[ 22 settembre 2018 ]
Crescono tra gli intellettuali di sinistra le voci in difesa del patriottismo democratico e del concetto di sovranità nazionale. L'intervento che ospitiamo è stato pubblicato da il manifesto, il tempio della sinistra che ha snaturato l'internazionalismo in cosmopolitismo liberale. Un segnale che da quelle parti non solo avvertono di essere lontani dal popolo lavoratore, ma che le nostre idee si fanno ogni giorno più largo.
Patria e Costituzione non è affatto uno scandalo. Anzi, significa riscoprire un nesso necessario e fondante. Le comunità politiche poggiano su un senso di appartenenza collettiva. “Patriottismo costituzionale” sta a indicare la fedeltà a una comunità politica democratica e pluralista, sulla base dei principi fissati dalla Costituzione. Nel caso di quella italiana, la realizzazione del progetto sociale delineato dall’art. 3, l’autodeterminazione collettiva che presuppone l’inclusione attraverso i diritti (innanzitutto quelli del lavoro e sociali). Un senso non meramente procedurale e formale, ma sostanziale, di patriottismo, all’insegna della giustizia distributiva.
A furia di ripetere il mantra della crisi dello Stato, del diritto pubblico e della stessa sovranità popolare, considerati ferrivecchi o addirittura regressivi, si è lasciato campo libero alla governance tecnocratica e alla polemica antidemocratica in nome delle “competenze” e delle élites “illuminate”. Ma come si fa a pensare che svilendo lo Stato e la sovranità democratica si possa portare avanti un programma di sinistra sociale?
Il concetto di sovranità è scandaloso proprio perché in esso convergono grandezze (Stato, popolo, pubblico, autonomia della politica, identità collettive) imprescindibili ai fini della lotta per l’effettività dei diritti sociali e la piena realizzazione di una democrazia progressiva. La sovranità non è, in quanto tale, un potere selvaggio come i poteri economici sregolati, tanto che è stata oggetto di appropriazione dal basso ed è potuta diventare il principio fondante della legittimità democratica (cioè una sovranità costituzionale). Anzi, per disciplinare i poteri economici, è necessario proprio tale potere pubblico, orientato a fini sociali. Mentre l’ordine spontaneo del mercato si è confermato un mito pernicioso. Così, liquidando lo Stato (nazione) si finisce per liquidare anche la democrazia costituzionale. Ovviamente, il potere è anche un rischio, che deve essere controllato, ma pensare di poterne fare a meno è puerile.
La tesi secondo cui ormai sarebbe illusorio recuperare sovranità democratica all’interno dello Stato-nazione è figlia dell’ideologia della naturalizzazione della globalizzazione. Come ha mostrato Luciano Gallino, il “finanzcapitalismo” è il frutto di precise decisioni, non di processi oggettivi e automatici. Lo sviluppo tecnologico ha certamente accelerato l’interazione globale, ma politicamente freni e riequilibri sono oltre che necessari possibili. Allora, la tesi sull’impraticabilità di una riterritorializzazione democratica è descrittiva, o non serba invece l’idea che la globalizzazione sia un bene in sé e che qualsiasi sua messa in questione (anche di segno “costituzionale”) debba essere sventata?
La perdita di coscienza del “politico” è stata esiziale per la cultura della sinistra. Liquidare tale coscienza come fascista, nazionalista, sovranista è risibile.
Crescono tra gli intellettuali di sinistra le voci in difesa del patriottismo democratico e del concetto di sovranità nazionale. L'intervento che ospitiamo è stato pubblicato da il manifesto, il tempio della sinistra che ha snaturato l'internazionalismo in cosmopolitismo liberale. Un segnale che da quelle parti non solo avvertono di essere lontani dal popolo lavoratore, ma che le nostre idee si fanno ogni giorno più largo.
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Patriottismo costituzionale e Stato-nazione per la sinistra
La sovranità non è un potere selvaggio come i poteri economici sregolati, ma è appropriazione dal basso ed è potuta diventare principio democratico fondante
Patria e Costituzione non è affatto uno scandalo. Anzi, significa riscoprire un nesso necessario e fondante. Le comunità politiche poggiano su un senso di appartenenza collettiva. “Patriottismo costituzionale” sta a indicare la fedeltà a una comunità politica democratica e pluralista, sulla base dei principi fissati dalla Costituzione. Nel caso di quella italiana, la realizzazione del progetto sociale delineato dall’art. 3, l’autodeterminazione collettiva che presuppone l’inclusione attraverso i diritti (innanzitutto quelli del lavoro e sociali). Un senso non meramente procedurale e formale, ma sostanziale, di patriottismo, all’insegna della giustizia distributiva.
A furia di ripetere il mantra della crisi dello Stato, del diritto pubblico e della stessa sovranità popolare, considerati ferrivecchi o addirittura regressivi, si è lasciato campo libero alla governance tecnocratica e alla polemica antidemocratica in nome delle “competenze” e delle élites “illuminate”. Ma come si fa a pensare che svilendo lo Stato e la sovranità democratica si possa portare avanti un programma di sinistra sociale?
Il concetto di sovranità è scandaloso proprio perché in esso convergono grandezze (Stato, popolo, pubblico, autonomia della politica, identità collettive) imprescindibili ai fini della lotta per l’effettività dei diritti sociali e la piena realizzazione di una democrazia progressiva. La sovranità non è, in quanto tale, un potere selvaggio come i poteri economici sregolati, tanto che è stata oggetto di appropriazione dal basso ed è potuta diventare il principio fondante della legittimità democratica (cioè una sovranità costituzionale). Anzi, per disciplinare i poteri economici, è necessario proprio tale potere pubblico, orientato a fini sociali. Mentre l’ordine spontaneo del mercato si è confermato un mito pernicioso. Così, liquidando lo Stato (nazione) si finisce per liquidare anche la democrazia costituzionale. Ovviamente, il potere è anche un rischio, che deve essere controllato, ma pensare di poterne fare a meno è puerile.
La tesi secondo cui ormai sarebbe illusorio recuperare sovranità democratica all’interno dello Stato-nazione è figlia dell’ideologia della naturalizzazione della globalizzazione. Come ha mostrato Luciano Gallino, il “finanzcapitalismo” è il frutto di precise decisioni, non di processi oggettivi e automatici. Lo sviluppo tecnologico ha certamente accelerato l’interazione globale, ma politicamente freni e riequilibri sono oltre che necessari possibili. Allora, la tesi sull’impraticabilità di una riterritorializzazione democratica è descrittiva, o non serba invece l’idea che la globalizzazione sia un bene in sé e che qualsiasi sua messa in questione (anche di segno “costituzionale”) debba essere sventata?
La perdita di coscienza del “politico” è stata esiziale per la cultura della sinistra. Liquidare tale coscienza come fascista, nazionalista, sovranista è risibile.
L’internazionalismo è ben altra cosa dal globalismo liberale e da un generico cosmopolitismo: Togliatti lo aveva ben presente. Gramsci insiste ripetutamente sulla centralità della questione nazionale, dalla quale bisogna partire per inquadrare il nesso nazionale-internazionale. C’è tutta una tradizione (da Machiavelli a Mazzini, da Montesquieu a Rousseau), che individua nel patriottismo un fattore storicamente progressivo di virtù civica. Come ricorda Massimo Luciani, i costituenti non ebbero alcuna titubanza a parlare “liberamente di nazione e anche di Patria, addirittura proclamando “sacro” il dovere di difenderla”. Identificare patriottismo e nazionalismo è un falso storico e una distorsione concettuale.
La sostituzione del vincolo esterno al patriottismo costituzionale non è stata un successo. Oggi siamo in presenza di un doppio fallimento del vincolo esterno (di cui l’euro è il simbolo supremo): non solo ci ha danneggiati e ha diviso i paesi dell’eurozona, ma non ci ha migliorato affatto. Non sarà il caso di prenderne atto, riconoscendo l’errore, invece di prendersela con gli elettori? Attenzione a diventare antipopolari, per essere antipopulisti, ed antidemocratici, per essere antinazionalisti. Del resto, negare la realtà non può mai essere un gesto progressivo.
Non si può continuare a raccontare la favola dell’euro buono (o neutro) e dell’austerità cattiva, ignorando la loro connessione strutturale, testimoniata dai fatti: la lettera della Bce, lo stato di eccezione tecnocratico di Monti, seguito dalle larghe intese a tutela del bunker eurista nella scorsa Legislatura, il feroce disciplinamento della Grecia, che oltre a conculcarne la sovranità popolare l’ha devastata socialmente, ipotecandone pesantemente e per decenni il futuro. Che senso ha continuare a evitare un confronto pubblico serio, senza isterismi, con i risultati di studi argomentati che hanno sviscerato le contraddizioni intrinseche dell’eurozona e il suo ancoraggio all’ordoliberismo?
Un nuovo profilo politico per la sinistra, oggi, in Italia come in Europa, può emergere solo rompendo con il progressismo neoliberale, sconsacrando il tabù dell’euro (nuova religione non degli oppressi, ma degli abbienti), denunciando le illusioni dell’ideologia no border (che non significa affatto cinismo e disumanità, ma riconoscere con realismo che un mondo senza alcun confine è impraticabile, e di certo più funzionale ai mercati che alla democrazia; e che l’immigrazione è un problema da gestire, evitando di scaricarlo sulla parte più fragile della società, per poi stigmatizzarne il disagio). Invece, rifugiarsi nella retorica “repubblicana” del “fronte anti-sovranista” (che è la foglia di fico della destra economica) è solo una compensazione identitaria per la sconfitta del 4 marzo e un modo per non affrontarne le cause profonde.
Riannodare il filo che lega il nucleo sociale della Costituzione alla sovranità democratica non è una proposta nostalgica e tradizionalista, ma al contrario un modo per prendere sul serio l’indivisibilità dei diritti sociali e civili e il nesso tra autodeterminazione personale e collettiva. La ricostruzione di un senso della collettività e del primato dell’interesse pubblico su quello privato (Genova docet) implica la messa in discussione dell’ideologia globalista e dell’europeismo a prescindere. Solo rovesciando i codici neoliberali adottati negli ultimi decenni, che hanno portato la sinistra a non rappresentare più gli interessi e i bisogni dei ceti popolari, sarà forse possibile ritrovare un popolo. Nel solco della Costituzione.
La sostituzione del vincolo esterno al patriottismo costituzionale non è stata un successo. Oggi siamo in presenza di un doppio fallimento del vincolo esterno (di cui l’euro è il simbolo supremo): non solo ci ha danneggiati e ha diviso i paesi dell’eurozona, ma non ci ha migliorato affatto. Non sarà il caso di prenderne atto, riconoscendo l’errore, invece di prendersela con gli elettori? Attenzione a diventare antipopolari, per essere antipopulisti, ed antidemocratici, per essere antinazionalisti. Del resto, negare la realtà non può mai essere un gesto progressivo.
Non si può continuare a raccontare la favola dell’euro buono (o neutro) e dell’austerità cattiva, ignorando la loro connessione strutturale, testimoniata dai fatti: la lettera della Bce, lo stato di eccezione tecnocratico di Monti, seguito dalle larghe intese a tutela del bunker eurista nella scorsa Legislatura, il feroce disciplinamento della Grecia, che oltre a conculcarne la sovranità popolare l’ha devastata socialmente, ipotecandone pesantemente e per decenni il futuro. Che senso ha continuare a evitare un confronto pubblico serio, senza isterismi, con i risultati di studi argomentati che hanno sviscerato le contraddizioni intrinseche dell’eurozona e il suo ancoraggio all’ordoliberismo?
Un nuovo profilo politico per la sinistra, oggi, in Italia come in Europa, può emergere solo rompendo con il progressismo neoliberale, sconsacrando il tabù dell’euro (nuova religione non degli oppressi, ma degli abbienti), denunciando le illusioni dell’ideologia no border (che non significa affatto cinismo e disumanità, ma riconoscere con realismo che un mondo senza alcun confine è impraticabile, e di certo più funzionale ai mercati che alla democrazia; e che l’immigrazione è un problema da gestire, evitando di scaricarlo sulla parte più fragile della società, per poi stigmatizzarne il disagio). Invece, rifugiarsi nella retorica “repubblicana” del “fronte anti-sovranista” (che è la foglia di fico della destra economica) è solo una compensazione identitaria per la sconfitta del 4 marzo e un modo per non affrontarne le cause profonde.
Riannodare il filo che lega il nucleo sociale della Costituzione alla sovranità democratica non è una proposta nostalgica e tradizionalista, ma al contrario un modo per prendere sul serio l’indivisibilità dei diritti sociali e civili e il nesso tra autodeterminazione personale e collettiva. La ricostruzione di un senso della collettività e del primato dell’interesse pubblico su quello privato (Genova docet) implica la messa in discussione dell’ideologia globalista e dell’europeismo a prescindere. Solo rovesciando i codici neoliberali adottati negli ultimi decenni, che hanno portato la sinistra a non rappresentare più gli interessi e i bisogni dei ceti popolari, sarà forse possibile ritrovare un popolo. Nel solco della Costituzione.
* Fonte: il manifesto
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