[ giovedì 23 maggio 2019 ]
Il nuovo protagonismo della Russia putiniana sulla scena globale ha riportato in auge la questione dell'Eurasia. Molti analisti occidentali, anzitutto quelli vicini ad ambienti NATO, ritengono che dietro all'espansionismo russo vi sia il progetto eurasiatista. E' davvero così? E nel caso, di quale eurasiatismo si tratterebbe?
Segnaliamo che questo blog si era già occupato della questione storica e filosofica dell’Eurasia nell'articolo Che cos'è l'euroasiatismo. Successivamente pubblicammo un'indagine su certa estrema destra filorussa.
Che cosa significa, su un piano politico, Eurasia? Possiede, la concezione del mondo fondata sull’Eurasia, una capacità di proiezione mitica ed universalistica? Proviamo ora a vedere.
Le Riforme Pietrine aprirono la Russia all’Occidente. Il confronto tra Russia e Europa venne percepito da molti strati della società civile russa come una pericolosa apertura verso l’abisso. Non va del resto dimenticato il fatto che nell’inconscio russo Oriente significava Khanato dell’Orda d’Oro, quindi dominio tataro-mongolo. Nel corso dell’800, tali questioni assunsero nella politica strategica russa un carattere dirimente, che avrebbe sostanzialmente condotto, purtroppo, ad un sostanziale complesso di inferiorità rispetto al bonapartismo francese.
Con la sconfitta nella guerra di Crimea, prese ancora più corpo una strategia imperiale che puntava ai mari; inaccessibile il primo obiettivo immediato, l’Oceano Indiano, la politica estera fondata sulla dottrina della narodnost puntò perciò al Pacifico. Dalla
guerra di Crimea (1853-1855) sino alla guerra con il Giappone (1904-1905), due guerre che ridimensionarono l’ambizione “occidentale” russa, l’Impero zarista svoltò verso una inarrestabile espansione verso Oriente. Ciò, sul piano culturale, si accompagnò ad una rinascita d’un certo “profetismo” e d’un certo misticismo, intimamente basati sulla significativa ricerca della Russia profonda, la Russia occulta e metafisica. Mi riferisco tanto ad ambienti esoterici e occultistici, che vanno ad esempio dalla Blavatsky ad A. Belyj, quanto all’avanguardia artistica e poetica (Goncarova, Chlebnikov), senza trascurare il significativo esperimento sciitista (rivista Skify ecc). E’ però, con l’Ottobre rosso, ed in continuità desostanzializzante con questo, che il mito dell’Eurasia, da mitologia poetica e storico-letteraria, cerca di concretizzarsi in mito politico effettivo. Un potenziale mito politico che si manifestò tuttavia come mito incapacitante, privo come era di un respiro immanentistico rispetto alla stringente logica politica globale leniniana fondata sulla oggettivistica prassi dell’amico/nemico. Una potenziale ideocrazia politica, quella eurasiatista, che sorge negli ambienti contro-rivoluzionari ed antibolscevichi (Nikolaj Trubeckoj, Roman Jakobson, Georgij Florovskij, Dmitrij Svjatopolsk-Mirskij, Georgij Vernadskij e Pëtr Savickij), ma che nondimeno finisce per interpretare arditamente, e correttamente, almeno secondo il metro di Berdjaev, la rivoluzione leninista alla luce dell’idea russa, ossia come una rivoluzione contro il “capitale” marxista ed occidentalista, se volessimo usare la felice metafora gramsciana.
La concretezza politica di Lenin statista, secondo la vulgata ormai consolidata, avrebbe cozzato contro il “reazionarismo” orientaleggiante ed eurasiatista di tali circoli metapolitici; Lenin avrebbe puntato a Berlino ed al proletariato tedesco, dunque ad Occidente, e conseguentemente non vi era alcun margine di confronto con chi considerava il modello di civilizzazione russa irriducibile al ciclo “romano-germanico”. Il Carr, viceversa, considera strategica e irriducibile rispetto al marxismo della sinistra occidentalista la “svolta antimperialista” verso Oriente, filomusulmana e filoturanica. Tale prospettiva leninista sarebbe parte integrante della politica di Stato bolscevica, persa ogni speranza sulla forza militare e politica del proletariato occidentale. Tale visione, di un “comunismo tradizionalista” e non occidentalizzante, sarebbe stato il Testamento di Lenin contro la follia occidentalocentrica della "rivoluzione permanente" e contro l’ipotesi del “socialismo in un solo paese”. Lungi dall’incarnare quella linea di lotta al panislamismo asiatico che la sinistra neoilluminista trockista astrattamente e
scioccamente rivendica, dal Congresso di Baku del 1920 il leninismo non solamente si identifica appunto con il principio della “guerra santa” contro il capitalismo occidentale e l’imperialismo, ma incentiva la crescita dell’Islam asiatico, sostiene l’espansione del numero delle madrasse, appoggia su tutta la linea il Partito Comunista del Turkestan, la cui metà dei membri era islamica, impone il diritto di portare il velo alle donne. Conquiste antimperialiste, diritti di una minoranza tradizionalmente oppressa che, naturalmente, il nazionalismo grande-russo staliniano abolirà immediatamente.
Il bolscevismo stalinista chiuse, del resto, ogni possibilità di abboccamento con i teorici dell’Eurasia, non essendovi altro modello in tale contesto che il triste e bieco zdanovismo. Il movimento eurasista dell’emigrazione fu ostracizzato nell’URSS e guardato con diffidenza dallo stesso milieu dell’emigrazione in quanto “filofascista”. Lo stalinismo, d’altra parte, chiuse le porte a ogni sviluppo universalistico e multilineare del processo rivoluzionario globale in corso, seppellì ogni avanzamento strategico antioccidentalista di senso leninista, ripiegando appunto su un “provincialismo” grande-russo. Il cosiddetto eurasismo classico ebbe perciò breve vita.
Con la concezione di Lev Gumilev (1912-1992), però, il mito di Eurasia acquisisce finalmente una sua concreta potenza storica e politica. Gumilev, figlio di Anna Achmatova, non è un politico, semmai un teorico politico ed un metafisico della storia. Si potrebbe considerare l’Huntington russo come sostengono Zade e Titenko. Vissuto per 14 anni nei Gulag, potè poi esercitare la carriera accademica solo dopo la morte di Stalin. Con Gumilev, il concetto mitico di Eurasia finisce per entrare a pieno diritto nella storia delle civiltà e si supera così la visione illuministica ed occidentalistica, eurocentrista, secondo cui l’Eurasia non esisterebbe. La particolare struttura geologica eurasiana, in cui vivrebbe intimamente uno spirito eurasiatico profondo, è il significante, autentico, per la genesi di una Civiltà eurasiatica che possiede sue autonome caratteristiche, differenti e spesso contrapposte all’Europa. Quello eurasiatico, a differenza di quello europeo, è un “etnhos”. Quest’ultimo concetto indica, nella prospettiva del nostro, un collettivo
organico in movimento ed in divenire, la cui connessione con altri “etnhoi” potrebbe portare alla genesi di un “superethnos”, contraddistinto da un archetipo oggettivo che si delinea nel comportamento passionario e creatore. La “passionarietà” è appunto l’idea forza che caratterizza la etnogenesi del “superetnhos”; “passionarietà” è spirito di sopportazione e dedizione sacrificale dell’individuo integrato nel collettivo; “passionarietà” è la qualità cardine che scinde e differenzia il “superetnhos” dal “subetnhos”. Quando dilegua la forza della “passionarietà”, decade anche l’etica sacrificale comunitaria e si afferma il disgregazionismo individualistico ed atomistico. Le cinque fasi passionarie, per il nostro, si sviluppano da una fase di ascesa ad una fase omeostatica o memoriale passando attraverso le varie fasi di inerzia più o meno pronunciata. Gumilev fu un attento osservatore dei popoli che scorrazzavano nei grandi deserti turanici e da qui avrebbe mutuato la concezione che la storia sarebbe determinata soprattutto dall’azione intuiva e decisionista dei grandi leader carismatici.
La declinazione neo-eurasiatica del pensiero gumileviano aggiorna tale prospettiva alla luce del concetto, in verità assai dostoevskiano, di uomo russo come archetipo di “uomo passionario”, intrinseco portatore di una universalità sconosciuta tra gli altri “etnhoi”. Tale concetto non compare nell’orizzonte teorico di Gumilev, per il quale la civilizzazione russa si sarebbe già trovata in una etnogenesi di rottura ed in effetti il pericoloso declino demografico odierno sembrerebbe ben mostrarlo. Il motivo concettuale della storiosofia gumileviana è però chiaramente diverso dal sostanziale slavofilismo dell’eurasismo classico: dello spirito cristiano dell’eurasismo classico non vi è traccia in Gumilev, l’Ortodossia essendo solo la forma esteriore di cui si sarebbe rivestito l’ “etnhos” russo, mentre la sostanza dello sviluppo della civilizzazione, più che da una mistica, quand’anche politica, sarebbe ben incarnata dalla teoria cosmista della passionarietà, estranea ai motivi fondamentali del classico eurasismo. Gumilev, un anticomunista di ferro che soffrì sino a morirne per il crollo dello spazio imperiale eurasiatista sovietico, attacca frontalmente la concezione della Russia “fortezza cristiana”, antemurale della cristianitas rispetto al panislamismo e al panmongolismo. “La cosa più ridicola è che questo sincero prostrarsi davanti all’Occidente è chiamato patriottismo” afferma al riguardo il nostro.
La visione cosmista gumileviana ebbe una sua fortuna nella Russia di Elstin. Il Partito Comunista della Federazione Russa (Pcfr) di Zjuganov — che un esperto del fenomeno, M. Montanari, ha definito più vicino alla sinistra del Movimento Sociale italiano che alla filosofia marxista sovietica —, teorizzò la necessità del blocco continentale eurasiatico in contrasto con la potenza talassocratica ed oceanica americana, con cui furtivamente “flirtava” Elstin. Zjuganov, come sappiamo, non ebbe la possibilità di sviluppare tale blocco continentale eurasiatista. Sarà invece Vladimir Putin, dal Cremlino, ad annunciare la nascita dell’Unione Eurasiatica.
Sino ad oggi, però, tale progetto strategico pare fermo al palo della mera “unione economica” tra Bielorussia, Kazakistan, Russia, Armenia e Kirghizistan. Il putinismo infatti, a dispetto di quanto si pensa in Occidente, non è né una ideologia né un
movimento eurasista. Putin, in più casi, ha definito con sincera devozione Solzenicyn il padre spirituale ed ideologico della “Nuova Russia”. Solzenicyn non è certo un eurasista, convinto, come Dostoevskij del resto, che l’uomo russo, non eurasiatico né tanto meno occidentale ma totalmente russo, sarà unico testimone, alla fine dei tempi, della lotta definitiva contro l’anticristo, il Nemico dell’Uomo. La pesante accusa di antisemitismo, che già serpeggiava ma definitivamente gettata su Solzenicyn negli ultimi anni di vita a seguito del suo monumentale saggio sulla questione ebraica, non ha visto indietreggiare il grande scrittore russo dalla sua profetica visione. Né Putin ha sentito il dovere di giustificarsi di fronte alle accuse sioniste in merito.
Il putinismo declina tale motivazione escatologica nella pratica di un conservatorismo verticale, in cui confluiscono tradizioni politiche di una destra classica quali possono essere franchismo spagnolo o bonapartismo francese. Siamo distanti, come si può vedere, sia dall’eurasismo classico sia dalla visione di Gumilev. In conclusione, si può dire che l’azione tattica putinista verso la Cina è una opzione meramente e esclusivamente difensiva rispetto alla nuova Offensiva imperialista occidentale russofoba. Da un punto di vista politico, Eurasia oggi significherebbe blocco strategico Pechino Mosca Delhi. Non vi è altra via al riguardo. La tradizione politica russa ha lanciato un solo messaggio politico universalistico e rivoluzionario nella sua millenaria storia: quello di Vladimir Lenin. Putin, un ottimo statista che ha salvato la Russia dalla catastrofe liberale-occidentalista, non è pero né un rivoluzionario di destra (fascista), né un rivoluzionario leninista. E’ un classico statista conservatore che si è dato la importante missione di proteggere il futuro e il destino della Russia da ogni assalto esterno, sia esso occidentale o cinese o islamico. Nessuna immagine più di quella dell’orso russo che protegge il suo habitat, senza infastidire il prossimo, identifica il putinismo. Ma in una fase di radicale scontro interimperialista, quale è quella a cui ci siamo ormai avviati, sarà ancora possibile tale bonario proposito?
Ci auguriamo di sì, per il bene del grande popolo russo, ma fossimo al Cremlino non dormiremmo sonni tranquilli.
Il nuovo protagonismo della Russia putiniana sulla scena globale ha riportato in auge la questione dell'Eurasia. Molti analisti occidentali, anzitutto quelli vicini ad ambienti NATO, ritengono che dietro all'espansionismo russo vi sia il progetto eurasiatista. E' davvero così? E nel caso, di quale eurasiatismo si tratterebbe?
Segnaliamo che questo blog si era già occupato della questione storica e filosofica dell’Eurasia nell'articolo Che cos'è l'euroasiatismo. Successivamente pubblicammo un'indagine su certa estrema destra filorussa.
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Quale Eurasia?
Che cosa significa, su un piano politico, Eurasia? Possiede, la concezione del mondo fondata sull’Eurasia, una capacità di proiezione mitica ed universalistica? Proviamo ora a vedere.
Le Riforme Pietrine aprirono la Russia all’Occidente. Il confronto tra Russia e Europa venne percepito da molti strati della società civile russa come una pericolosa apertura verso l’abisso. Non va del resto dimenticato il fatto che nell’inconscio russo Oriente significava Khanato dell’Orda d’Oro, quindi dominio tataro-mongolo. Nel corso dell’800, tali questioni assunsero nella politica strategica russa un carattere dirimente, che avrebbe sostanzialmente condotto, purtroppo, ad un sostanziale complesso di inferiorità rispetto al bonapartismo francese.
Con la sconfitta nella guerra di Crimea, prese ancora più corpo una strategia imperiale che puntava ai mari; inaccessibile il primo obiettivo immediato, l’Oceano Indiano, la politica estera fondata sulla dottrina della narodnost puntò perciò al Pacifico. Dalla
Alexander Dugin egli ha una sua peculiare versione dell'eurasiatismo |
Lenin e Stalin
La concretezza politica di Lenin statista, secondo la vulgata ormai consolidata, avrebbe cozzato contro il “reazionarismo” orientaleggiante ed eurasiatista di tali circoli metapolitici; Lenin avrebbe puntato a Berlino ed al proletariato tedesco, dunque ad Occidente, e conseguentemente non vi era alcun margine di confronto con chi considerava il modello di civilizzazione russa irriducibile al ciclo “romano-germanico”. Il Carr, viceversa, considera strategica e irriducibile rispetto al marxismo della sinistra occidentalista la “svolta antimperialista” verso Oriente, filomusulmana e filoturanica. Tale prospettiva leninista sarebbe parte integrante della politica di Stato bolscevica, persa ogni speranza sulla forza militare e politica del proletariato occidentale. Tale visione, di un “comunismo tradizionalista” e non occidentalizzante, sarebbe stato il Testamento di Lenin contro la follia occidentalocentrica della "rivoluzione permanente" e contro l’ipotesi del “socialismo in un solo paese”. Lungi dall’incarnare quella linea di lotta al panislamismo asiatico che la sinistra neoilluminista trockista astrattamente e
scioccamente rivendica, dal Congresso di Baku del 1920 il leninismo non solamente si identifica appunto con il principio della “guerra santa” contro il capitalismo occidentale e l’imperialismo, ma incentiva la crescita dell’Islam asiatico, sostiene l’espansione del numero delle madrasse, appoggia su tutta la linea il Partito Comunista del Turkestan, la cui metà dei membri era islamica, impone il diritto di portare il velo alle donne. Conquiste antimperialiste, diritti di una minoranza tradizionalmente oppressa che, naturalmente, il nazionalismo grande-russo staliniano abolirà immediatamente.
Il bolscevismo stalinista chiuse, del resto, ogni possibilità di abboccamento con i teorici dell’Eurasia, non essendovi altro modello in tale contesto che il triste e bieco zdanovismo. Il movimento eurasista dell’emigrazione fu ostracizzato nell’URSS e guardato con diffidenza dallo stesso milieu dell’emigrazione in quanto “filofascista”. Lo stalinismo, d’altra parte, chiuse le porte a ogni sviluppo universalistico e multilineare del processo rivoluzionario globale in corso, seppellì ogni avanzamento strategico antioccidentalista di senso leninista, ripiegando appunto su un “provincialismo” grande-russo. Il cosiddetto eurasismo classico ebbe perciò breve vita.
Il mito del superethnos
Con la concezione di Lev Gumilev (1912-1992), però, il mito di Eurasia acquisisce finalmente una sua concreta potenza storica e politica. Gumilev, figlio di Anna Achmatova, non è un politico, semmai un teorico politico ed un metafisico della storia. Si potrebbe considerare l’Huntington russo come sostengono Zade e Titenko. Vissuto per 14 anni nei Gulag, potè poi esercitare la carriera accademica solo dopo la morte di Stalin. Con Gumilev, il concetto mitico di Eurasia finisce per entrare a pieno diritto nella storia delle civiltà e si supera così la visione illuministica ed occidentalistica, eurocentrista, secondo cui l’Eurasia non esisterebbe. La particolare struttura geologica eurasiana, in cui vivrebbe intimamente uno spirito eurasiatico profondo, è il significante, autentico, per la genesi di una Civiltà eurasiatica che possiede sue autonome caratteristiche, differenti e spesso contrapposte all’Europa. Quello eurasiatico, a differenza di quello europeo, è un “etnhos”. Quest’ultimo concetto indica, nella prospettiva del nostro, un collettivo
Lev Gumilev |
La declinazione neo-eurasiatica del pensiero gumileviano aggiorna tale prospettiva alla luce del concetto, in verità assai dostoevskiano, di uomo russo come archetipo di “uomo passionario”, intrinseco portatore di una universalità sconosciuta tra gli altri “etnhoi”. Tale concetto non compare nell’orizzonte teorico di Gumilev, per il quale la civilizzazione russa si sarebbe già trovata in una etnogenesi di rottura ed in effetti il pericoloso declino demografico odierno sembrerebbe ben mostrarlo. Il motivo concettuale della storiosofia gumileviana è però chiaramente diverso dal sostanziale slavofilismo dell’eurasismo classico: dello spirito cristiano dell’eurasismo classico non vi è traccia in Gumilev, l’Ortodossia essendo solo la forma esteriore di cui si sarebbe rivestito l’ “etnhos” russo, mentre la sostanza dello sviluppo della civilizzazione, più che da una mistica, quand’anche politica, sarebbe ben incarnata dalla teoria cosmista della passionarietà, estranea ai motivi fondamentali del classico eurasismo. Gumilev, un anticomunista di ferro che soffrì sino a morirne per il crollo dello spazio imperiale eurasiatista sovietico, attacca frontalmente la concezione della Russia “fortezza cristiana”, antemurale della cristianitas rispetto al panislamismo e al panmongolismo. “La cosa più ridicola è che questo sincero prostrarsi davanti all’Occidente è chiamato patriottismo” afferma al riguardo il nostro.
Progetto al palo
La visione cosmista gumileviana ebbe una sua fortuna nella Russia di Elstin. Il Partito Comunista della Federazione Russa (Pcfr) di Zjuganov — che un esperto del fenomeno, M. Montanari, ha definito più vicino alla sinistra del Movimento Sociale italiano che alla filosofia marxista sovietica —, teorizzò la necessità del blocco continentale eurasiatico in contrasto con la potenza talassocratica ed oceanica americana, con cui furtivamente “flirtava” Elstin. Zjuganov, come sappiamo, non ebbe la possibilità di sviluppare tale blocco continentale eurasiatista. Sarà invece Vladimir Putin, dal Cremlino, ad annunciare la nascita dell’Unione Eurasiatica.
Sino ad oggi, però, tale progetto strategico pare fermo al palo della mera “unione economica” tra Bielorussia, Kazakistan, Russia, Armenia e Kirghizistan. Il putinismo infatti, a dispetto di quanto si pensa in Occidente, non è né una ideologia né un
movimento eurasista. Putin, in più casi, ha definito con sincera devozione Solzenicyn il padre spirituale ed ideologico della “Nuova Russia”. Solzenicyn non è certo un eurasista, convinto, come Dostoevskij del resto, che l’uomo russo, non eurasiatico né tanto meno occidentale ma totalmente russo, sarà unico testimone, alla fine dei tempi, della lotta definitiva contro l’anticristo, il Nemico dell’Uomo. La pesante accusa di antisemitismo, che già serpeggiava ma definitivamente gettata su Solzenicyn negli ultimi anni di vita a seguito del suo monumentale saggio sulla questione ebraica, non ha visto indietreggiare il grande scrittore russo dalla sua profetica visione. Né Putin ha sentito il dovere di giustificarsi di fronte alle accuse sioniste in merito.
Il putinismo declina tale motivazione escatologica nella pratica di un conservatorismo verticale, in cui confluiscono tradizioni politiche di una destra classica quali possono essere franchismo spagnolo o bonapartismo francese. Siamo distanti, come si può vedere, sia dall’eurasismo classico sia dalla visione di Gumilev. In conclusione, si può dire che l’azione tattica putinista verso la Cina è una opzione meramente e esclusivamente difensiva rispetto alla nuova Offensiva imperialista occidentale russofoba. Da un punto di vista politico, Eurasia oggi significherebbe blocco strategico Pechino Mosca Delhi. Non vi è altra via al riguardo. La tradizione politica russa ha lanciato un solo messaggio politico universalistico e rivoluzionario nella sua millenaria storia: quello di Vladimir Lenin. Putin, un ottimo statista che ha salvato la Russia dalla catastrofe liberale-occidentalista, non è pero né un rivoluzionario di destra (fascista), né un rivoluzionario leninista. E’ un classico statista conservatore che si è dato la importante missione di proteggere il futuro e il destino della Russia da ogni assalto esterno, sia esso occidentale o cinese o islamico. Nessuna immagine più di quella dell’orso russo che protegge il suo habitat, senza infastidire il prossimo, identifica il putinismo. Ma in una fase di radicale scontro interimperialista, quale è quella a cui ci siamo ormai avviati, sarà ancora possibile tale bonario proposito?
Ci auguriamo di sì, per il bene del grande popolo russo, ma fossimo al Cremlino non dormiremmo sonni tranquilli.
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