[ 13 aprile ]
Negli uffici di alcuni hedge fund londinesi gira un grafico: un indice, elaborato da Bridgewater Associates, che stima la forza del populismo (o meglio dei partiti anti-sistema) in giro per il mondo. Ebbene: secondo questo indicatore, il populismo ha un consenso al record dagli anni ’30. Mai, negli ultimi 80-90 anni, i partiti anti-establishment hanno avuto un consenso così elevato e così diffuso in tutto il mondo industrializzato come oggi. Sebbene oggi il concetto (vago, indefinibile e probabilmente opinabile) di populismo sia ben diverso da quello degli anni ’30 (la stessa Bridgewater sottolinea che oggi è decisamente meno aggressivo e meno estremo rispetto a un tempo), il trend è chiaro e inequivocabile. Questo spaventa le Borse, che amano poco le sorprese. E tiene i listini europei, dove il rischio elettorale è più imminente, sulle spine: così le Borse, pur positive quest’anno, restano sottovalutate rispetto a quelle americane.
Bene inteso: il termine populismo è vago e comprende fenomeni tra loro ben differenti. Bridgewater include in questo concetto tutti i partiti o movimenti politici che nella storia hanno avuto alcune caratteristiche simili: per esempio quasi tutti attaccano l’establishment politico dominante, si schierano contro le banche e le grandi corporazioni, in molti casi hanno componenti nazionaliste, spesso chiedono misure protezionistiche e hanno ideologie contrarie all’immigrazione. Guardando alla storia del passato, Bridgewater inserisce in questo concetto partiti e uomini politici molto diversi tra loro: da Mussolini, Hitler e Franco, fino a personaggi che nella storia hanno lasciato ben altre impronte come il presidente americano Roosvelt. Analizzando però le caratteristiche
comuni di 18 di questi personaggi nella storia e osservando i movimenti politici di oggi (pur con tutte le approssimazioni del caso), lo studio di Brodgewater giunge a una conclusione ben precisa: il fenomeno dei partiti anti-sistema è diffuso oggi come allora.
Questo, come detto, sta tenendo le Borse sulle spine. Non perché il populismo per forza debba far male ai listini azionari. Lo dimostrano tre casi più o meno recenti, individuati dal Sole 24 Ore e non inclusi nello studio di Bridgewater, in cui la Borsa si è preoccupata a torto. Quando vinse Ronald Reagan (considerato in precedenza poco affidabile) la Borsa di Wall Street perse il 20% per poi riguadagnare il 145% nei 6 anni successivi. Quando i sondaggi davano il “populista” Lula in vantaggio per diventare presidente del Brasile nel 2002, lo «spread» dei titoli di Stato brasiliani rispetto a quelli statunitensi superò i 2.000 punti. Però poi, con Lula presidente, il Brasile ha conosciuto una lunga luna di miele con gli investitori. E con l’economia. Idem per Donald Trump, più di recente: le Borse spesso si preoccupano, ma poi reagiscono in maniera diversa da come loro stesse sembravano indicare prima delle elezioni in cui vince un “populista” o un politico poco gradito dagli investitori.
Questo, come detto, sta tenendo le Borse sulle spine. Non perché il populismo per forza debba far male ai listini azionari. Lo dimostrano tre casi più o meno recenti, individuati dal Sole 24 Ore e non inclusi nello studio di Bridgewater, in cui la Borsa si è preoccupata a torto. Quando vinse Ronald Reagan (considerato in precedenza poco affidabile) la Borsa di Wall Street perse il 20% per poi riguadagnare il 145% nei 6 anni successivi. Quando i sondaggi davano il “populista” Lula in vantaggio per diventare presidente del Brasile nel 2002, lo «spread» dei titoli di Stato brasiliani rispetto a quelli statunitensi superò i 2.000 punti. Però poi, con Lula presidente, il Brasile ha conosciuto una lunga luna di miele con gli investitori. E con l’economia. Idem per Donald Trump, più di recente: le Borse spesso si preoccupano, ma poi reagiscono in maniera diversa da come loro stesse sembravano indicare prima delle elezioni in cui vince un “populista” o un politico poco gradito dagli investitori.
"POPULISMO" è un concetto, come minimo, polisemico. Di "populismi" ce ne sono stati e ce ne sono di vari tipi, la maggior parte dei quali reazionari.
Tuttavia, come ci informa Morya Longo su Il Sole 24 Ore di oggi, le borse — ovvero le bische ove i filibustieri della finanza predatoria globale giocano a dadi con le sorti dei popoli e delle nazioni— sono massimamente preoccupati. Longo ci informa che negli uffici di alcuni hedge fund londinesi gira addirittura un grafico (vedi sopra e più sotto) che spiega l'ansia che serpeggia tra questi squali, un'ansia che cresce in vista delle elezioni in alcuni paesi dell'Unione europea, anzitutto in Francia e in Italia, elezioni che potrebbero segnare una Caporetto dei partiti di sinistra e di destra alfieri della globalizzazione liberista.
Tuttavia, come ci informa Morya Longo su Il Sole 24 Ore di oggi, le borse — ovvero le bische ove i filibustieri della finanza predatoria globale giocano a dadi con le sorti dei popoli e delle nazioni— sono massimamente preoccupati. Longo ci informa che negli uffici di alcuni hedge fund londinesi gira addirittura un grafico (vedi sopra e più sotto) che spiega l'ansia che serpeggia tra questi squali, un'ansia che cresce in vista delle elezioni in alcuni paesi dell'Unione europea, anzitutto in Francia e in Italia, elezioni che potrebbero segnare una Caporetto dei partiti di sinistra e di destra alfieri della globalizzazione liberista.
Il grafico che spaventa le borse: indice del populismo al record dagli anni '30
di Morya Longo
Negli uffici di alcuni hedge fund londinesi gira un grafico: un indice, elaborato da Bridgewater Associates, che stima la forza del populismo (o meglio dei partiti anti-sistema) in giro per il mondo. Ebbene: secondo questo indicatore, il populismo ha un consenso al record dagli anni ’30. Mai, negli ultimi 80-90 anni, i partiti anti-establishment hanno avuto un consenso così elevato e così diffuso in tutto il mondo industrializzato come oggi. Sebbene oggi il concetto (vago, indefinibile e probabilmente opinabile) di populismo sia ben diverso da quello degli anni ’30 (la stessa Bridgewater sottolinea che oggi è decisamente meno aggressivo e meno estremo rispetto a un tempo), il trend è chiaro e inequivocabile. Questo spaventa le Borse, che amano poco le sorprese. E tiene i listini europei, dove il rischio elettorale è più imminente, sulle spine: così le Borse, pur positive quest’anno, restano sottovalutate rispetto a quelle americane.
Bene inteso: il termine populismo è vago e comprende fenomeni tra loro ben differenti. Bridgewater include in questo concetto tutti i partiti o movimenti politici che nella storia hanno avuto alcune caratteristiche simili: per esempio quasi tutti attaccano l’establishment politico dominante, si schierano contro le banche e le grandi corporazioni, in molti casi hanno componenti nazionaliste, spesso chiedono misure protezionistiche e hanno ideologie contrarie all’immigrazione. Guardando alla storia del passato, Bridgewater inserisce in questo concetto partiti e uomini politici molto diversi tra loro: da Mussolini, Hitler e Franco, fino a personaggi che nella storia hanno lasciato ben altre impronte come il presidente americano Roosvelt. Analizzando però le caratteristiche
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Questo, come detto, sta tenendo le Borse sulle spine. Non perché il populismo per forza debba far male ai listini azionari. Lo dimostrano tre casi più o meno recenti, individuati dal Sole 24 Ore e non inclusi nello studio di Bridgewater, in cui la Borsa si è preoccupata a torto. Quando vinse Ronald Reagan (considerato in precedenza poco affidabile) la Borsa di Wall Street perse il 20% per poi riguadagnare il 145% nei 6 anni successivi. Quando i sondaggi davano il “populista” Lula in vantaggio per diventare presidente del Brasile nel 2002, lo «spread» dei titoli di Stato brasiliani rispetto a quelli statunitensi superò i 2.000 punti. Però poi, con Lula presidente, il Brasile ha conosciuto una lunga luna di miele con gli investitori. E con l’economia. Idem per Donald Trump, più di recente: le Borse spesso si preoccupano, ma poi reagiscono in maniera diversa da come loro stesse sembravano indicare prima delle elezioni in cui vince un “populista” o un politico poco gradito dagli investitori.
Questo, come detto, sta tenendo le Borse sulle spine. Non perché il populismo per forza debba far male ai listini azionari. Lo dimostrano tre casi più o meno recenti, individuati dal Sole 24 Ore e non inclusi nello studio di Bridgewater, in cui la Borsa si è preoccupata a torto. Quando vinse Ronald Reagan (considerato in precedenza poco affidabile) la Borsa di Wall Street perse il 20% per poi riguadagnare il 145% nei 6 anni successivi. Quando i sondaggi davano il “populista” Lula in vantaggio per diventare presidente del Brasile nel 2002, lo «spread» dei titoli di Stato brasiliani rispetto a quelli statunitensi superò i 2.000 punti. Però poi, con Lula presidente, il Brasile ha conosciuto una lunga luna di miele con gli investitori. E con l’economia. Idem per Donald Trump, più di recente: le Borse spesso si preoccupano, ma poi reagiscono in maniera diversa da come loro stesse sembravano indicare prima delle elezioni in cui vince un “populista” o un politico poco gradito dagli investitori.
* Fonte: Il Sole 24 Ore
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