[ 18 settembre 2018 ]
Tra i molti addebiti al Governo giallo-verde uscito dalle urne il 4 marzo scorso quotidianamente rimarcati dalle opposizioni e dai mass-media, ci sembra manchi significativamente quello riguardante il tema della Scuola. Eppure con le migliaia di abbandoni da parte di giovani che hanno appena completato il ciclo dell'istruzione inferiore (elementari e medie) e che non proseguono il corso degli studi superiori o lo lasciano precocemente, il dato segna un'autentica emergenza sociale che non è circoscrivibile al mondo dell'istituzione scolastica.
Tra i molti addebiti al Governo giallo-verde uscito dalle urne il 4 marzo scorso quotidianamente rimarcati dalle opposizioni e dai mass-media, ci sembra manchi significativamente quello riguardante il tema della Scuola. Eppure con le migliaia di abbandoni da parte di giovani che hanno appena completato il ciclo dell'istruzione inferiore (elementari e medie) e che non proseguono il corso degli studi superiori o lo lasciano precocemente, il dato segna un'autentica emergenza sociale che non è circoscrivibile al mondo dell'istituzione scolastica.
All'abbandono degli studi in itinere va senz'altro sommato il trend negativo del calo delle nascite per cui in diverse realtà non si formano o sono drasticamente ridimensionati anche i plessi scolastici delle elementari. Sono 15.000 gli studenti che mancano all'appello quest'anno nelle aule nella sola Campania, la maggior parte a Napoli, in una regione colpita anche da altri non meno gravi problemi economico-sociali.
Eppure nel discorso d'insediamento del premier Conte non vi è stata nemmeno un cenno alla Scuole e alle sue annose problematiche. Molti temi, anche importanti, alcuni strategici, sono all'ordine del giorno dell'agenda politica e all'attenzione dell'opinione pubblica, ma manca questo. Non si affronta, anzi nemmeno si pone la prospettiva di un Paese (non certo di una sola regione) in cui vengono meno le leve delle nuove generazioni a livello sia intellettuale che puramente biologico. Certo si discute, anche con toni accesi, delle carenze eclatanti dell'edilizia scolastica, risalente per lo più agli anni Sessanta-settanta del secondo dopoguerra, e delle sue carenze strutturali che mettono in pericolo studenti e insegnanti, ma ben di rado il discorso si estende ai temi e ai contenuti dell'istruzione e dell'insegnamento, al senso ed alla funzione formativa e culturale della Scuola in questo momento storico e nel breve e medio termine.
Vi è una singolare coincidenza (come ha notato anche un attento commentatore) tra il periodo di costruzione della maggior parte del patrimonio edilizio scolastico (1960-1980) e il periodo in cui il problema dell'istruzione e della cultura istituzionale è stato considerato importante, anzi fondativo, dai vari Governi dell'Italia repubblicana e post-fascista e dalla società civile, e dunque considerato un investimento sia materiale che immateriale. Erano gli anni in cui la Scuola e l'Università non solo eliminavano le corpose sacche di analfabetismo e scarsa professionalità ancora esistenti, soprattutto nel Sud e nelle isole, ma anche il periodo in cui un Paese uscito sconfitto dalla guerra riusciva non solo a rimuovere le macerie morali e materiali del conflitto, ma colmava il divario storico con altri e più evoluti Paesi, ed anzi in alcuni campi li superava.
C'è un filo rosso tra questo processo che vedeva tra gli altri umili eroi della conoscenza come l'indimenticabile maestro Manzi col suo programma "Non è mai troppo tardi", il riscatto civile dell'Italia e la sua affermazione economica e scientifica nel mondo. Questa fase è durata grossomodo fino alla fine degli anni Settanta. Vi è un decennio di sostanziale immobilismo e di routine, dopodiché appare chiaro, ed i numeri di questi anni ce lo confermano, che l'Italia, o meglio le sue classi dirigenti, non sanno più che farsene della Scuola.
Inizia allora l'epoca delle riforme "strutturali" (partorite da ministri che avevano in comune, al di là delle differenze ideologiche sempre più sbiadite, un forte complesso di Erostrato) su cui bisognerebbe scrivere più di un libro, invece di questo breve articolo (si rimanda comunque ad una bibliografia essenziale alla fine).Tutte quante, da quella di Berlinguer alla Moratti, Gelmini, fino a Renzi al di là del comune elemento "antropologico" erano caratterizzate dal progetto di una Scuola dei contenitori, non dei contenuti con l'enfasi posta retoricamente sull'innovazione, lo svecchiamento, lo stare al passo coi tempi. Al di là delle aspettative create ad arte da un'informazione superficiale quando non ideologicamente funzionale e asservita al potere politico e ad agenzie esterne, quello che ha caratterizzato le varie riforme è stato un processo di progressiva deconcettualizzazione delle varie discipline (come più volte sostenuto dal sottoscritto in questa sede), di allineamento, secondo Lucio Russo, della Scuola italiana "agli standard americani,di abbassamento dei livelli di competenza reale, di esclusione degli strumenti essenziali alla creazione di un sapere autentico, che rendono l'insegnamento sempre più generico".
La realtà, come colto da un grande studioso come Massimo Bontempelli, con la consueta lucidità, è che lo snaturamento della Scuola come di altre istituzioni sociali, del suo ruolo di trasmettere secondo un peculiare asse formativo, saperi e valori alle nuove generazioni nel senso della continuità, si inscrive anch'essa nel grande evento della globalizzazione.
Le vicende politiche, economiche e strategiche di questo vasto fenomeno hanno prodotto non solo nuove figure sociali (e politiche), nuovi profili antropologici funzionali alla prassi e ai principi dell'economia globale e deregolamentata, ma anche, com'era inevitabile, una profonda trasformazione della Scuola e della sua "ragione sociale". Solo così si spiega la sua riduzione-sussunzione alla logica integralmente aziendalistica del progetto renziano con la prevalenza del nozionismo istituzionalizzato dell'Invalsi e l'alternanza scuola-lavoro che prevede anche nei licei un periodo di 200 ore per gli studenti da trascorrere, durante il periodo scolastico, alle dipendenze di datori di lavoro esterni, ovviamente gratis. Con quali ricadute sui tempi di apprendimento e i ritmi dello studio che è facile immaginare.
Che questi due ultimi punti siano stati di fatto ridimensionati dall'attuale Ministro in carica, è cosa senz'altro positiva perché sana un vero e proprio "vulnus, anche costituzionale, inferto al corpo vivo sebbene dolorante della Scuola. Ciò non toglie però che in clima di "rottura, di novità, di cambiamento", oltre a mettere in discussione alcuni assi programmatici del precedente Governo, nonché di tutta la lunga deriva europeista con le sue funeste conseguenze che tutti ben conosciamo, sarebbe utile, anzi urgente e necessario un ripensamento generale del ruolo e della funzione della Scuola nell'attuale orizzonte, a partire dalla consapevolezza storica,come abbiamo tentato di suggerire, del processo storico complessivo, e segnatamente italiano, che ha portato all'attuale degenerazione.
Anche questo, non meno della futura Legge di bilancio, appare un discrimine decisivo per una seria valutazione politica dell'attuale compagine governativa.
Sull'argomento vedi innanzi tutto:
M. Bontempelli, F.Bentivoglio, Capitalismo globalizzato e Scuola, edizioni di Indipendenza, Roma, 2016.
F. Bentivoglio, Il disagio dell'inciviltà, C.R.T., Pistoia, 2000.
M. Bontempoelli, L'agonia della Scuola italiana, C.R.T., Pistoia, 2000.
L. Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, 1998.
1 commento:
La trasformazione è sì avvenuta ma inserendosi in spazi di frattura che erano preesistenti ed allargandoli a dismisura. Ad esempio leggo qui il caso della maestra precaria cui viene proposta l'immissione in ruolo a 66 anni e dopo 40 anni di precariato. E storie simili io le sento almeno da poco dopo il 2000, solo che erano un'eccezione e nessuno si curava di loro. Ed è stata pure fortunata perché è riuscita a riottenere l'incarico ogni anno, ora non è più così.
Stando a queste cifre significa che ha cominciato a lavorare nel 1978 in base a leggi preesistenti. Ed il problema non è certo che "è stata penalizzata anche da un mancato piano di concorsi dedicati ai maestri diplomati" ma il fatto che si sia consentito che vi fossero persone che pur facendo lo stesso lavoro sono inquadrate in forme contrattuali molto differenti.
Fra le varie cose necessarie ci starebbe una ricognizione di tutte queste figure per ricondurle (reintegrarle?) in una forma contrattuale unica. Un eventuale merito o incentivi alla carriera ed all'iniziativa individuale devono porsi al di spora di questo livello e non in sostituzione di esso.
Ma se fin'ora si è è visto come inconcepibile anche la sola ripertura delle GAE, che pure sarebbe molto meno della ricognizione che chiedo io, figurarsi se lo fanno.
Giovanni
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