[ 18 gennaio 2019 ]
La confusione sotto il cielo britannico è grande, la situazione potrebbe farsi eccellente.
Giunti a questo passaggio del percorso verso la Brexit il condizionale sullo sbocco è d'obbligo, ma alcune cose sono già chiare.
La prima, la più importante, che forse proprio per questo nessuno rileva, è che anche stavolta l'Unione Europea si è dimostrata quel che è: un mostro antidemocratico, capace solo di farsi forte con le minacce e la paura. Dunque totalmente incapace di immaginare un accordo rispettoso della volontà popolare che si è espressa nel referendum del 2016. Anzi, è proprio quella volontà che si vuole calpestare, irridere ed infine stravolgere. E pensare che c'è chi ancora vende la menzogna di una UE come presidio democratico!
Certo, la pittoresca classe politica d'oltre Manica ci ha messo parecchio del suo. L'assurda contraddizione tra il mandato referendario, ed un governo che quel mandato ha voluto sostanzialmente tradire, è oggi sotto gli occhi di tutti. Il fatto è che il voto sulla Brexit fu un shock generale. Shock innanzitutto per l'èlite finanziaria e per i media, altezzosamente certi della superiorità del loro "pensiero unico". Shock sia per i laburisti che per i conservatori, entrambi divisi al proprio interno, entrambi con una base elettorale ben più favorevole all'uscita di quanto lo siano le rispettive rappresentanze parlamentari. Ma sorpresa ed impreparazione emersero subito anche nel campo del "Leave", dove pure i personaggi pro-Brexit più in vista, da Farage a Johnson, non ci misero molto a mostrare i propri limiti.
La risultante di tutto ciò — la volontà europea di punire un intero popolo da un lato; i pasticci di una classe dirigente britannica come minimo non rispondente alla spinta popolare, dall'altro — hanno condotto alla paralisi attuale.
L'accordo tra Theresa May e l'Ue è stato sonoramente bocciato (432 voti contrari, a fronte di 202 a favore) dal parlamento di Westminster. Quello stesso parlamento che esattamente 24 ore dopo ha invece rinnovato la "fiducia" alla May con 325 voti contro 306. Mai si era vista una cosa del genere, mai un primo ministro battuto in quel modo aveva preteso di restare ugualmente in sella.
Ma, ovviamente, il problema non è Theresa May. Il problema è la classe dirigente britannica, quantomeno la sua parte maggioritaria. Essa vorrebbe superare lo shock del 2016 rendendo finalmente nullo quel referendum. Lo vorrebbe tanto, anche se non può dirlo nel modo in cui lo dicono gli sfegatati euro-liberisti della sponda continentale della Manica.
Su questo lato non c'è ritegno: l'UE non ha niente da concedere, sono gli inglesi che devono fare marcia indietro, cancellare l'esito del voto, o annullando con atto d'imperio la procedura dell'art. 50 sull'uscita, o riconvocando un referendum che ribalti il risultato di 3 anni fa.
Ma lorsignori hanno un problema, perché non sta scritto da nessuna parte che l'elettorato britannico rovescerebbe l'esito del 2016. Su questo possiamo concordare con quanto ha detto Farage ieri al parlamento di Strasburgo. Rivolgendosi al capo negoziatore europeo Barnier ha affermato:
«Il documento sull'uscita dall'Ue dice: o questo accordo o il no deal. Ora lei dice che non c'è sostegno al no deal! Noi invece con il no deal saremmo un paese indipendente. Non metto in dubbio che alla fine ce la farete: perché collaborano con voi Blair e altri membri dell'establishment britannico che disdegnano l'esito della consultazione del 2016 e vogliono fare un nuovo referendum... Ma avrete la sorpresa: vinceremo con più voti di prima».
Ecco allora la nuova trovata che gira dalle parti di Bruxelles: nuovo referendum sì, ma non tra "Leave" e "Remain", bensì solo tra "Remain" e l'inaccettabile (per la Gran Bretagna) accordo sottoscritto dalla May, escludendo dunque dalla consultazione il temuto "no deal", cioè l'uscita senza accordo alcuno. Chiaro come una simile mostruosità antidemocratica farebbe comodo agli euro-oligarchi della Commissione. Per loro sarebbe in effetti una insperata soluzione win-win. Ma tutto ciò potrà mai essere accettato a Londra?
Ora, è vero che la decadenza della classe dirigente britannica è davvero impressionante, ma potrà mai essere accettato un referendum che porrebbe come uniche alternative o la smentita dell'esito referendario di tre anni fa, o il ribaltamento del voto parlamentare di due giorni orsono, negando invece la possibilità di confermare l'opzione che risultò vincente nel 2016?
Sarebbe grave se ciò accadesse. Che l'euro-dittatura lo pretenda, che dietro le quinte lo suggerisca, non può certo stupire. Ma per la Gran Bretagna sarebbe un'umiliazione tremenda, e una maggioranza parlamentare che volesse muoversi in questa direzione segnerebbe con ciò la propria morte politica.
Non sapendo perciò cosa fare, quel che si ipotizza adesso è solo un rinvio della data limite del 29 marzo. La si vorrebbe spostare al 29 maggio, guarda un po' tre giorni dopo le elezioni europee...
Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni, a partire dal "piano B" che la May dovrebbe presentare in parlamento lunedì prossimo. Di certo la confusione regna a Londra, ma neanche a Bruxelles si dormono sonni tranquilli. Il timore dell'euro-dittatura è il "no deal", altrimenti detto Hard Brexit.
Da modesti osservatori di un Paese nel mirino dell'euro-oligarchia noi siamo per l'Hard Brexit.
Lo siamo per quattro motivi: perché crediamo nella democrazia, e l'esito del referendum va rispettato; perché l'Ue ne uscirebbe scornata; perché si dimostrerebbe che l'uscita è possibile; perché il giorno dopo il sole continuerebbe a sorgere ad est anche sul Tamigi, e la paura dell'ignoto verrebbe finalmente sconfitta.
Non sarebbe poco. Hard Brexit!
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