[ 4 aprile ]
Occorre comprendere come muta —ove il concetto di mutazione è oltre la semplice trasformazione— il modo di lavorare e vivere in un sistema economico e sociale neoliberista dispiegato. Gli Stati Uniti sono il luogo ove questa mutazione è andata più avanti, e in questo luogo UBER si pone come l'avanguardia di questa mutazione incessante.
Occorre comprendere come muta —ove il concetto di mutazione è oltre la semplice trasformazione— il modo di lavorare e vivere in un sistema economico e sociale neoliberista dispiegato. Gli Stati Uniti sono il luogo ove questa mutazione è andata più avanti, e in questo luogo UBER si pone come l'avanguardia di questa mutazione incessante.
UBER
un grande fratello in auto per manipolare gli autisti
Scienziati sociali e tecniche da videogame per influenzare le scelte dei guidatori e farli lavorare di più (o dove c’è bisogno)
di Massimo Sideri*
Dal soft-power al software-power: quello di Uber, ma non solo. Strade di Tampa Bay, negli Stati Uniti, notte di Capodanno. L’autista di Uber, Josh Streeter (nomen omen avrebbero detto i latini visto che «street», in inglese, significa strada o via), dopo aver portato diversi clienti, alle 7.13 del mattino tenta il log off, il comando con cui gli autisti si disconnettono dalla piattaforma scomparendo dai nostri smartphone. Sulla sua applicazione di lavoro appare un messaggio apparentemente innocuo, anzi a prima vista positivo per lui: «Ti mancano solo dieci dollari per fare 330 dollari di guadagno netto (Uber tiene per sé il 25 per cento della corsa, ndr). Sei sicuro di volerti disconnettere?».
Streeter non è l’unico autista che ha fatto parte di questo test. Sul caso si è concentrato il New York Times chiedendosi quanto questa sottile arma psicologica rischi di diventare una sorta di grande fratello del lavoro. Uber, peraltro, non è l’unico algoritmo-datore di lavoro che punta su questi meccanismi basati sulla gamification, cioè su incentivi psicologici che vogliono rigenerare la soddisfazione temporanea tipica dei giochi.
Gli algoritmi
Lyft, il diretto concorrente che in Europa non è ancora sbarcato, usa meccanismi simili e ha fatto comparire ai propri autisti delle lancette che mostrano quando hanno quasi raggiunto un target. Peraltro sono molte le app che già fanno la stessa cosa con noi utenti per spingerci a rimanere connessi sempre di più e diventare un po’ dipendenti. Gli algoritmi predittivi di società come Netflix, Amazon, ma anche della pubblicità programmatica di Google e Facebook, giocano sulla sottile linea che separa il consiglio dall’influenza nella scelta.
L’asimmetria informativa è tale che noi stessi possiamo convincerci di volere proprio ciò che ci viene offerto, come se fosse sul serio un’opzione tra tutte le altre. Uber però è interessante da seguire — non solo per gli aspiranti autisti — perché sta diventando un test sul nuovo rapporto tra azienda e non-dipendente tipico del lavoro flessibile dell’economia della condivisione.
L’influenza sui lavoratori
Il problema della piattaforma di «ride sharing» è come influenzare non solo le scelte dei consumatori, ma anche quelle della forza lavoro laddove non avendo dipendenti non può teoricamente imporre nulla. Ogni autista può guidare quando vuole, dove vuole e quanto vuole. Non ci sono obblighi come contraltare del fatto che non ci sono sostanzialmente diritti. Peraltro il mondo Uber è interessante anche perché, nonostante tutti i suoi limiti, è riuscito (laddove gli è stato permesso di operare) a imporre una liberalizzazione privatistica, cioè non dettata come normalmente avviene dallo Stato, di un mercato chiuso e tendenzialmente restio al cambiamento come quello dei taxi.
Soft-power?
Il problema della piattaforma però è che l’efficienza dell’algoritmo si scontrava con l’inefficienza del tutto razionale degli autisti: tutti vogliono (giustamente) lavorare nelle ore di punta e nelle zone di maggiore concentrazione di domanda di corse. Massimo risultato con il minimo sforzo. Per Uber questo significava avere dei buchi di offerta. La gamification basata sui falsi incentivi (il messaggio per Streeter avrebbe potuto essere: "hai già guadagnato 320 dollari netti, ottimo lavoro!") è stata studiata proprio per spingere le persone a lavorare quando il loro buon senso gli diceva di smettere. Quello di Uber è un soft-ware power nella forma. Ma forse hard nella sostanza.
Gli algoritmi
Lyft, il diretto concorrente che in Europa non è ancora sbarcato, usa meccanismi simili e ha fatto comparire ai propri autisti delle lancette che mostrano quando hanno quasi raggiunto un target. Peraltro sono molte le app che già fanno la stessa cosa con noi utenti per spingerci a rimanere connessi sempre di più e diventare un po’ dipendenti. Gli algoritmi predittivi di società come Netflix, Amazon, ma anche della pubblicità programmatica di Google e Facebook, giocano sulla sottile linea che separa il consiglio dall’influenza nella scelta.
L’asimmetria informativa è tale che noi stessi possiamo convincerci di volere proprio ciò che ci viene offerto, come se fosse sul serio un’opzione tra tutte le altre. Uber però è interessante da seguire — non solo per gli aspiranti autisti — perché sta diventando un test sul nuovo rapporto tra azienda e non-dipendente tipico del lavoro flessibile dell’economia della condivisione.
L’influenza sui lavoratori
Il problema della piattaforma di «ride sharing» è come influenzare non solo le scelte dei consumatori, ma anche quelle della forza lavoro laddove non avendo dipendenti non può teoricamente imporre nulla. Ogni autista può guidare quando vuole, dove vuole e quanto vuole. Non ci sono obblighi come contraltare del fatto che non ci sono sostanzialmente diritti. Peraltro il mondo Uber è interessante anche perché, nonostante tutti i suoi limiti, è riuscito (laddove gli è stato permesso di operare) a imporre una liberalizzazione privatistica, cioè non dettata come normalmente avviene dallo Stato, di un mercato chiuso e tendenzialmente restio al cambiamento come quello dei taxi.
Soft-power?
Il problema della piattaforma però è che l’efficienza dell’algoritmo si scontrava con l’inefficienza del tutto razionale degli autisti: tutti vogliono (giustamente) lavorare nelle ore di punta e nelle zone di maggiore concentrazione di domanda di corse. Massimo risultato con il minimo sforzo. Per Uber questo significava avere dei buchi di offerta. La gamification basata sui falsi incentivi (il messaggio per Streeter avrebbe potuto essere: "hai già guadagnato 320 dollari netti, ottimo lavoro!") è stata studiata proprio per spingere le persone a lavorare quando il loro buon senso gli diceva di smettere. Quello di Uber è un soft-ware power nella forma. Ma forse hard nella sostanza.
* Fonte: Corriere della Sera del 3 aprile 2017
2 commenti:
Uber macht frei?
leggo: uber trattiene il 25% netto.
25% su cui pagherà lo 0% di tasse.
il meraviglioso mondo delle multinazionali.
no borders, no free.
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