[ 23 febbraio ]
Correva l’anno 1981 quando il manifesto recensì il mio primo
libro (“Fine del valore d’uso”). Era una stroncatura che non ne impedì il
successo e, alla lunga, risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore.
Quel breve saggio, uscito nella collana Opuscoli marxisti di Feltrinelli,
analizzava infatti gli effetti delle tecnologie informatiche
sull’organizzazione capitalistica del lavoro e, fra le altre cose, prevedeva —cogliendo
con notevole anticipo alcune tendenze di fondo— che la nuova rivoluzione
industriale avrebbe drasticamente ridotto il peso delle tute blu nei Paesi
occidentali, favorendo i processi di terziarizzazione del lavoro, e avrebbe
consentito un massiccio decentramento della produzione industriale nei Paesi
del Terzo mondo. Il recensore (di cui non ricordo il nome) liquidò queste tesi
come una ridicola profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è
andata a finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al
ruolo che il Manifesto svolgeva a quei tempi, ospitando un confronto alto fra
le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua
capacità di assolvere a questo compito si è decisamente appannata, eppure una
caduta di livello come quella della “recensione” che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro (“La variante populista”,
DeriveApprodi) fa ugualmente un certo effetto. Ho messo fra virgolette la
parola recensione, perché —più che di questo— si tratta di una tirata
ideologica contro i populismi —etichettati come protofascisti— che incarna il
punto di vista d’una sinistra “globalista” schierata al fianco del liberismo “progressista”
contro questo nemico comune.
Ma torniamo al libro: anche in questo caso l’intenzione è
stroncatoria, ma la disarmante superficialità con cui ne vengono criticate le
tesi stride con il notevole spazio dedicato all’impresa: una pagina intera per
liquidare un saggio che viene definito confuso, contraddittorio e
pretenziosamente ambizioso!? Non sarebbe bastato un colonnino o, meglio ancora,
non era semplicemente il caso di ignorarlo? Evidentemente, c’è chi giudica le mie
idee pericolose al punto da giustificare tanto impegno, peccato che il “killer”
non si sia dimostrato all’altezza del compito, limitandosi a stiracchiare quattro
ideuzze che avrebbero potuto stare comodamente in venti righe. Mi sono chiesto
se valesse la pena di spendere energie per replicare visto che, da quando è
uscito il libro, ho ricevuto tali e tanti attacchi —e insulti— che ormai mi rimbalzano. Alla fine ho deciso di
farlo, perché ritengo che le quattro ideuzze di cui sopra incarnino una visione
che merita di essere duramente contrastata.
Prima ideuzza: Formenti è cattivo, insiste nell’adottare
quello stile corrosivo della polemica politica che è sempre stato —da Marx in
avanti— tipico di una certa sinistra anticapitalista, ma questa modalità reattiva (tornerò fra poco sul senso di
tale aggettivo) “col passare del tempo” (stiamo parlando di mode letterarie?) ha
finito per “prendere di aceto”. Analoga accusa mi era stata rivolta tre anni fa
da Bifo, a proposito di un precedente lavoro (Utopie letali): Formenti è “antipatico”,
fa le pulci a tutti e così via. È una critica che esprime bene la visione di quei
seguaci della “svolta linguistica” che rifiutano a priori la
possibilità/necessità di difendere la “verità” di un punto di vista di parte
(di classe, politico, culturale): per costoro il conflitto non è mai
ontologico, oppone solo opinioni, punti di vista soggettivi, “narrazioni” che non
competono per il potere ma per “informare” di sé il mondo (è la concezione
“debole” dell’egemonia gramsciana, tipica dei cultural studies angloamericani).
Seconda ideuzza: a questa modalità reattiva del discorso, corrisponde una
pratica politica fondata sul rancore e sul risentimento che “sono il contrario
esatto di ogni attitudine costituente”. Purtroppo Bascetta non ci illumina su
quale dovrebbe essere questa “attitudine costituente”, in compenso ci fa
capire: 1) che l’odio di classe e il rancore per i torti subiti sono
incompatibili con qualsiasi progetto di trasformazione sociale; 2) che chi
crede perfino di poter indicare i
colpevoli dei torti in questione è destinato a finire nelle braccia dei
demagoghi fascisti. Questo doppio passaggio è denso di significati impliciti: sul
piano filosofico, implica l’abbandono della prospettiva marxista in favore di
quella nietzschiana (da cui le pippe contro il risentimento e la natura
reattiva dell’odio sociale), sul piano politico implica la negazione
dell’esistenza stessa di un nemico di classe (effetto di un foucaultismo sui
generis che neutralizza il conflitto fra soggettività antagoniste,
sostituendolo con un percorso di autonomizzazione/autovalorizzazione).
Terza ideuzza: perché la visione antagonista del
conflitto sarebbe destinata a portare acqua al mulino dei fascisti? Perché chi ne è sedotto è portato ad affidare il proprio riscatto alla
figura di un redentore, a un capo carismatico. Ergo, il populismo è un
incubatore del fascismo. Nei giorni precedenti il Manifesto aveva pubblicato un
interessante dossier su Podemos, seguito da un bell’articolo di Loris Caruso sul congresso di Vistalegre; invece nell’articolo di Bascetta
non vengono fatte sostanziali distinzioni fra populismi di destra e di
sinistra, al punto che, anche se ciò non viene esplicitamente detto, il lettore
potrebbe dedurne che Trump e Sanders, Marine Le Pen e Podemos, Alba Dorata e
M5S vanno considerati tutti sullo stesso piano, a prescindere dalle loro
differenze (ivi compreso il ruolo diverso giocato dai rispettivi leader). Del
resto, Bascetta si guarda bene dal discutere la mia analisi critica delle
teorie sul populismo di Laclau e Mouffe, nonché il mio tentativo di
reinterpretarle alla luce sia delle categorie gramsciane di egemonia, blocco
sociale, guerra di posizione, ecc. sia delle esperienze pratiche della rivoluzione
boliviana, di Podemos, e della campagna presidenziale di Sanders.
Insomma: i rancorosi e gli odiatori, quelli che oppongono
alto e basso, popolo ed élite, che cercano a tutti costi il nemico (che se la
prendono con le banche, con le multinazionali e con le caste politiche che ne
gestiscono gli interessi), quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando
le disiecta membra di un corpo sociale fatto a pezzi dalla ristrutturazione e
dalla finanziarizzazione capitalistiche, invece di godersi la libertà
individuale e i diritti civili che la civiltà ordoliberista ci regala (o
meglio, regala a un’esigua minoranza di “cognitari” e ai suoi intellettuali
organici) non sono altro che una massa indifferenziata di bruti, un popolo bue
(“demente” lo ha definito Bifo, riferendosi agli operai e alla classe media
impoverita che ha votato Trump in America e Brexit in Inghilterra) pronto a
militare sotto le insegne del “nazional operaismo” (altra definizione coniata
da Bifo).
A questo punto manca solo di prendere in esame
la quarta e ultima ideuzza, quella relativa all’apologia del globalismo contro
le mie tesi sul conflitto fra flussi e luoghi. Ma prima ritengo utile
riprendere alcune recenti riflessioni di Nancy Fraser sulle
responsabilità delle sinistre “sex and the city”.
Anche se differiscono per ideologia e
obiettivi, scrive la Fraser riferendosi alle elezioni americane e alla Brexit, «questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono
tutti dei rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo
e delle istituzioni politiche che li hanno promossi». Ma la vittoria di
Trump, aggiunge, «non è solo una rivolta contro la finanza globale. Ciò
che i suoi elettori hanno respinto non era il neoliberismo tout court, ma il
neoliberismo progressista».
Ed ecco la definizione che dà di questo termine: «Il neoliberismo
progressista è un’alleanza tra correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali
(femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ), da un lato, e
settori di business di fascia alta “simbolica” e basati sui servizi (Wall
Street, Silicon Valley, e Hollywood), dall’altro». Attraverso questa
alleanza, scrive ancora facendo eco alle tesi di Boltanski e Chiapello (“Il
nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis) , le prime prestano involontariamente
il loro carisma ai secondi: «Ideali come la diversità e la
responsabilizzazione, che potrebbero in linea di principio servire scopi
diversi, ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e
quelle che un tempo erano le vite della classe media».
In questo modo l’assalto alla sicurezza
sociale è stato nobilitato da una patina di significato emancipatorio e, mentre
le classi subordinate sprofondavano nella miseria, il mondo brulicava di
discorsi su “diversità”, “empowerment,” e “non-discriminazione.” L’”emancipazione”
è stata identificata con l’ascesa di una élite di donne, minoranze e omosessuali
“di talento” (la “classe creativa” celebrata da Richard Florida e dagli altri
cantori della rivoluzione digitale) nella gerarchia dei vincenti. «Queste
interpretazioni liberal-individualiste del “progresso” gradualmente hanno
sostituito le interpretazioni dell’emancipazione più espansive,
anti-gerarchiche, egualitarie, sensibili alla classe, anti-capitaliste che
erano fiorite negli anni ’60 e ’70».
Ma nemmeno dopo che il Partito
Democratico ha scippato la candidatura a Sanders, spianando la strada alla vittoria
di Trump, questa sinistra ha aperto gli occhi: continua a cullarsi nel mito
secondo cui avrebbe perso a causa di un “branco di miserabili” (razzisti,
misogini, islamofobi e omofobi) aiutati da Vladimir Putin (sulle differenti
interpretazioni delle cause della vittoria di Trump, vedi il corposo dossiercurato da Infoaut. Nancy Fraser li invita invece a riconoscere la propria parte di colpa, che è
consistita «nel sacrificare la causa della tutela sociale, del benessere
materiale, e della dignità della classe lavoratrice a false interpretazioni
dell’emancipazione in termini di meritocrazia, diversità, e empowerment».
Invito inutile: Bascetta e soci sono
ben lontani dal recitare un simile mea culpa. Se lo facessero, dovrebbero
accettare l’invito di Nancy Fraser a riconoscersi nella campagna contro la
globalizzazione capitalista lanciata dal populista/socialista Sanders. Vade
retro! Per costoro i discorsi sulla necessità che popoli e territori lottino
per riconquistare autonomia e sovranità praticando il “delinking” (ricordate
Samir Amin: anche lui fascista?) dal mercato globale, sono eresie
“rossobruniste”. Questo perché sono incapaci di distinguere fra mondializzazione
dei mercati (che è una caratteristica immanente del capitalismo fin dalle sue
origini) e globalizzazione, che è la narrazione legittimante (curioso errore
per chi vede solo narrazioni…) su cui si fonda l’egemonia ordoliberista; per
cui non riescono nemmeno a vedere la crisi della globalizzazione —della quale
il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera invita a prendere atto in un suo recente articolo mentre Toni Negri ne ha negato l’evidenza in una penosa intervista televisiva.
Una cecità che arriva al punto di paragonare (vedi l’ultima parte del pezzo di
Bascetta) l’apprezzamento di Sanders nei confronti del ripudio dei trattati
internazionali TTIP e TTP da parte di Trump, e quello di Corbyn nei confronti
della Brexit, al voto dei crediti di guerra da parte dei partiti socialisti
della Prima Internazionale (sic!).
Che altro aggiungere? Mi aspetto a momenti la loro adesione
al manifesto con cui Zuckerberg si candida a leader dell’opposizione liberal a Trump e a
punto di riferimento del globalismo dal volto umano (a presidente dell’umanità
ha ironizzato qualcuno). Un Impero del Bene hi tech e ordoliberista che non
mancherà di piacere alle élite cognitarie. Viste le premesse, potremmo perfino
vederli inneggiare all’annunciato ritorno di Tony Blair, che minaccia di
sfidare Corbyn per rianimare il New Labour e, perché no, aderire alla campagna
promossa da media mainstream, caste politiche ed élite finanziarie contro le
fake news veicolate dalla Rete infiltrata dai populisti. Così il politically
correct assurgerà definitivamente a neolingua e quelli che, come il
sottoscritto, spargono l’aceto della polemica, verranno finalmente messi a
tacere.
1 commento:
Fiato e tempo sprecato caro Formenti, è semplicemente inutile rintuzzare con argomenti sacrosanti (che dovrebbero appartenere ad una sinistra VERA),la scellerata visione del mondo di questi sinistri immaginari intrisi di supponenza tutta interna alla falsa contrapposizione fra chi sta con la "modernità" ed il "progresso"(sic!)e chi con la reazione(quale?),ESSI hanno già da tempo fatto una scelta di campo IRREVERSIBILE per cui ogni lucido e ragionato discorso sulla fallacia della loro linea di condotta non ha alcun peso;il loro destino è segnato e sarà la storia a consegnare alle future generazioni la loro mediocrità di servi sciocchi del capitale.LUCIANO
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