[ 3 settembre 2018 ]
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Che ci si riferisca all’ambito artistico – in cui il perverso è, in realtà, più un esteta e un manierista che un “vero artista”- o a quello esistenziale in senso lato, la soluzione perversa è davvero, com’ebbe a definirla Freud, “ingegnosa”. Attraverso una regressione alla magica onnipotenza riesce infatti nel miracolo di far aggirare al soggetto le angosce legate alla constatazione dello iato tra sé e il suo ideale, le disillusioni dovute alle sue impotenze, i timori della malattia, della morte, della dipendenza dagli altri.
Le sue idealizzazioni compulsive lo proteggono da quella che per il resto dell’umanità è la grande, dolorosa lezione dell’inadeguatezza. Una parte di lui vive così in un mondo di sdilinquimenti in cui il cielo, la terra, la natura e le arti belle lo accarezzano dolcemente, mai riflettendogli la sua immagine reale - quella di bambino mai cresciuto oppure di fetida sentina d’ogni vizio, come ben rappresenta il romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde -, sempre restituendogliene una a suo uso e consumo.
Qual è, dunque, il crinale che separa la creatività autentica da una “hybris” perversa?
«D’altronde, se com’ebbe a dire Erich Fromm ogni società forgia il carattere
del soggetto più adatto a farla funzionare economicamente, l’individuo più funzionale alla realizzazione degli obiettivi del turbocapitalismo tecnocratico sembra essere il narcisista».
CREATIVITÀ E PERVERSIONE OGGI
in attesa del post-umano
di Alessia Vignali
Tornare a indagare il rapporto tra creatività e perversione da un’angolatura psicoanalitica, come già fece la psicoanalista francese Janine Chasseguet-Smirgel in un celebre saggio del 1985 di matrice teorica pulsionale classica, è oggi di un certo interesse, dal momento che la creatività è al vertice dei valori in una società turbocapitalista imperniata sul godimento (tanto che lo scrittore Alessandro Baricco ha deciso di metaforizzarla con il termine “The game” che dà il titolo al suo saggio in uscita a ottobre) e sulla necessità di una regressione del consumatore di tecnologie e “social media” a fasi precoci dello sviluppo psichico dominate dal principio di piacere.
Creatività e perversione, termini ossimorici se riferiti alla sessualità - per via della rigidità del rituale e dei piaceri cui il copione perverso costringe -, sono invece strettamente interrelati, anche se in modo peculiare, qualora riferiti in senso lato alla personalità del perverso, ai suoi ideali, alle sue credenze e ai suoi risultati. Per parafrasare la celebre frase Shakespeariana riferita ad Amleto “C’è del metodo, in quella follia”, potremmo dire “C’è della creatività, in quella perversione”. O meglio: quella del perverso è una creatività dai connotati originali rispetto a quella generativa del soggetto “normale”. Una creatività in parte mimetica di quella genitale, dunque recante sempre qualcosa di “falso”, di “imitativo”, di stucchevole, di bislacco, insomma una storpiatura o una parodia del creare o del produrre maturo; per un’altra parte essa è però “autentica”, basata cioè sulla presentazione di materiale realmente esistente nel mondo interno del perverso, che subisce processi di idealizzazione anziché le trasformazioni e le secondarizzazioni - quelle sì, artistiche - della sublimazione.
Per “perversione” intendiamo clinicamente una distorsione precoce del Sé, connotata da disturbi delle identificazioni, infantilismo, regressione orale e sadico-anale, distorsione delle istanze super- egoiche, difficoltà di controllo e di differimento pulsionale, per riferirci alla definizione di Dario De Martis nel “Trattato di psicoanalisi” a cura di Antonio Alberto Semi.
Beninteso, siamo tutti un po’ perversi, dal momento che la personalità di ciascuno è multisfaccettata, ricca, cangiante; la “tentazione perversa” giace nel fondo di ognuno di noi e nei recessi della storia collettiva, pronta a emergere quando le condizioni biografiche o storiche lo rendano possibile. Qui mi riferisco a quanto accade quando la modalità perversa ha netta prevalenza sulle altre – “nevrotiche” o “normali”.
Che ci si riferisca all’ambito artistico – in cui il perverso è, in realtà, più un esteta e un manierista che un “vero artista”- o a quello esistenziale in senso lato, la soluzione perversa è davvero, com’ebbe a definirla Freud, “ingegnosa”. Attraverso una regressione alla magica onnipotenza riesce infatti nel miracolo di far aggirare al soggetto le angosce legate alla constatazione dello iato tra sé e il suo ideale, le disillusioni dovute alle sue impotenze, i timori della malattia, della morte, della dipendenza dagli altri.
Mediante un “trucco”, magari ottenuto grazie all’intervento di un feticcio utilizzato a mò di bacchetta magica (per esempio un piede asettico, epurato dagli odori che ricondurrebbero troppo da vicino a piaceri collegati alla fase sadico-anale nell’ambito della quale si costituisce), egli accede a un mondo “paradisiaco” in cui ogni ostacolo è bandito: non esiste la disuguaglianza, il piacere è “soave”, scevro da sensi di colpa (quelli legati all’attraversamento del complesso edipico) e, soprattutto, ottenuto senza sforzo e senza indugio (non c’è differimento del soddisfacimento ma scarica pulsionale immediata).
Le sue idealizzazioni compulsive lo proteggono da quella che per il resto dell’umanità è la grande, dolorosa lezione dell’inadeguatezza. Una parte di lui vive così in un mondo di sdilinquimenti in cui il cielo, la terra, la natura e le arti belle lo accarezzano dolcemente, mai riflettendogli la sua immagine reale - quella di bambino mai cresciuto oppure di fetida sentina d’ogni vizio, come ben rappresenta il romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde -, sempre restituendogliene una a suo uso e consumo.
La realtà, nel suo dolore e nelle sue miserie, è bandita, anche se questo ha prezzi elevati: la prigionia dalla falsità, la sempre più grande incapacità di fronteggiare la vita reale, il premere del presagio di uno smisurato fallimento. Purtroppo quest’ultimo è tenuto a bada da una sequela di “acting out” che aumentano la rovina sua e del mondo che lo circonda; ecco perché la “compulsione a creare” del perverso non è scevra da conseguenze talora drammatiche.
Interrogarsi sul rapporto tra perversione e creatività diventa particolarmente interessante in un mondo in cui il capitalismo globale, fondato sul dominio della tecnica, alimenta una scienza che non si pone più limiti.
Sostenuta con ogni mezzo da una Weltanschauung ottimistica nata nelle aziende della Silicon Valley, la nuova “religione della scienza”, di fatto un’idolatria dotata di rituali (le interminabili code all’uscita dell’ultimo modello di I-phone), idoli (le “felpe californiane”, vale a dire i creatori e i CEO delle mega-corporation della tecno-comunicazione) e feticci (il telefonino) ha obiettivi ambiziosi, tra cui ripropongo a mò di ripasso il seguente elenco, giocoforza incompleto: la sconfitta della morte degli uomini dapprima grazie a impianti, crioconservazione o protesi, poi grazie alla traduzione del loro pensiero in file da immettere nella rete; la creazione di intelligenze artificiali che rappresenteranno i nostri eredi ”perfetti” quando la specie umana si sarà estinta; lo sfondamento dei limiti dell’umano attraverso la creazione di ibridi e cyborg caratterizzati da innesti uomo–macchina.
Inoltre, un’ingegneria genetica capace di ibridare creature come ad esempio una fragola e un topo, e nuove tecniche di fecondazione artificiale che renderanno presto possibili genitorialità umane triple o multiple, intervengono facendo dell’uomo, di fatto, un demiurgo.
Qualcosa non torna. Nell’ebbrezza generale destata da questa hybris finora impunita, anzi celebrata dalla corrente filosofica e culturale del transumanesimo, sentiamo che la creatività sfrenata della nostra specie, dotata di mezzi tanto efficaci da stravolgere le regole stesse del vivente o addirittura da dotare di una mimesi di vita ciò che vivente non è (l’intelligenza artificiale) ha qualcosa di strano. Di perverso, forse? Quanto odio per l’uomo, per la natura, per la vita stessa nasconde tutto questo? Quanta invidia per la creazione, quanta sfiducia nella “bontà ed efficacia” nella stessa, quanta pretestuosa svalutazione? Quanta, infine, abitudine alla “falsità”?
Mi pare ci siano tutti gli elementi per pensare che la creatività di questa scienza sia da ascriversi più a un’“hybris” deviata che alla passione per la verità.
E’ curioso infatti constatare come si possa credere che l’intelligenza artificiale divenga “più umana dell’umano” e possa soppiantarci in tutto, persino dal generare autonomamente la “vita”.
E’ inoltre curioso osservare come l’abitudine a pensare che il nostro “avatar” sotto forma di riprese video o di “immagine” da esibire in rete sia “meglio di noi” arrivi a farci credere che i file tradotti in scrittura dai nostri pensieri, gli “avatar” del nostro cervello prossimi venturi, possano costituire la nostra garanzia d’eternità. Scambiamo così, come il perverso, la falsa versione di noi per quella vera e, come il narcisista, l’immagine per la persona viva.
D’altronde, se com’ebbe a dire Erich Fromm ogni società forgia il carattere del soggetto più adatto a farla funzionare economicamente, l’individuo più funzionale alla realizzazione degli obiettivi del turbocapitalismo tecnocratico sembra essere il narcisista, dal momento che le fragilità del suo Sé lo espongono alla continua ricerca dei classici “cinque minuti di celebrità”; tratti perversi fanno poi comodo alla realizzazione dell’ideologia del superamento d’ogni limite di cui stiamo parlando qui.
Il gusto di “fabbricare” viventi scavalcando la riproduzione sessuale e mettendosi al pari della divinità-padre edipico mi sembra, infatti, parlare da sé.
Qual è, dunque, il crinale che separa la creatività autentica da una “hybris” perversa?
Per riferirsi al paradigma frommiano, la prima è biòfila, la seconda è necrofila. La prima è, cioè, incentrata sull’accettazione delle difficoltà che conducono alla conoscenza amorevole della verità, che il soggetto maturo vuol affrontare perché ha imparato a non temere quest’ultima e, anzi, a valersene come di un nutrimento utile a promuovere un’efficace presenza nel mondo. Egli è poi spinto dalla necessità “generativa” e “produttiva” di arricchire il suo habitat umano e naturale con il prodotto della sua opera d’ingegno e di lavoro, che lo conduce sanamente a trascendersi. La creatività perversa, invece, non ammette ostacoli sulla sua strada, non vuol né conoscere né produrre davvero, bensì obnubilare il mondo con la cortina fumogena delle sue estetizzazioni e delle sue calunnie. E’ spinta dalla necessità di sperimentare l’ebbrezza di una fasulla onnipotenza primigenia, che ottiene riducendo la realtà fatta di leggi, limiti, differenze al magma fecale e indifferenziato del caos, all’annichilimento. Le differenze naturali vanno in quest’ottica superate, al fine di creare una neo-realtà artificiale che con i suoi ibridi, la sua chirurgia e i suoi innesti con l’inanimato e il meccanico scavalchi e stravolga la legge della filiazione.
Quanto stiamo stiamo vivendo appare dunque caratterizzato da quel riaffiorare della “tentazione perversa” che Chasseguet-Smirgel ha descritto come possibile in ogni epoca dell’umanità. In particolare, l’ottimismo che caratterizza la visione “transumanista” sembra tipico delle attese di rinnovamento che una civiltà in declino spesso ripone sul desiderio di tornare al caos originario per una palingenesi nell’egida di valori differenti. In realtà, la “promesse de bonheur” dei tanti profeti di nuove civiltà, ivi inclusa la nostra, è intrisa di “cupio dissolvi”, cioè, ancora una volta, di un profondo odio per la vita stessa.
Come ci ricorda l’autrice,
«finalità dello scienziato affetto da hybris non è scoprire la verità, ma porre le sue scoperte al servizio del principio di piacere. Diverse evidenze mettono in dubbio che si possa pervenire per questa via all’ottenimento di risultati scientifici validi. (…) Come è noto, gli esperimenti condotti dai medici nazisti sui deportati dei campi di concentramento non produssero alcun risultato valido sul piano scientifico».
Ci auguriamo che questo si riveli predittivo anche nel caso della scienza onnipotente di oggi.
Non finisce qui: anche altri fenomeni contemporanei sembrano indicare il prevalere di una “forma perversa” del pensiero. Il sistema dei consumi, per esempio, si basa sull’obsolescenza programmata degli oggetti, dunque sul piacere di distruggere e svalutare il prezioso prodotto della creatività umana (genitale-generativa) e del lavoro manuale e intellettuale (fatto d’impegno, dedizione, differimento del soddisfacimento). Perverso è il piacere del “nuovo purché nuovo” che lo informa, derivato ad un gusto dell’anomia che nasce dal misconoscimento della storia che ci precede e che ci genera.
Ancora, tornando all’arte riusciamo a comprendere il motivo per cui certa arte contemporanea sembri fiera di proporre il vuoto di contenuti in forma estetizzante, anzi , addirittura un vuoto che rinuncia persino alla (sublime e necessaria) “inutilità” del bello (sic!): ritracciamo, in questo, lo sberleffo del perverso alle leggi della significazione codificata (in certi casi questo aspetto è fonte anche di “arte vera”, pensiamo all’informale pregno di contenuti emotivi lancinanti di Alberto Burri), la sua predilezione per la “falsità” simulatrice di un’inesistente status di “creatore”, la sua sterilità infantile.
7 commenti:
Molto interessante questo argomento. E' bello vedere che qualcuo ancora pensa sulle cose che accadono dentro e fuori di noi, e che si indigna per la superficiale accettazione di uno status quo ormai generalizzato e immune da autocritica. Meglio ancora se questo pensiero è formulato in modo intelligente e preparato come nel caso di questo articolo. Quindi, innanzi tutto, complimenti ad Alessia.
Per quel che mi riguarda nella perversione non ci può essere creatività. Poichè essa non è altro, per usare una definizione psicologica, una "coazione a ripetere". Il perverso non ha scelta, non si sceglie una perversione. Si tratta semplicemente di una risposta automatica a vissuti inelaborati delle varie fasi della crescita. Se vogliamo chiamare creatività il peculiare tipo di risposta che viene messo in atto da un perverso, allora dovremmo trovare una altra parola per indicare la creatività nel campo artistico.
Quando poi utilizziamo la parola verità dovremmo sempre ricordare che cosa significa. In italiano (come in tedesco) deriva da veritas. In latino signifacava cio' che è giusto (diritto) rispetto a ciò che è sbagliato (torto) ed a sancire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è una autorità esterna: il giudice. Quindi la verità è esterna a noi, ci viene imposta e a quel modello di veritas ci adeguiamo. Molto comodo questo per la scienza. Come dire: se la suona e se la canta. In inglese non cambia molto, sia perchè comunque il modello è quello della veritas latina, sia perchè "truth" deriva da un antico termine proto indioeruopeo (drew-o) che significava saldo, fermo, fedele.
Siamo molto lontani dal concetto greco di alétheia o antico ebraico di emèt che per verità indicavano un percorso di ricerca interiore.
L'arte, quando è tale, ha come ricerca proprio quest'ultima verità, non la veritas.
Ed ecco perchè in arte si può dunque parlare di percorso creativo, mentre nella perversione c'è solo la ripetizione all'infinito di un bisogno. E quando i bisogni perversi, che come si diceva bene nell'articolo sono latenti in tutti noi, chi più chi meno, è facile andarli ad alimentare con feticci tecnologici alla portata ormai di chiunque.
In conclusione provo anche io tanta tristezza nel vedere tutta questa confusione di idee e parole intorno a noi, che fanno passare per cretatività e arte delle "cose" che, al massimo sono invenzioni, con scopi tutti da valutare poi.
Dovremmo, io credo, crearci un nuovo linguaggio per dare forma a quel mondo di alétheia che è lì da sempre dentro ognuno di noi, e lasciare affogare il mondo della veritas sotto un diluvio di parole senza senso.
Gentilissimo Michele,
condivido le tue parole, anche se spero di non essere stata, nel pezzo, tanto ambigua da meritare la tua elegante tirata d’orecchie sull’uso del linguaggio. Credo che emerga abbastanza chiaramente, dal testo, come io la pensi circa la validità delle produzioni “artistiche” e scientifiche di matrice perversa. Per quanto riguarda l’arte in particolare, bisogna intendersi su cosa sia l’arte vera. Essa è un viaggio dell’artista, nasce dall’attraversamento di ampi strati di vita psichica...
Qualcosa, nell’esperienza presente dell’artista, gli suscita un’emozione, gli desta meraviglia. Se ne prende cura, avviando quel processo di risignificazione e ricerca di forme nuove e antiche che sfocia, alla fine, in una “messa in vita” . L’opera d’arte contiene frammenti di vita psichica dell’artista! Emozioni grezze, spaventose o sublimi, han dovuto essere “lavorate” per tradursi in bellezza. E hanno accettato di stare nel
buio per un po’, prima che l’artista completasse una ricerca ulteriore di materiali e tecniche, dentro di lui e nel mondo, che potesse dar loro una forma adeguata. Come affermi, non c’è lo spazio per questo lavoro nella modalità perversa del pensiero, che non tollera attese ne’ indugi. L’artista accetta anche di “sostare nel caos”... e lo fa più degli altri uomini , usi ad allontanarsi in fretta da quella che temono, anzi sanno, essere la loro follia... che è invece la fonte dell’arte. Il coraggio della verità, per l’artista, è necessario, perché deve maneggiare il fuoco della sua follia senza bruciarsi. E’ così che illumina il mondo.
Il perverso, invece, ha una vera e propria compulsione a creare... perché è a caccia di un’identità che vuole illudersi d’avere ma che sente franargli sotto i piedi. L’opera è il suo “monumento a se stesso”; ma, poiché non è autentica in quanto nasce esclusivamente per alimentare l’autostima (non perché egli sia davvero interessato all’opera o a uno scambio di contenuti con gli altri) ha spesso e volentieri i piedi d’argilla. Per quanto riguarda aletheia, il disvelamento, lo trovo un tema degno di tutta l’attenzione possibile.
Alessia Vignali
Mi scuso se ciè che ho scritto è stato interpretato come una tirata d'orecchi, non voleva proprio esserlo. Lo scopo era solo porre l'attenzione anche su alcuni elementi che ritenevo degni di riflessione. Condivido pienamente l'analisi approfondita e forse mi sono un po' lasciato prendere io!
Ancora compliemnti e grazie per la risposta.
... nella comunicazione online, che da’ l’illusione di essere interpersonale (e in quanto tale richiede immediatezza), ma che in realtà è un atto pubblico, i fraintendimenti sono frequenti ed e’ normale che accadano... Grazie, invece, a te e alla tua esposizione di idee nuove, importanti e senz’altro radicate nel vero di un sentire personale.
Trovo il contributo della Vignali davvero straordinario, cioè bello, succoso, programmatico.
ma straordinario anche se comparato alla palude culturale in cui siamo.
E per questo un grazie a SOLLEVAZIONE.
ne approfitto per quindi porre una domanda all'autrice: stante che siamo contro l'orizzonte del post-umano, mi pare di poter dire che si tratterebbe di una vera e propria svolta (o inversione) antropologica.
O lei ritiene che questa "rivoluzione antropologica" sia già avvenuta?
Gentilissimo Rodolfo, grazie davvero. A mio modo di vedere la svolta è già in atto, anche se parlare di inversione o mutazione antropologica è, come sostiene Moreno Pasquinelli, una responsabilità, perché implicherebbe affermare che esso sia irreversibile , dunque spuntare in partenza le armi a chi voglia invertire la marcia. Non solo sono cambiati valori, principi, ideali, obiettivi , fantasie, teorie che abbiamo su noi stessi (e già questo sarebbe sufficiente a porci davanti un uomo irriconoscibile rispetto a quello anche solo della fine del secolo scorso); e’ cambiato il modo in cui la nostra stessa mente funziona; gli oggetti attraverso cui comunichiamo, che giungono a simbolizzare la mostra mente e retroagiscono su di essa plasmandola in modo inimmaginabile, modificano la forma (dunque la sostanza) dei nostri pensieri ed elicitano desideri di una forza improcrastinabile ( grazie a meccanismi di condizionamento apertamente skinneriani) . Insinuandosi in ogni “spazio vuoto”, essi ci disabituano a quella solitudine che, diceva Donald Winnicott, è l’unica possibile matrice del pensiero creativo. O ancora, aggiungerei io, l’unica fonte di quel “senso di se’” che si ottiene soltanto nel rispettoso raccoglimento, quando si possono far sedimentare le sollecitazioni del mondo esterno dentro uno spazio solo interiore. E cosa puo’ dire e pensare una persona estranea a se stessa? Una persona che non ha una matrice in cui collocare i suoi pensieri e grazie alla quale dare un senso a ciò che sperimenta? Il post-umano è tra noi nei volti senza tratti fisionomici di coloro che troppo s’affidano al bisturi del chirurgo estetico cancellando così il tempo e la fisionomia individuale (entrambi conferisco un’identità, anche se scomoda). Esso è tra noi nella maternita’ surrogata, nell’ingegneria genetica; ancora, lo è nelle nuove sette che preferiscono credere che l’uomo sia il frutto di operazioni d’ingegneria genetica fatte da alieni sbarcati migliaia d’anni fa: e sappiamo il potere che ha ogni “ mito delle origini”... ; lo è nel trionfo di un modo d’interpretare la psicologia che assimila l’uomo a un topo da laboratorio; lo è nel sistematico furto di senso condotto ai danni d’ogni contenuto dello scibile a opera di un sistema di (dis) informazione fundato sul soft power ignorantizzante più potente d’ogni tempo..
L’ètos contemporaneo non
ha dato alcun valore alla cultura umanistica, l’unica capace di svolgere il compito primario di “far di un uomo
un Uomo”, vale a dire di fornirgli storie e chiavi di lettura grazie alle quali poter imparare a padroneggiare la pulsionalita’, fonte delle vette culturali più alte ma anche delle atrocità . Senza una bussola per la sua “educazione sentimentale”, l’uomo regredisce al caos...
L’educazione umanistica, inoltre, è l’unica in grado di fornire la più vasta mole di categorie grazie alle quali imbrigliare il caos, imbastire una mappa, tracciare un destino sulla scia del desiderio conosciuto e valorizzato.
Gentilissimo Rodolfo, grazie davvero anche per porre una questione così forte. A mio modo di vedere la svolta è già in atto, anche se parlare di inversione o mutazione antropologica è, come sostiene Moreno Pasquinelli, una responsabilità, perché implicherebbe affermare che esso sia irreversibile , dunque spuntare in partenza le armi a chi voglia invertire la marcia. Non solo sono cambiati valori, principi, ideali, obiettivi , fantasie, teorie che abbiamo su noi stessi (e già questo sarebbe sufficiente a porci davanti un uomo irriconoscibile rispetto a quello anche solo della fine del secolo scorso); e’ cambiato il modo in cui la nostra stessa mente funziona; gli oggetti attraverso cui comunichiamo, che giungono a simbolizzare la mostra mente e retroagiscono su di essa plasmandola in modo inimmaginabile, modificano la forma (dunque la sostanza) dei nostri pensieri ed elicitano desideri di una forza improcrastinabile ( grazie a meccanismi di condizionamento apertamente skinneriani) . Insinuandosi in ogni “spazio vuoto”, essi ci disabituano a quella solitudine che, diceva Donald Winnicott, è l’unica possibile matrice del pensiero creativo. O ancora, aggiungerei io, l’unica fonte di quel “senso di se’” che si ottiene soltanto nel rispettoso raccoglimento, quando si possono far sedimentare le sollecitazioni del mondo esterno dentro uno spazio solo interiore. E cosa puo’ dire e pensare una persona estranea a se stessa? Una persona che non ha una matrice in cui collocare i suoi pensieri e grazie alla quale dare un senso a ciò che sperimenta? Il post-umano è tra noi nei volti senza tratti fisiognomici di coloro che troppo s’affidano al bisturi del chirurgo estetico cancellando così il tempo e la fisionomia individuale (entrambi conferisco un’identità, anche se scomoda). Esso è tra noi nella maternita’ surrogata, nell’ingegneria genetica; ancora, lo è nelle nuove sette che preferiscono credere che l’uomo sia il frutto di operazioni d’ingegneria genetica fatte da alieni sbarcati migliaia d’anni fa: e sappiamo il potere che ha ogni “ mito delle origini”... ; lo è nel trionfo di un modo d’interpretare la psicologia che assimila l’uomo a un topo da laboratorio; lo è nel sistematico furto di senso condotto ai danni d’ogni contenuto dello scibile a opera di un sistema di (dis) informazione fundato sul soft power ignorantizzante più potente d’ogni tempo..
L’ètos contemporaneo non
ha dato alcun valore alla cultura umanistica, l’unica capace di svolgere il compito primario di “far di un uomo
un Uomo”, vale a dire di fornirgli storie e chiavi di lettura grazie alle quali poter imparare a padroneggiare la pulsionalita’, fonte delle vette culturali più alte ma anche delle atrocità . Senza una bussola per la sua “educazione sentimentale”, l’uomo regredisce al caos...
L’educazione umanistica, inoltre, è l’unica in grado di fornire la più vasta mole di categorie grazie alle quali imbrigliare il caos, imbastire una mappa, tracciare un destino sulla scia del desiderio conosciuto e valorizzato.
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