriali e finanziarie di sottrarsi ai vincoil delle legislazioni nazionali, in particolare all'imposizione fiscale. Nello stesso tempo lo sviluppo tecnologico ha aumentato la produttività delle grandi imprese che tendono a disfarsi della forza-lavoro che non sia altamente specializzata e di questa si servono secondo le modalità del lavoro interinale o a tempo determinato, con la conseguenza di un costante aumento della inoccupazione giovanile e della disoccupazione.

Nel frattempo la democrazia parlamentare ha ceduto il passo alla 'videocrazia' e alla 'sondocrazia': la logica della rappresentanza è surrogata dalla logica della pubblicità commerciale, assunta a modello della propaganda politica. Il codice politico è contaminato dal codice multimediale della spettacolarità e della personalizzazione. Il potere persuasivo dei grandi mezzi di comunicazione di massa ha vanificato anche gli ultimi residui 'partecipativi' e 'rappresentativi' della democrazia pluralista à la Schumpeter. I partiti di massa sono scoparsi. Le direzioni centrali dei partiti non ricorrono più alla mediazione comunicativa delle strutture di base e del proselitismo degli iscritti e dei militanti. Non ne hanno più alcun bisogno perché ci sono strumenti molto più efficaci ed economici per farlo: i canali delle televisioni pubbliche e private. In questo senso i nuovi soggetti politici non sono più, propriamente, dei 'partiti': sono delle ristrettissime élites di imprenditori elettorali che, in concorrenza pubblicitaria fra di loro, si rivolgono direttamente alle masse dei cittadini-consumatori offrendo, attraverso lo strumento televisivo e secondo precise strategie di marketing, i propri prodotti simbolici. Usando altre tecniche di marketing —in particolare il sondaggio di opinione— gli imprenditori elettorali analizzano la situazione del mercato politico, registrano le reazioni del pubblico alle proprie campagne pubblicitarie e influenzano circolarmente queste reazioni attraverso la pubblicazione selettiva, spesso manipolata, dei risultati dei sondaggi. E mentre l'astensionismo politico tende ad aumentare in tutto il mondo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, le forze politiche sono sempre più impegnate nelle sofisticate alchimie di riforme elettorali che fanno della volontà del 'popolo sovrano' l'oggetto passivo e inconsapevole dei calcoli di breve periodo della classe politica.

Norberto Bobbio e Danilo Zolo

Come Norberto Bobbio ha osservato, si è verificata un inversione del rapporto fra controllori e controllati: i soggetti politici che detengono il potere di comunicare attraverso i mezzi di comunicazione di massa —pubblici e soprattutto privati— si muovono in uno spazio che è al di fuori e al di sopra della cittadinanza. Non sono soltanto sottratti ad un controllo democratico ma sono in grado di esercitare un'influenza insinuante sui modelli di consumo e sulle propensioni politiche dei cittadini riducendoli così a nuovi sudditi, a servi inconsapevoli di una tirannia subliminale, obbedienti a un regime di potere in larga parte occulto. L'eccessiva pressione simbolica cui sono sottoposti impedisce ai destinatari della comunicazione multimediale di selezionare razionalmente i contenuti. Per nessuno, neppure per lo specialista più esperto, è agevole controllare i significati e l'attendibilità dei messaggi che riceve, né stabilire una relazione interattiva con la fonte emittente. E ciò vale in particolare per la comunicazione pubblicitaria, che è la più impegnata nell'escogitare moduli comunicativi sofisticati, psicologicamente complessi e seduttivi. 
Non sono le grandi ideologie che in questo modo si affermano. Si afferma il loro surrogato impolitico: l'abulia operativa, la docilità sociale, la passività consumistica, la venerazione del potere e della ricchezza altrui, la dipendenza cognitiva e immaginativa, la disposizione a credere. In questo senso la grande emittente televisiva, pubblica e privata, è il nucleo centrale del 'potere invisibile', è l'epicentro di quegli arcana imperii —le trame eversive, le organizzazioni criminali, le manovre finanziarie segrete, la corruzione, gli interessi privati che si annodano nelle pieghe del formalismo legislativo— che Bobbio riteneva assolutamente incompatibili con i valori di una cittadinanza democratica. La mancata demolizione delle strutture del potere invisibile era per Bobbio la più grave delle "promesse non mantenute" della democrazia liberale. 

Sul piano internazionale si affievolisce il potere di gran parte degli Stati nazionali e si scompongono gli equilibri geopolitici e geoeconomici che si erano stabilizzati nel secondo dopoguerra. E si profila una "costituzione imperiale" del mondo: gerarchica, violenta, eversiva dell'ordinamento giuridico internazionale. Una inarrestabile deriva concentra il potere internazionale —anzitutto quello militare— nelle mani di un ristretto direttorio di grandi potenze sotto la guida della massima potenza nucleare del pianeta, gli Stati Uniti d'America. Anche sotto questo profilo l'ideale della cittadinanza —strettamente legato alla forma politica dello Stato sovrano— sembra esposto a sollecitazioni distruttive. Nel contesto neo-imperiale la violazione dei diritti fondamentali delle persone è un fenomeno di imponenti proporzioni. Se si deve prestare fede ai documenti delle Nazioni Unite e ai rapporti di organizzazioni non governative com Amnesty International e Human Rights Watch, milioni di persone oggi sono vittime, in tutti i continenti, di gravi violazioni dei loro diritti fondamentali. L'ampiezza del fenomeno è la conseguenza non solo del carattere dispotico di molti regimi statali, ma anche di decisioni arbitrarie di soggetti internazionali dotati di grande potere politico, economico e militare: un potere che i processi di globalizzazione hanno reso soverchiante e incontrollabile e contro il quale la sola replica in atto è oggi la violenza del global terrorism, tanto sanguinaria quanto impotente. Sotto accusa sono le guerre di aggressione delle potenze occidentali, la pena di morte, la tortura, i maltrattamenti carcerari —si pensi a Guantanamo, Abu Ghraib, Bagram— il genocidio, la povertà, le epidemie, il debito estero che dissangua i paesi più poveri, la devastazione dell'ambiente, lo sfruttamento neoschiavistico dei minori e delle donne, l'oppressione razzista di popoli emarginati: dai palestinesi ai curdi, ai tibetani, ai rom, agli indoamericani, agli aborigeni africani, australiani e neozelandesi.

Di fronte a questo panorama c'è chi non abbandona un atteggiamento ottimistico. 
Antonio Negri, ad esempio, ha sostenuto che la crisi delle cittadinanze nazionali, l'erosione della sovranità degli Stati e l'affermarsi di un ordine imperiale del mondo è foriero anche di sviluppi positivi, nel senso che prelude all'affermarsi di una cittadinanza cosmopolitica, di un "universalismo delle 'moltitudini' capaci di insediarsi entro le strutture di potere dell'impero globale", occupandole senza distruggerle. 
Altri autori hanno sostenuto che la cittadinanza nazionale è una istituzione che deve essere cancellata e che la sua crisi merita di essere guardata con favore e assecondata. Lungi dall'essere un fattore di inclusione e di eguaglianza, la cittadinanza è un privilegio di status, è l'ultimo relitto premoderno delle diseguaglianze personali in contrasto con l'universalità dei diritti fondamentali. Non ci sarà pace e giustizia nel mondo, né rispetto dei diritti soggettivi, si sostiene, finché non saranno abbattute le frontiere degli Stati dietro le quali si annida il particolarismo delle cittadinanze nazionali. Solo una cittadinanza universale e un ordinamento giuridico globale sono finalità coerenti per chi abbia a cuore la tutela e la promozione dei diritti fondamentali delle persone e non dei soli cittadini.

Queste tesi —tipiche di quelli che Hedley Bull ha ironicamente chiamato Western globalists— sono ispirate da presupposti filosofici che rinviano o all'universalismo umanitario del comunismo utopistico o alla tradizione del moralismo kantiano che ha trovato autorevoli epigoni in autori come Hans Kelsen, Jürgen Habermas, John Rawls, Ultich Beck

Si tratta di filosofie globaliste che sembrano ignorare che la dottrina dei diritti dell'uomo, l'esperienza dello Stato di diritto e del costituzionalismo, le istituzioni liberal-democratiche si sono affermate nel contesto delle cittadinanze nazionali sviluppatesi, dopo il superamento dell'universalismo politico e giuridico del medioevo, entro i confini degli Stati nazionali europei. 
La proiezione universalistica di queste esperienze, al di là della sua vistosa assenza di realismo politico, dà per scontata la natura universale dei valori (europei ed occidentali) ai quali esse si sono ispirate, a cominciare dai diritti dell'uomo e dalle istituzioni democratiche. Ma si tratta di un'assunzione tanto rischiosa quanto controversa, poiché l'universalismo etico e giuridico dei Western globalists ha dato ampia prova di essere paradossalmente in sintonia con l'universalismo neocoloniale delle potenze occidentali. 

Nell'ultimo decennio del secolo scorso autori globalisti e cosmopoliti come Habermas, Rawls, Beck e, almeno in parte, lo stesso Bobbio, hanno approvato come giuste perché "umanitarie" le guerre di aggressione scatenate dall'Occidente contro Stati sovrani non in grado di difendersi: si pensi alla guerra per il Kosovo e alle aggressioni contro l'Afghanistan e l'Iraq. La cancellazione della cittadinanza nazionale e dei suoi valori in nome dell'ideale universalistico della cittadinanza universale è una strada che conduce, nonostante le buone intenzioni dei suoi sostenitori, nelle braccia dell'imperialismo statunitense e del suo progetto di egemonia mondiale mascherato sotto le vesti della diffusione planetaria dei valori occidentali. E finisce così per giustificare la strage di decine di migliaia di civili innocenti e la devastazione dei diritti più elementari. 

Che cosa è possibile fare? Quali strategie, in particolare la sinistra europea, può adottare sul terreno della difesa delle conquiste fondamentali della cittadinanza democratica?
Soltanto una piena consapevolezza dei valori e, nello stesso tempo, dei limiti e delle tensioni della cittadinanza e, in essa, della Stato di diritto, può consentire una elaborazione teorica e un impegno politico adeguato, nel quadro di una più generale ricostruzione delle istituzioni democratiche. Sul terreno propriamente politico una coerente teoria della cittadinanza dovrebbe proporre una 'lotta per i diritti' che non si risolva in parole d'ordine generiche e moralistiche. In alternativa alla retorica secolare del bene comune e dei doveri dei cittadini occorrerebbe mettere a punto una tavola di rivendicazioni normative rivolte contro i rischi crescenti di discriminazione chi vanno incontro i cittadini —per non parlare degli stranieri— non affiliati alle grandi corporazioni economiche, finanziarie, multimediali, professionali e religiose.

Mentre la tutela dei diritti civili —liberty and property— appartiene, per così dire, alla normalità fisiologica della cittadinanza e dello Stato di diritto, solo una pressione conflittuale può ottenere che questo livello minimo venga superato: solo il conflitto sociale è in grado di restituire effettività all'esercizio dei diritti politici, riscattandoli dalla loro condizione di puro cerimoniale elettorale, e di garantire l'adempimento effettivo delle aspettative che stanno dietro ai cosiddetti 'diritti sociali'. Si tratta di interessi e di aspettative che lo Stato di diritto come tale non è incline a riconoscere stabilmente, se non in termini assistenziali e comunque largamente ineffettivi.


Infine, andrebbe tematizzata l'esigenza di garantire non soltanto le libertà politiche e il diritto all'informazione dei cittadini, ma anche la loro 'autonomia cognitiva'. Il problema richiederebbe una lunga elaborazione. Ma si può comunque sostenere che i temi della 'nuova censura' e del 'diritto di replica' a difesa della autonomia cognitiva dei cittadini contro i monopoli della comunicazione elettronica, dovrebbero essere posti all'ordine del giorno di una battaglia per l''aggiornamento della democrazia', per usare l'espressione di Jacques Derrida. Senza una lotta contro la concentrazione e l'accumulazione comunicativa, oggi favorite dai processi di globalizzazione informatica, la democrazia è destinata a divenire una finzione procedurale, una ingannevole parodia multimediale.

Sul piano internazionale, fuori dall'ambigua retorica cosmopolitica della 'cittadinanza universale' e del 'governo mondiale', occorrerebbe porre in primo piano il tema dei "regimi internazionali" in quanto forme di cooperazione fra gli Stati che operano senza fare ricorso agli strumenti coercitivi di giurisdizioni penali e di polizie soprannazionali. L'assenza di una autorità globale favorisce lo sviluppo di un reticolo normativo policentrico che emerge da processi diffusi di negoziazione multilaterale fra gli Stati e di aggregazione autoregolativa (governance). E' una forma di 'anarchia cooperativa' che seppure per ora limitata ad aree specifiche —la ricerca spaziale, la meteorologia, la disciplina delle attività umane dell'Antartico, la pesca oceanica, fra le molte altre— contraddice clamorosamente la logica della giurisdizione penale centralizzata, vincolante e universale, sostenuta dai giuristi che si ispirano al cosmopolitismo kantiano e kelseniano.

Per contenere ed equilibrare lo strapotere della potenza imperiale degli Stati Uniti, occorrerebbe puntare su un macro-regionalismo multipolare che dia affatto per scontato il superamento degli Stati nazionali e dei valori della cittadinanza. E non sottovaluti la forza coesiva delle radici etniche e culturali dei gruppi sociali, ma tenti pazientemente di intrecciare la tutela dei diritti fondamentali con i particolarismi dell'appartenenza e delle identità collettive, soprattutto se sostenute da tradizioni millenarie. Di grande rilievo in questo quadro strategico potrebbe essere il contributo di un'Europa unita che non si limitasse a svolgere il suo ruolo di potenza economica e finanziaria, ma riuscisse a ritrovare le sue radici identitarie nell'intreccio delle culture mediorientali e mediterranee, incluse quelle arabo-islamiche. Ricostruire la sua identità 'non occidentale' consentirebbe all'Europa di recuperare quella dignità e autorità di soggetto politico internazionale che è andata smarrendo via via che gli Stati Unti sono emersi come il 'vero Occidente': potente, dinamico, espansivo, secondo la logica imperiale della dottrina Monroe e dell'universalismo wilsoniano. Un' Europa autonoma affrancata dalla subordinazione al Washington consensus, potrebbe nn solo svolgere un ruolo di equilibrio fra le grandi potenze e operare per la pace, ma anche liberare i cittadini europei —in modo tutto particolare i cittadini italiani dalla loro condizione di sudditi dell'impero atlantico.

(...) 

Cittadinanza diritti cosmopolitici
Si profila una terza, crescente incompatibilità: è quella fra i diritti di cittadinanza e i cosiddetti 'diritti cosmopolitici'. Si tratta di una antinomia che riguarda la tensione fra il particolarismo delle cittadinanze nazionali e l'universalismo dei processi di globalizzazione. Secondo numerosi autori —David Held, Richard Falk e Antonio Cassese, ad esempio— questa tensione potrebbe rivelarsi 'espansiva' e 'inclusiva', nel senso che l'interferenza delle normative internazionali con gli ordinamenti giuridici degli Stati potrebbe dilatare e rendere più concreta la capacità dei cittadini di ottenere il rispetto dei propri diritti attraverso il ricorso ad autorità giudiziarie sovranazionali.
Secondo questi autori, all'interno dell'ordinamento giuridico internazionale convivono due diversi modelli normativi: il 'modello di Vestfalia' e il 'modello della Carta delle Nazioni Unite'. Per 'modello di Vestfalia' si intende l'assetto originario del diritto internazionale moderno, per il quale soggetti di diritto sono esclusivamente gli Stati, non esiste alcun 'legislatore internazionale' e l'ordinamento giuridico è costituito quasi esclusivamente da norme primarie, mentre mancano le norme di organizzazione E gli strumenti di applicazione coattiva del diritto.

Invece, secondo il modello che è venuto profilandosi sulla base del disegno normativo della Carta delle Nazioni Unite, un ruolo, sia pure per ora limitato, è concesso anche agli individui, ai gruppi sociali, alle organizzazione non governative e ai popoli dotati di un'organizzazione rappresentativa. E sono in vigore norme internazionali che obbligano gli Stati a rispettare la dignità e i diritti fondamentali degli individui: si è verificata, insomma, una parziale erosion of the domestic jurisdiction. Si sarebbero inoltre affermati dei veri e propri 'principi generali' e non solo sono ritenuti vincolanti dagli Stati, ma prevalgono come jus cogens inderogabile sui trattati e norme consuetidinarie.
Il vecchio modello, si riconosce, prevale ancora nettamente dal punto di vista dell'effettività, mentre la logica 'comunitaria' e 'globalistica' che caratterizza il profilo normativo delle Nazioni Unite non è riuscita ad affermarsi che in misura molto limitata. Ma il progresso dell'ordinamento giuridico internazionale, si sostiene, non può che andare nel senso di un totale superamento del 'vecchio modello' di Vestfalia. Quest'ultimo riflette le caratteristiche 'primitive e individualistiche' delle relazioni tra gli Stati nell'Europa del Seicento e del Settecento, mentre è soltanto con la Carta delle Nazioni Unite che è stato fondato un moderno assetto giuridico internazionale.
In questa prospettiva, che potremmo chiamare 'cosmopolitismo' o 'globalismo giuridico', si congiungono tre aspettative normative: quella del centralismo giurisdizionale, quella del pacifismo giuridico e quella del global costitutionalism, che collegandosi strettamente alla teoria dei diritti dell'uomo punta sulla capacità di un governo mondiale di tutelare internazionalmente quelle libertà fondamentali degli individui che gli Stati non sono in grado di assicurare.

Ciò che tuttavia si potrebbe opporre all'ottimismo cosmopolitico espresso da questi autori —ottimismo circa la realizzabilità di uno 'Stato di diritto' planetario e di una 'cittadinanza cosmopolitica'— è la sempre più netta divisione del mondo in un ristretto numero di paesi ricchi e potenti e in un gran numero di paesi poveri e deboli. In questa situazione non sembra possibile dar vita a un ordinamento giuridico internazionale che non sia rigidamente gerarchico e che non neghi il principio stesso della eguaglianza formale dei soggetti di diritto, come fa la Carta delle Nazioni Unite quando istituisce la figura dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e attribuisce loro un diritto di veto. 
In secondo luogo, non sembra possibile attribuire carattere obbligatorio ad una giurisdizione incaricata di interpretare e applicare il diritto internazionale senza affidarne l'esecuzione coattiva alla forza militare delle grandi potenze, sottraendole quindi, di fatto o di diritto, alla competenza di tale giurisdizione. Infine, appare poco ragionevole affidare la tutela internazionale dei diritti soggettivi a strutture di potere autoritarie e non rappresentative come sono oggi le istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite.

Ma c'è un secondo antagonismo fra cittadinanza e 'diritti cosmopolitici', probabilmente ancora più drammatico e carico di futuro, che viene espresso dalla lotta per l'acquisto delle cittadinanze 'pregiate' dell'Occidente da parte di grandi masse di soggetti appartenenti ad aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. Questa lotta assume la forma della migrazione di massa di soggetti economicamente e politicamente molto deboli —soggetti senza cittadinanza e senza diritti— ma che esercitano, grazie alla loro infiltrazione capillare negli interstizi delle cittadinanze occidentali, una irresistibile pressione per l'eguaglianza. La replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa pressione 'cosmopolitica' —in termini sia di rigetto o di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di soggetti civili— sta scrivendo e sembra destinata a scrivere nei prossimi decenni le pagine più luttuose della storia civile politica dei paesi occidentali. 

È la stessa nozione marshalliana di cittadinanza che viene sfidata dalla richiesta di un numero crescente di soggetti non appartenenti alle maggioranze autoctone occidentali di diventare cittadini pleno jure dei paesi dove vivono e lavorano. Si tratta di una sfida molto rischiosa perché la stessa dialettica di 'cittadino' e 'straniero' viene alterata dalla pressione di fenomeni migratori difficilmente controllabili. Ed è una sfida dirompente perché tende a far esplodere sia gli elementi della costruzione 'prepolitica' della cittadinanza, sia i processi sociologici di formazione delle identità collettive, sia infine le stesse strutture dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la pressante richiesta di riconoscimento multietnico non solo dei diritti individuali dei cittadini immigrati, ma delle stesse identità etniche di minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze ospitanti.

(...)

Conclusione
La consapevolezza che la storia futura dell'Occidente del mondo può ancora riservarci inedite manifestazioni di irrazionalità collettiva dovrebbe indurci un atteggiamento di grande realismo. La situazione del pianeta è più che mai allarmante: si pensi a fenomeni come la normalizzazione della guerra, la diffusione delle armi di distruzione di massa, incluse le armi nucleari, il terrorismo globale, lo andate migratorie, l'esplosione dei particolarismi etnici, gli squilibri ecologici, l'asimmetria crescente nella distribuzione internazionale del potere e della ricchezza, la stessa crisi dell'istituzioni liberal-democratiche occidentali. 
L'intero pianeta rischia di divenire, come ha scritto Serge Latouche, un "pianeta dei naufraghi". E nel naufragio rischiano di affondare, dopo la grandiosa utopia novecentesca dell'emancipazione socialista e comunista, anche le illusioni del progetto illuministico della 'modernità', a cominciare dai valori e dai diritti della cittadinanza. Non dovremmo comunque dimenticare che i diritti, tutte le specie di diritti e non solo i diritti di cittadinanza, sono in sostanza delle semplici "opportunità condizionali" —per usare l'espressione di Barbalet— o, se si preferisce il lessico di Arnold Gehlen, delle Entlastungen, delle protesi sociali che consentono ai cittadini di rafforzare le loro aspettative sociali e di lottare con qualche maggiore possibilità di successo per l'affermazione di valori individuali e collettivi. E sono protesi probabilmente necessarie, ma certo non sufficienti per l'affermazione dell'ampia serie di valori che oggi, entro una grande varietà di ambiti funzionali, sono in tensione con le logiche tecnologico-informatiche ormai operanti a livello globale. In breve, i diritti soggettivi non sono che l'altra faccia del conflitto in una società sempre più complessa: vivono e muoiono con esso.

domenica 13 marzo 2016

SVEGLIA! UN'ALTRA EUROPA È IMPOSSIBILE di Sergio Cesaratto*

[ 12 marzo ]

Il testo è il sunto di un intervento al convegno “La questione tedesca e la crisi della democrazia europea”, organizzato da Leonardo Paggi, Roma 26 febbraio 2016. 
E' stato pubblicato da Eguaglianza e libertà col titolo, un po' truce, "Perché questa Europa deve morire e morirà"

La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.

Spiega la disaffezione quale dovuta all’incapacità dei politici di risolvere i problemi, la disoccupazione in primis, mentre tutti si riempiono la bocca del medesimo mantra delle riforme (operando delle feroci contro-riforme). Spiega la sostanziale somiglianza fra destra e sinistra che agli occhi del comune cittadino è giustamente scomparsa. Qual’è la differenza fra Berlusconi e Prodi? Fra Monti e Bersani? Fra Renzi e Tsipras? La politica è (nei tratti di fondo) la medesima ed è quella dettata da Bruxelles, Francoforte o Berlino. E spiega anche il drammatico scadimento della politica, screditata agli occhi delle persone capaci, per cui chi vale fa altro, e monopolio di personaggi che non hanno altro da occuparsi se non di conservare le poltrone per sé e per le proprie consorterie.
Detto in termini un poco più nobili, una volta esautorato e reso impotente lo Stato nazionale, che è il terreno primario in cui si svolge il conflitto sulla distribuzione del reddito, viene a mancare il sale della democrazia. 

Ma in verità il “sogno europeo”, è precisamente questo: un disegno liberista volto a esautorare i popoli nazionali dal potere di incidere sulle scelte dei propri governi nazionali, resi impotenti se non come strumenti d’ordine (vedi le riforme costituzionali in questa direzione). Stati nazionali filiali regionali dell’ordine ordo-liberista che “trasforma le leggi del mercato in leggi dello Stato” (Alessandro Somma), e ben individuato dai tedeschi nel Ministro unico dell’economia. Questa espropriazione dello Stato nazionale perfeziona lo svuotamento del terreno del conflitto sociale, dunque della democrazia, già mortificato dalla globalizzazione del capitale, lasciato libero di collocarsi dove più gli aggrada. E non ci si dica, per favore, che piccoli stati sovrani avrebbero vita dura nell’”economia globalizzata”, come si sente spesso. Polonia e Corea del Sud se la passano meglio dell’Italia, per fare qualche esempio.

Ma perché, mi si obietta, non lottare per un’Europa diversa? L’analisi economica —a cui invito a prestar fede non in nome della fiducia in una scienza discutibile, ma in nome del realismo politico a cui ci invitava un grande intellettuale, Danilo Zolo— ha da tempo indicato che un’unione monetaria fra Paesi a diverso grado di sviluppo può reggere solo con un cospicuo bilancio federale a scopo perequativo, precisamente la “tax-transfer union” tanto temuta dai tedeschi. 
Di che parliamo allora? Di utopie da cui Danilo Zolo ci suggeriva di sfuggire come la peste? Hayek lo disse chiaramente in un saggio del 1939: uno stato federale fra paesi culturalmente ed economicamente diversi e dotato di un cospicuo bilancio perequativo non sarebbe destinato a durare, e si lacererebbe presto sulla destinazione delle risorse (Jugoslavia docet). L’unico stato federale possibile è quello con uno Stato minimo, uno Stato ordo-liberista che detti le sole regole di mercato. 

Ma questo è lo Stato europeo che già abbiamo, e che la potenza dominante di cui parliamo oggi intende rafforzare. Quella che abbiamo è la sola Europa possibile, anzi potrebbe andar peggio.

La “sinistra” è responsabile di cotanto disastro continentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la Thatcher e Reagan si sono resi responsabili di sconfiggere Keynesismo e Stato Sociale. In Europa l’ha in gran parte fatto la sinistra, in nome dell’Europa. Le responsabilità dell’Ulivo devono essere ancora conteggiate - ma c’è chi ha cominciato a farlo, come Giulio Sapelli. Ma forse non c’è n’è bisogno. La sinistra italiana sta finendo da sola nella spazzatura del 3%.

Abbiamo invece bisogno di una sinistra italiana che della battaglia per il ripristino dell’autonomia della politica economica nazionale faccia il proprio vessillo. Siccome la sinistra è più sensibile all’ orecchio della difesa della Costituzione, bene faremmo ad affiancare questa battaglia a quella della difesa dei valori costituzionali. 

Ma attenzione, se la sinistra ufficiale e intellettuale è sensibile ai valori costituzionali, la gente normale vede questi temi come estranei, lontani. Guarda con favore, per esempio, alla semplificazione dei processi politici. Quindi anche la battaglia per la difesa della Costituzione se ne gioverebbe, se da astratta difesa di principi si mostrasse come strumento di avanzamento sociale su temi concreti come piena occupazione, difesa di salari e Stato Sociale.

Un’ultima precisazione. Personalmente non credo che lo slogan “fuori dall’euro” sia oggi popolare. Tuttavia un sentimento anti-Europeo sta montando. L’euro crollerà se e quando diventerà politicamente insostenibile, e quest’esito va perseguito e preparato, progettando il dopo, una nuova Europa di Stati indipendenti e cooperativi. Purtroppo la sinistra italiana, nella sua maggioranza, va nella direzione opposta di coltivare il “sogno europeo”, predisponendosi all’oblio della storia.

sabato 18 luglio 2015

LA TRAGEDIA GRECA ED IL FUTURO DELLA SINISTRA di Moreno Pasquinelli

[ 18 luglio ]

Qui sotto l'intervento di Moreno Pasquinelli (a sinistra nella foto) al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale".


Ringrazio i promotori, Stefano in particolare, per l’invito. Com’era inevitabile chi mi ha preceduto si è soffermato sull’ultimo atto della vicenda greca. Le opinioni sono discordi. Se gli economisti che mi hanno preceduto, con argomenti inoppugnabili, hanno condannato l’accordo siglato da Tsipras come una capitolazione politica che avrà effetti recessivi disastrosi; alcuni esponenti politici hanno qui invece difeso la decisione di SYRIZA come la sola possibile per evitare il peggio, dove il "peggio", per essi, sarebbe appunto stata la “grexit”. Valdimiro Giacché ci ha invece spiegato perché Tsipras, se non fosse stato prigioniero del dogma altreuropeista, avrebbe dovuto cogliere al volo l’assist di Scheuble e uscire dalla gabbia euro tedesca.

La nostra discussione, per stare al coraggioso tema del seminario —“Europa, sovranità democratica e interesse nazionale”—, sta mostrando che si confrontano due posizioni: la prima sostiene che se si vuole davvero porre fine all’austerità antipopolare e difendere la democrazia, occorre ripristinare il dettato costituzionale riguadagnando piena sovranità nazionale, politica e monetaria; dall’altra c’è chi ritiene che malgrado l’Unione europea non sia affatto quella sognata a Ventotene, nonostante sia strutturata in maniera oligarchica e con un imprinting neoliberista, essa è e deve restare la nostra casa comune, e non importa che sia un reclusorio imperiale, si auspica anzi che ai carcerieri vengano ceduti altri pezzi di sovranità. Nessuna ritirata è ammessa, avanti tutta nella demolizione delle nazioni.

Così accade che il momentaneo e triste epilogo della vicenda greca, invece di accorciare le distanze tra queste due visioni, le ha aumentate. Non solo non vedo un’eventuale linea mediana tra loro, ritengo al contrario che ogni tentativo di conciliarle è solo perdere tempo.

Diverse sono le lezioni politiche che si debbono trarre dalla vicenda greca. La prima, di natura oggettiva, è esplicita: il sistema-euro è talmente rigido e disfunzionale che imploderà vanificando tutti i tentativi di riformarlo. La seconda, di natura soggettiva, è implicita: sarebbe esiziale, immaginando il nuovo partito politico a sinistra di cui si avvertono i primi vagiti, imitare SYRIZA: un partito o un fronte politico al cui interno vi siano forze che tirano in direzione opposta, sono destinati a fare una brutta fine.

Coloro i quali, si ostinano a non riconoscere l’evidente sconfitta dell’ipotesi altreuropeista di SYRIZA, che ribadiscono cocciutamente che si deve procedere verso gli Stati uniti d’Europa, ci stanno dicendo almeno due cose: (1) che non sono disposti a rinunciare al loro dogma e, (2) che in nome di questo dogma, quando la tempesta toccherà il nostro Paese, non esiteranno a fare anche peggio di quel che lo stesso Tsipras ha fatto. Uomo avvisato, mezzo salvato.

Siamo davanti a secondarie differenze tattiche? No, siamo di fronte e differenze strategiche insanabili, che si appoggiano su visioni teoriche e culturali inconciliabili. Diavolo e Acqua santa non possono stare assieme.

Vediamola questa visione che D’Attorre ha definito argutamente “l’europeismo del dover essere”. Rubo questo concetto del “dover essere” per mettere in luce quello che a me pare il nocciolo teorico, oserei dire teologico, della visione della sinistra altreuropeista. Questo nocciolo teorico consiste appunto nella vittoria postuma del cosmopolitismo kantiano. La sinistra sistemica e quella cosiddetta radicale non sono accumunate per caso dal medesimo “europeismo del dover essere”. Questo connubio è il risultato ultimo della metamorfosi subita dalla sinistra italiana, l’effetto di un doppio divorzio, in primis dalla tradizione teorica marxista —quindi abbandono del lascito di Hegel, che richiamava alla dura centralità dell’essere, ovvero della realtà oggettiva per come essa concretamente si da, e davanti alla cui potenza ogni velleitario slancio soggettivistico-morale è destinato a soccombere— in secondo luogo con la peculiare tradizione gramsciana.

Varrebbe la pena tornare al dibattito sul concetto di sovranità, lanciato da Norberto Bobbio a cavallo tra la fine degli anni settanta e gli inizi anni ottanta. A sinistra esso prese la forma della disputa tra le tesi di due eminenti filosofi del diritto quali Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo. Ebbe il sopravvento il pensiero di Ferrajoli per cui, a prescindere da quale fosse la natura ideologica e di classe delle forze che proprio allora premevano per la globalizzazione, quest’ultima andava sostenuta, poiché progressiva. Indovinate perché era comunque progressiva? Perché la forma dello stato nazione era comunque reazionaria, un ostacolo da rimuovere nella prospettiva della federazione umana mondiale. Di qui le tesi: (1) che fosse necessario demolire le sovranità nazionali, (2) che il diritto internazionale dovesse prevalere su quelli nazionali, infine, (3) che i “diritti umani” fossero sovraordinati rispetto a quelli costituzionali di cittadinanza.

E’ quello che definisco “cattivo universalismo”, l’ideologia che disarmò la sinistra davanti alla devastante avanzata della globalizzazone, la quale finirà per lasciare sul campo non uno ma tre cadaveri: quello del movimento operaio, quello delle politiche di welfare keynesiane e quello dell’ordinamento democratico-costituzionale. Chi c’era in quegli anni non dimentica che lo stesso Berlinguer, mentre si congedava dal “socialismo reale” e accettava l’ombrello della NATO, vero braccio armato del Washington Consensus, alludeva addirittura al “governo mondiale”. Né si dimenticherà quale fosse, vent’anni dopo, il paradigma del movimento altermondialista, ovvero la cosiddetta “globalizzazione sì ma dal basso”.

Questo “cattivo universalismo” divenne il pensiero egemone sia nella sinistra radicale che in quella socialdemocratica. La prima considerò la globalizzazione come un inveramento, per quanto distorto, dell’ideale internazionalista, mentre per la sinistra riformistica esso forniva il quadro concettuale per entrare in una relazione simbiotica, anzi di more uxorio, con l’avanzante globalizzazione neoliberista, prestando quindi il proprio personale politico al nuovo sistema di governance.
Profonde sono quindi le radici dell’altroeuropeismo.

La domanda è d’obbligo: quanti, di quella generazione di intellettuali e di militanti, saranno in grado di sbarazzarsi della narrazione globalista? Quanti cesseranno di “raccontarsi storie” per mettersi in sintonia con la nuda realtà? Pochi. Crudele ma efficace l’allegoria di Alberto Bagnai: la sinistra dovrà risorgere dalle sue ceneri… quindi occorre darle fuoco”.

Questo “cattivo universalismo”, alias falso internazionalismo, è l’alibi col quale la gran parte della sinistra giustifica ancora oggi la permanenza nel regime dell’euro, figlio prediletto ma nato storpio della globalizzazione neoliberista.
Gli altreuropeisti ricorrono al più mendace realpoliticismo. Dicono: “l’Unione europea siccome oramai esiste,  sarebbe il solo campo da gioco in cui la sinistra potrà restare in partita”. Si tratta della versione aggiornata del risibile argomento del dentifricio e del tubetto. Non conta per essi che questo campo sia minato, ed a nulla serve ricordare loro che chi insegue un nemico più potente sul suo terreno va incontro a sconfitta certa.

Chiediamoci: davvero viviamo la fase storica della dissoluzione degli stati nazione? O non è forse vero che il riflusso dell’alta marea della globalizzazione neoliberista è destinato a far riemergere le entità statuali momentaneamente sommerse?

Se la crisi sistemica globale trova il suo epicentro in Europa è proprio perché quella, mentre travolge le costruzioni geopolitiche fallaci, rinforza quelle che hanno profonde radici storiche, economiche, spirituali e statuali. Come stanno rispondendo gli Stati Uniti alla crisi delle loro pretese egemoniche globali se non agendo come potente stato nazione? E come stanno reagendo le potenze concorrenti, grandi e piccole, se non considerando come non negoziabili le loro prerogative di nazioni sovrane —di qui il policentrismo? Forse che la riconquistata egemonia tedesca sull’Europa potrebbe spiegarsi prescindendo dalla prepotente rinascita della Germania come nazione? E non è forse, questa rinascita, una delle cause della tendenza all’implosione dell’Unione europea?

Luciano Barra Caracciolo, riferendosi alla Grecia, ha sottolineato l’assurdo paradosso per cui, mentre il dominante germanico vuole cacciare dall’Unione monetaria il dominato greco, quest’ultimo implora di restarci ad ogni costo. Abbiamo così che mentre le classi dirigenti tedesche, anche grazie all’euro, non esitano ad avanzare le loro pretese espansionistiche su quella che considerano loro periferia, le élite periferiche, italiane comprese, non solo abbracciano come salvifica la germanizzazione dell’Europa, maledicono i “populismi” in ascesa in quanto espressione di deprecabile “nazionalismo”.

Una sinistra che voglia davvero diventare in futuro maggioritaria, quindi guidare il Paese, è obbligata a rompere ogni vincolo con queste élite globaliste e le sue narrazioni, andando invece incontro, per dargli un contenuto democratico e socialista, al rinascente bisogno popolare di identità nazionale. Un sentimento che rappresenta un prezioso e imprescindibile fattore di resistenza al neoliberismo, anche perché si sposa a sua volta con la richiesta di più Stato, di quell’organismo che i dominanti vogliono sfaldare riducendolo a mero guardiamo notturno, mentre, proprio in quanto depositario della sovranità nazionale, i cittadini vorrebbero fosse una barriera difensiva per proteggersi dalle scorribande della finanza predatoria, dagli squali che tirano i fili dei mercati mondiali.

Lo sforzo per entrare in sintonia con gli strati più profondi del popolo, la critica all’intellettualismo, la proposta di una grande alleanza democratica e rivoluzionaria, la tesi che i lavoratori potranno vincere solo se sapranno diventare classe dirigente nazionale, l’assunto che solo che fa gli interessi della maggioranza ha titolo per presentarsi come difensore dell’interesse nazionale, l’idea del partito politico come moderno principe; questi a me paiono i più preziosi lasciti dell’opera di Gramsci, a dimostrazione che esistono radici ben più profonde e solide di quelle della sinistra post-moderna e globalista.

Emiliano Brancaccio ha fatto una profezia funesta. Egli ritiene che la sinistra antiglobalista sia talmente in ritardo che da questo marasma l’esito più probabile sarebbe la vittoria di forze reazionarie e xenofobe, se non apertamente neofasciste. Questo accadrà se noi non saremo in grado di costruire un partito politico in tempi stretti, un partito che oltre a dotarsi di un “piano B” per sganciarsi dalla morsa mortale dell’euro sappia indicare con quale blocco sociale esso potrà essere realizzato e la sovranità riconquistata. Solo un partito di questo tipo potrà occupare le praterie dell’indignazione sociale, fare coraggio al popolo lavoratore, convincere i cittadini all’impegno politico diretto, evitando le fascinazioni inconcludenti sui soggetti liquidi, gassosi, internettari.


Se è questo che si vuole davvero fare, le nostre modeste forze sono a disposizione.

martedì 26 maggio 2015

DIRITTI CIVILI: LA SITUAZIONE È TRAGICA MA NON È SERIA di Moreno Pasquinelli

[ 26 maggio ]

«L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono».
[Protagora, in Platone, Teeteto]


Il mio articolo A QUELLI CHE I DIRITTI CIVILI…NO ha suscitato diverse ed aspre critiche. Non poteva essere diversamente. La questione  è controversa, e tocca più ambiti: politico, filosofico ed anche psicologico. Tutto si può dire, non che si tratti di una discussione sul sesso degli angeli.
Lo dimostra il recente referendum nella cattolica Irlanda sui matrimoni gay, segnato dalla vittoria schiacciante dei SI e da un’alta percentuale di votanti, e che destituisce di ogni ragionevole fondamento l’idea di chi liquida i diritti civili come bazzecole, “capricci” o, addirittura, li condanna come un maldestro tentativo di “distrazione di massa” delle élite neoliberiste.

Liberalismo

Sono stato accusato, da chi respinge la “categoria” stessa dei diritti civili, di essere un liberale e/o un anarchico. Accettandola io condividerei il paradigma individualistico tipico del pensiero liberale.

E’ curioso che l’accusa mi venga non da dei paleo-comunisti  —che dunque teorizzano l’abolizione della proprietà privata e l’estinzione dello Stato, ergo la comunione integrale dei beni e una comunità basata sulla democrazia diretta—, bensì da chi ritiene inviolabile la proprietà privata, il capitalismo un sistema ottimale, divino lo Stato e sacra la Costituzione italiana. 
E’ evidente l’autocontraddittorietà dei miei critici. Il fondamento filosofico, anzi teologico, dell’individualismo liberale è infatti il considerare “naturale” e non invece un determinato prodotto storico, la proprietà privata, il porre quest’ultima come fondamento primo dei diritti di libertà dell’uomo.
John Locke

Rifiutare il paradigma liberale non autorizza nessuno a gettare l’acqua sporca col bambino. Tanto per dire: la condanna, a cui mi associo, della filosofia individualistica di Locke, non toglie nulla ai meriti del filosofo inglese, alla sua condanna dell’assolutismo, alla sua difesa del principio della tolleranza, alla sua idea di separazione tra Stato e Chiesa, ecc. Al fondo l’errore di certi giuristi statolatri e critici arruffoni è scambiare il ricco e poliforme pensiero liberale con il moderno neoliberismo, la cui forma ideologica più estrema venne ben espressa dalla nota sentenza della Thatcher: “la società non esiste, esiste solo l’individuo”.

Chi non riconosce al pensiero illuministico ed al movimento politico liberale, ovvero alla borghesia nascente, la loro funzione storica progressiva —decisiva nella battaglia per demolire i regimi feudali e nella fondazione dei moderni stati-nazione— o è un somaro oppure, gratta gratta, è un reazionario della più bell’acqua.
Un inflessibile critico della società borghese liberale fu ad esempio Karl Marx, il quale tuttavia non si sognò mai di negare il ruolo rivoluzionario della borghesia. Il fatto che contestasse al liberalismo di nascondere la diseguaglianza sociale reale dietro il velo dell’eguaglianza giuridico-formale, non gli faceva certo condannare le conquiste della rivoluzione liberale e borghese. Come invece fece il controrivoluzionario Joseph De Maistre, massimo esponente della Restaurazione.

Mi si dirà che tra Marx e De Maistre c’è un altro pensatore anti-liberale, ed anti-individualista, per la precisione Jean-Jacques Rousseau, da cui Giuseppe Mazzini trasse alcune delle sue idee politiche. Non vedo tuttavia, nel documento che prendevo di mira e nei ragionamenti di coloro che rifiutano la “categoria” dei diritti civili, né l’elogio
Jean-Jacques Rousseau
dell’eguaglianza sociale né la preferenza per la democrazia diretta, che sono appunto i capisaldi del pensiero radicale rousseauiano. 
Mazzini non è Rousseau, ciò di cui si resero ben conto i teorici della dottrina fascista, che amavano il primo ma non certo il secondo.

L’errore principale di ARS è di natura filosofica. Nel documento sui diritti civili di questo gruppo, viene espresso questo principio: 
«…la retorica dei diritti civili è espressione dell’individualismo filosofico e politico che l’ARS riconosce fra i suoi principali nemici».
Sotto mentite spoglie ritorna la metafisica mazziniana-gentiliana. Col pretesto di respingere l’individualismo, non solo si ripudiano gli elementi di universalità del pensiero liberale e le conquiste storiche della rivoluzione borghese, si rigettano anche i concetti di cittadino e di persona.
I concetti di individuo, cittadino e persona non vanno invece confusi: il primo è liberale, il secondo giacobino, il terzo è proprio di un pensiero anti-liberale e comunitario. Il fatto è che la Costituzione italiana del 1948, essendo un compromesso tra liberali, cattolici e social-comunisti, li recepisce tutti e tre. Ma andiamo con ordine.

La Costituzione italiana

L’autocontraddittorietà di coloro che fanno spallucce davanti ai diritti civili e li respingono anzi come “cosmetici” (quindi privi di sostanza e giuridicamente illegittimi) non finisce qui. 

Essi dicono di difendere la Costituzione italiana, in verità non la capiscono. Non vogliono ammettere che essa —proprio dal momento che pone a fondamento della Repubblica e dell’ordinamento giuridico l’inviolabilità dei diritti politici, democratici e quindi civili della persona— accoglie la migliore eredità liberal-democratica. Ed è proprio per il posto centrale che occupano i Titoli riguardanti i diritti della persona e del cittadino (non solo e non tanto per il principio astratto che la sovranità spetta al popolo), che la Costituzione seppellisce il fascismo e fonda la Repubblica democratica. Ed è democratica, al contrario di quanto vaneggiano certi suoi paladini, perché insiste senza ambagi che, se è vero che i cittadini hanno dei doveri verso lo Stato, è proprio su quest’ultimo che ricadono i principali obblighi e doveri, primo fra tutti, appunto, quello di rispettare i diritti inviolabili dell'individuo, in quanto persona e cittadino.

Già ricordavo il Titolo I della Costituzione (gli articoli dal 13 al 28), con la sua apertura inequivocabile: “la libertà personale è inviolabile”, ed a seguire, l’obbligo dello Stato di difendere i diritti dei cittadini che ne conseguono.
Suggerisco di leggere quindi il Titolo II “rapporti etico-sociali”, gli articoli dal 29 al 34, dove i costituenti sottolineano i fondamentali doveri dello Stato repubblicano verso i cittadini: quelli ad esempio di tutelare i figli nati fuori dal matrimonio, di proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, di tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo garantendo cure gratuite agli indigenti, di assicurare la gratuità dell’istruzione. Infine, ma non meno importante, il principio che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.

Come si vede ai diritti del cittadino corrispondono altrettanti doveri dello Stato. E' quindi falso ed in contraddizione col dettato costituzionale il principio secondo cui:
«Il fondamento dei diritti consiste invece nei doveri, sui quali si basa ogni grande e piccola comunità: soltanto adempiendo i nostri doveri abbiamo titolo per rivendicare i diritti». [1]
Se ciò fosse vero, dovremmo escludere dal godimento dei diritti civili e politici una buona fetta della popolazione, dai bambini a tutti gli adulti affetti da patologie che impediscono loro di compiere alcuni se non tutti gli obblighi previsti dalla legge.

I diritti civili

I diritti sanciti dalla Costituzione sono sociali? democratici? politici? civili? Sono, evidentemente, tutte queste cose insieme. Di più: essi sono un tutt’uno, e se cade una parte rischiano di cadere tutti.
Luigi Ferrajoli
Volendo seguire l’approccio giuridico formalistico potremmo, con Luigi Ferrajoli [2] classificare i diritti come segue:
(1)        diritti di libertà: quelli che comportano per il potere pubblico il dovere di non interferire;
(2)        diritti politici: quelli attinenti alla sfera pubblica;
(3)        diritti civili: quelli che attengono alla sfera privata
(4)        diritti sociali: quelli che sanciscono l’obbligo dello Stato alla loro tutela, rimuovendo perciò gli ostacoli al benessere dei cittadini.
Se poi vogliamo seguire Norberto Bobbio, [3] per cui i diritti non sono il prodotto della natura ma della civiltà umana, ossia sono diritti storici e in quanto tali mutevoli, occorre considerare la categoria dei
(5) diritti umani, affermatisi grazie alle lotte di questa o quella minoranza sociale, recepiti poi, in virtù del consenso generale, dagli Stati (vedi la Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU) e dalla stessa giurisprudenza.

Come detto, con le modificazioni della struttura e della sovrastruttura sociale, delle consuetudini e dei costumi, muta anche la sfera dell’etica, quindi del diritto. Diritti un tempo primari divengono secondari, alcuni addirittura periscono per lasciare il posto a diritti nuovi. Questi ultimi si sono faticosamente fatti strada, sempre dovendo vincere le resistenze di conservatori e passatisti. E’ il caso di ricordare i movimenti delle donne, dei neri, degli omosessuali, e di altre minoranze contro le più diverse discriminazioni sociali?

Per concludere, davanti alla comparsa di nuovi bisogni sociali, sotto la spinta dei mutamenti dei costumi, della scienza, delle comunicazioni, la dottrina giuridica ha dovuto concepire i cosiddetti “diritti di quarta generazione”. Sono quelli connessi alla bioetica, alle manipolazioni genetiche, alle nuove tecnologie di comunicazione, quelli relativi ai diritti dei malati e financo degli animali.
Danilo Zolo

Chi scrive è ben lontano dal ritenere che ogni nuovo bisogno sociale sia progressivo, che quindi debba essere considerato legittimo solo in quanto “moderno” o rivendicato da qualcuno. Se, ad esempio, dev’essere considerata legittima la fecondazione artificiale, non solo omologa ma pure eterologa (in base al principio che coppie non fertili possano, con l’aiuto della scienza, avere  figli), non lo è per niente la pretesa di legalizzare il commercio degli embrioni, la crioconservazione o la sperimentazione eugenetica.

L’errore madornale di considerare i diritti civili dei “capricci” conduce infine ad un curioso paradosso, alla terza antilogia.

Dopo aver sostenuto che “l’individualismo filosofico e politico è uno dei principali nemici di ARS”, il documento in questione conclude riconoscendo… “il diritto [ad ogni iscritto] di maturare con autonomia la propria opinione”. Il nemico principale, cacciato dalla finestra filosofica, rientra surrettiziamente dalla finestra della politica!
Si condanna l’individualismo liberale e poi si accetta, con la scusa che i diritti civili sono dei “capricci”, il padre di tutti i principi del liberalismo, la “libertà di coscienza”.

Aveva ragione Flaiano, che  “la situazione è tragica, ma non è seria”.


NOTE

[1] Vedi il Documento sui Diritti civili di ARS
[2] Luigi Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona. In: "La cittadinanza: appartenenza, identità, diritti", a cura di Danilo Zolo.
[3] Norberto Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi 1990


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