[ 5 gennaio 2019 ]
Volentieri pubblichiamo questo contributo teorico, malgrado noi si dissenta dalla concezione delle élite di Vilfredo Pareto, che l'autore invece difende. Una concezione, quella paretiana, teoricamente forte quanto mitica e a-storica. Se tutto è storico e transeunte, tutto va collocato nel suo giusto contesto: non si può capire la vicenda delle élite a prescindere dalla natura determinata del sistema politico nel quale esse si formano, delle forze sociali che si contendono il potere dello Stato. Concetto che, se ci è consentito, sembra sfuggire a Eos quando afferma che: «Non esiste né può esistere “il popolo contro l’élite”. L’unica lotta che può esistere è tra élite politica e la paretiana oligarchia plutocratico-demagogica (illuminista e liberale)».
Roberto Michels è forse il più coerente teorico dell’élitismo del ‘900 con Antonio Gramsci. Si è infatti in presenza di un élitismo ideologico, non meramente positivistico o neo-positivistico. L’élitismo del Michels, che proviene dalla fazione “sindacalista rivoluzionaria” e soreliana del socialismo dei primi anni del ‘900, è l’élitismo di una destra “rivoluzionaria” non conservatrice che poi in Italia si identificherà con il regime fascista, quello gramsciano è invece, almeno a nostro avviso, un élitismo ben più neogiacobino e neoblanquista che ortodossamente marxista.
Di conseguenza, Cassese ci descrive — CHE COSA BISOGNA SAPERE DEI NOSTRI "POTERI FORTI" — la mobilità sociale, o la potenziale mobilità sociale di quello che Weber, riprendendo talune intuizioni della filosofia politica hegeliana, considerava il “ceto burocratico” moderno. Non ci descrive le élite o il processo circolatorio delle stesse, seconda la visione michelsiana o gramsciana. Camuffa l’élitismo politico integrale con il burocraticismo classico. Ma forse Cassese non sa, e non può non saperlo visti i suoi testi scientifici e dotti sul regime fascista [1], che la mobilità sociale del “ceto burocratico” in epoca fascista, come sostiene De Felice nella nota Intervista, fu qualitativamente superiore a quello del classico regime liberale? E del resto la mobilità sociale della dittatura sovietica staliniana ha qualcosa di meno del liberalismo elstiniano?
Volentieri pubblichiamo questo contributo teorico, malgrado noi si dissenta dalla concezione delle élite di Vilfredo Pareto, che l'autore invece difende. Una concezione, quella paretiana, teoricamente forte quanto mitica e a-storica. Se tutto è storico e transeunte, tutto va collocato nel suo giusto contesto: non si può capire la vicenda delle élite a prescindere dalla natura determinata del sistema politico nel quale esse si formano, delle forze sociali che si contendono il potere dello Stato. Concetto che, se ci è consentito, sembra sfuggire a Eos quando afferma che: «Non esiste né può esistere “il popolo contro l’élite”. L’unica lotta che può esistere è tra élite politica e la paretiana oligarchia plutocratico-demagogica (illuminista e liberale)».
in risposta a Sabino Cassese
Roberto Michels è forse il più coerente teorico dell’élitismo del ‘900 con Antonio Gramsci. Si è infatti in presenza di un élitismo ideologico, non meramente positivistico o neo-positivistico. L’élitismo del Michels, che proviene dalla fazione “sindacalista rivoluzionaria” e soreliana del socialismo dei primi anni del ‘900, è l’élitismo di una destra “rivoluzionaria” non conservatrice che poi in Italia si identificherà con il regime fascista, quello gramsciano è invece, almeno a nostro avviso, un élitismo ben più neogiacobino e neoblanquista che ortodossamente marxista.
Michels e Gramsci, ben letti, sono attualissimi poiché mostrano che élitismo non significa affatto “rivoluzione manageriale” o trasformazione burocratica della struttura sociale con cui oggi i populisti e gli ideologi dell’oligarchismo liberista lo confondono. Proprio il Michels (1898-1936), che ebbe la cattedra di Economia Politica e Sociologia Economica all’università di Torino grazie all’intercessione del socialista Achille Loria, nei suoi lavori teorico-politici identifica il regime liberale o democratico-rappresentativo con la democrazia formale in atto, non con una democrazia sostanziale, la cosiddetta “volontà popolare”, sostiene Michels, “non è criterio di democrazia. E’ anche possibile vi sia una dittatura o un tribunato popolare (al parlamento si sostituisce un consenso, spesso tacito, ma a volte espresso e visibile, anche se non misurabile dal punto di vista statistico). E’ addirittura possibile una dittatura monarchica istituita attraverso un sistema elettorale. Per mezzo del plebiscito il popolo si dà un dominio assoluto. Così avviene nel Bonapartismo; in esso il Cesare è l’incarnazione della volontà popolare” (R. Michels, La sociologia del partito politico).
La democrazia formale e partitocratica parlamentaristica non è possibile né concepibile senza organizzazione razionalizzata della vita civile da parte di una oligarchia, chi dice organizzazione infatti dice “tendenza all’oligarchia” , la “legge ferrea dell’oligarchia” è così la quintessenza della democrazia formale, ovvero la democrazia rappresentativa e liberale. Sulla base del presunto Stato di diritto e del dirittismo, sulla base democratica si innalza, nascondendosi, la struttura oligarchica dell’edificio democratico. Le masse, nella democrazia liberale, debbono essere neutralizzate politicamente e sostanzialmente, più di quanto lo siano state nei regimi assolutistici, la storia della Francia sotto il Re Sole Luigi XIV, ad esempio, prova che il regime della monarchia assoluta è pienamente conciliabile, ben più dell’edificio oligarchico democratico-partitico, con la pratica storico politica dell’ascesa di nuove élite o del superamento delle vecchie élite.
Dice Gaetano Mosca, in una recensione all’opera di Michels, che quest’ultimo non combatte il liberalismo democraticistico con i soliti argomenti legittimistici e “reazionari” ma con argomenti moderni, negando la possibilità stessa, presupposta la teoria politica del liberalismo, di un sincero e sostanziale governo democratico. Michels perciò non sarebbe affatto un antidemocratico, ma un ademocratico (G. Mosca, Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, p. 27).
Carl Schmitt, anni dopo, in scritti di acuta meditazione su originari motivi machiavellici e hobbesiani, ma anche soreliani, avrebbe sostenuto che la più grande antitesi politica e filosofica alla democrazia sostanziale non sarebbe stata la dittatura popolare, una democrazia plebiscitaria per il Nostro, dunque in sintesi una sorta di Democrazia sostanziale ma la dittatura liberale e liberistica contrassegnata appunto dal dominio della “ferrea legge dell’oligarchia”.
Di conseguenza, Cassese ci descrive — CHE COSA BISOGNA SAPERE DEI NOSTRI "POTERI FORTI" — la mobilità sociale, o la potenziale mobilità sociale di quello che Weber, riprendendo talune intuizioni della filosofia politica hegeliana, considerava il “ceto burocratico” moderno. Non ci descrive le élite o il processo circolatorio delle stesse, seconda la visione michelsiana o gramsciana. Camuffa l’élitismo politico integrale con il burocraticismo classico. Ma forse Cassese non sa, e non può non saperlo visti i suoi testi scientifici e dotti sul regime fascista [1], che la mobilità sociale del “ceto burocratico” in epoca fascista, come sostiene De Felice nella nota Intervista, fu qualitativamente superiore a quello del classico regime liberale? E del resto la mobilità sociale della dittatura sovietica staliniana ha qualcosa di meno del liberalismo elstiniano?
Assolutamente no, il contrario. De Felice spiega bene, non a caso, come Mussolini, non avesse impegnato il paese in una guerra mondiale, avrebbe completato la definitiva circolazione di élite, che era uno dei fini della sua missione. E si sofferma in più pagine sulla vicenda, considerandola giustamente decisiva circa il fatto fosse il fascismo una “ideologia”, o una dottrina, antagonistica o meno rispetto al liberalismo classico.
E questo è appunto il momento, machiavellicamente, determinante; la “teoria del riscontro”, formulata dal Cancelliere fiorentino nei Ghiribizzi e ribadita ne “Il Principe” (XXV), ossia la concezione agonica e volontaristica della prassi politica. La concezione meccanicistica della politica e della storia in cui a determinate azioni corrisponderebbero determinate reazioni non apparteneva infatti, minimamente, al Machiavelli; l’antideterminismo e l’antinaturalismo del Cancelliere di Firenze dovrebbe aggradare al Cassese, apparente apologeta della grande tattica delle élite. Il contrario. Tutto l’orizzonte del Cassese è radicalmente antiélitistico, come quello dei “populisti” che tanto sembra disprezzare. Le élite di Cassese sarebbero i servizi segreti e i funzionari ministeriali. Il che è tutto dire.
Nulla pare aver insegnato la grande tradizione del pensiero politico italiano di radice umanistico-rinascimentale a questi professori, competenti e antipopulisti. Quel che caratterizza la loro visione del mondo è la fiducia illimitata, di derivazione neo-illuministica e neo-liberale, nel meccanismo della scienza sociale, la quale sarebbe uno strumento per incidere nella realtà. Quanto di più lontano vi possa essere dal volontarismo politico di un élitismo machiavellico o neo-machiavellico.
Ma non solo.
Sabino Cassese, apologeta delle oligarchie liberali e borghesi, la cui missione è sempre stata quella di neutralizzare l’ascesa del volontarismo ideologico delle élite pan-politiciste, è anche pre-weberiano e a-weberiano, dato che nemmeno considera la teoria di Max Weber circa la “gabbia di ferro” che la visione del mondo illuministica e liberale porta con sé, con il disincanto del mondo tipico del capitalismo occidentale, ma in un simile contesto di analisi scientifico-sociale (o presunta tale) non è possibile ignorare una simile lezione, che resta insuperata.
Dunque, il problema radicale è un problema di visione del mondo. Non esiste né può esistere “il popolo contro l’élite”. L’unica lotta che può esistere è tra élite politica e la paretiana oligarchia plutocratico-demagogica (illuminista e liberale).
NOTE
(1) Singolare, quantomeno, la definizione del Cassese circa il “maggior storico del fascismo” (G. Melis), quasi non fosse esistito R. De Felice o non esistesse Z. Sternhell.
NOTE
(1) Singolare, quantomeno, la definizione del Cassese circa il “maggior storico del fascismo” (G. Melis), quasi non fosse esistito R. De Felice o non esistesse Z. Sternhell.
1 commento:
gran pezzo, Cassese esagera come sempre
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