[ 9 gennaio 2019 ]
L'ideologia antistatalista e l'autodistruzione delle sinistre
Non pochi hanno osservato che, intestandosi la “rivolta dei sindaci” contro il rilancio securitario di Salvini, le sinistre spostano ulteriormente il baricentro dell’iniziativa politica sul tema dei diritti civili (con priorità assoluta al problema dei migranti) sperando così di dimostrare la propria superiorità morale nei confronti della controparte, tuttavia, in questo modo, non solo non indeboliscono l’avversario, ma rischiano – come dimostrato dall’esperienza storica passata e recente – al contrario di rafforzarlo.
Avendo più volte scritto che la débâcle che le sinistre hanno subito negli ultimi decenni è, in larga misura, dovuta proprio a questa dislocazione dal terreno della lotta per i diritti sociali in difesa degli interessi delle classi popolari a quello, tipico della tradizione liberal democratica, della tutela dei diritti individuali e civili, non posso che condividere tale riflessione.
Ciò detto, credo che dietro questo scontro fra potere centrale e poteri locali si celi una ragione ancora più profonda delle nuove, inevitabili sconfitte cui è destinata ad andare incontro la sinistra — una ragione che prescinde dal contenuto della battaglia ideologica in corso (paranoia xenofoba versus utopia no border. Mi riferisco alla vocazione antistatalista di tutte le sinistre, ancorché declinata in forme e con motivazioni differenti: si va dall’anarchismo libertario di centri sociali e movimenti neo-autonomi, i quali concepiscono lo stato nazionale come un nemico in quanto tale, perché sinonimo di gerarchia, autoritarismo, se non di totalitarismo; alle rivendicazioni di autonomia e autogoverno di una “società civile” identificata, di volta in volta, con questa o quella istituzione locale (comuni, province, regioni o altro), per definizione “più vicina ai cittadini”, fino alle cyber utopie anarco-capitaliste che hanno visto i social network (governati da imprese giganti!) scalzare progressivamente le prime comunità virtuali come candidate alla costruzione di forme di democrazia diretta alternative a partiti e corpi intermedi.
Avendo sposato tali ideologie, non stupisce che le sinistre coltivino l’utopia di una Unione europea riformata, in cui si creerebbero le condizioni per una governance realmente democratica, e in cui potrebbero sbocciare i cento fiori delle più svariate esperienze di autogestione comunitaria locale. È su tale terreno che le sinistre radicali finiscono inconsapevolmente per convergere con socialdemocratici e liberali i quali, mentre costruiscono le istituzioni sovranazionali e totalitarie delle grandi lobby finanziarie e industriali, distruggendo le tradizionali istituzioni della democrazia nazionale e del welfare, strizzano l’occhio a volontariato, Ong, no profit e persino alle forme più radicali di autonomia di una società civile chiamata a tappare i buchi di un mondo lacerato dalla colonizzazione del libero mercato.
La guerra allo stato nazione in nome del mito della democrazia diretta e del localismo non apre la strada alla costruzione di più ampi spazi di democrazia, nella cornice di istituzioni sovranazionali “flessibili”, ma accelera il lavoro di distruzione delle garanzie costituzionali che decenni di lotta di classe avevano consentito di conquistare alle classi subalterne.
So che è difficile contrastare la corrente che trascina le sinistre verso la l’autodistruzione ma, a chi nel recente passato ha eletto a modello l’esperienza zapatista, consiglio di leggere queste parole del subcomandante Marcos:
L'ideologia antistatalista e l'autodistruzione delle sinistre
Non pochi hanno osservato che, intestandosi la “rivolta dei sindaci” contro il rilancio securitario di Salvini, le sinistre spostano ulteriormente il baricentro dell’iniziativa politica sul tema dei diritti civili (con priorità assoluta al problema dei migranti) sperando così di dimostrare la propria superiorità morale nei confronti della controparte, tuttavia, in questo modo, non solo non indeboliscono l’avversario, ma rischiano – come dimostrato dall’esperienza storica passata e recente – al contrario di rafforzarlo.
Avendo più volte scritto che la débâcle che le sinistre hanno subito negli ultimi decenni è, in larga misura, dovuta proprio a questa dislocazione dal terreno della lotta per i diritti sociali in difesa degli interessi delle classi popolari a quello, tipico della tradizione liberal democratica, della tutela dei diritti individuali e civili, non posso che condividere tale riflessione.
Ciò detto, credo che dietro questo scontro fra potere centrale e poteri locali si celi una ragione ancora più profonda delle nuove, inevitabili sconfitte cui è destinata ad andare incontro la sinistra — una ragione che prescinde dal contenuto della battaglia ideologica in corso (paranoia xenofoba versus utopia no border. Mi riferisco alla vocazione antistatalista di tutte le sinistre, ancorché declinata in forme e con motivazioni differenti: si va dall’anarchismo libertario di centri sociali e movimenti neo-autonomi, i quali concepiscono lo stato nazionale come un nemico in quanto tale, perché sinonimo di gerarchia, autoritarismo, se non di totalitarismo; alle rivendicazioni di autonomia e autogoverno di una “società civile” identificata, di volta in volta, con questa o quella istituzione locale (comuni, province, regioni o altro), per definizione “più vicina ai cittadini”, fino alle cyber utopie anarco-capitaliste che hanno visto i social network (governati da imprese giganti!) scalzare progressivamente le prime comunità virtuali come candidate alla costruzione di forme di democrazia diretta alternative a partiti e corpi intermedi.
Avendo sposato tali ideologie, non stupisce che le sinistre coltivino l’utopia di una Unione europea riformata, in cui si creerebbero le condizioni per una governance realmente democratica, e in cui potrebbero sbocciare i cento fiori delle più svariate esperienze di autogestione comunitaria locale. È su tale terreno che le sinistre radicali finiscono inconsapevolmente per convergere con socialdemocratici e liberali i quali, mentre costruiscono le istituzioni sovranazionali e totalitarie delle grandi lobby finanziarie e industriali, distruggendo le tradizionali istituzioni della democrazia nazionale e del welfare, strizzano l’occhio a volontariato, Ong, no profit e persino alle forme più radicali di autonomia di una società civile chiamata a tappare i buchi di un mondo lacerato dalla colonizzazione del libero mercato.
La guerra allo stato nazione in nome del mito della democrazia diretta e del localismo non apre la strada alla costruzione di più ampi spazi di democrazia, nella cornice di istituzioni sovranazionali “flessibili”, ma accelera il lavoro di distruzione delle garanzie costituzionali che decenni di lotta di classe avevano consentito di conquistare alle classi subalterne.
So che è difficile contrastare la corrente che trascina le sinistre verso la l’autodistruzione ma, a chi nel recente passato ha eletto a modello l’esperienza zapatista, consiglio di leggere queste parole del subcomandante Marcos:
«Noi stiamo dicendo che nella nuova fase del capitalismo si verifica una distruzione dello Stato Nazionale... Si sta distruggendo il concetto di nazione, di patria, e non soltanto nella borghesia, ma anche nelle classi governanti… Il progetto neoliberista esige questa internazionalizzazione della storia; pretende di cancellare la storia nazionale e farla diventare internazionale; pretende di cancellare le frontiere culturali… Il capitale finanziario possiede solo dei numeri di conti bancari. E in tutto questo gioco viene cancellato il concetto di nazione. Un processo rivoluzionario deve cominciare a recuperare i concetti di nazione e di patria».
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