[ 30 luglio ]
Non si fa che parlare di Podemos. Pasquinelli svolge un'indagine a partire dal "discorso" del suo principale leader.
Più sotto il testo integrale dell'intervento di Pablo Iglesias.
Polemizzando (giustamente) con l'astrattismo identitario e dogmatico di certa sinistra, con l'incapacità di mettersi in sintonia con i bisogni e la coscienza reali delle persone in carne ed ossa, Iglesias traccia le linee fondamentali del suo pensiero politico.
Non si fa che parlare di Podemos. Pasquinelli svolge un'indagine a partire dal "discorso" del suo principale leader.
Più sotto il testo integrale dell'intervento di Pablo Iglesias.
E' evidente che senza la potente spinta del Movimento 15-M o degli indignados, dilagato nelle principali città spagnole nella primavera del 2011, Podemos non avrebbe visto luce. Un movimento di massa, quello degli indignados, che a sua volta non sarebbe sorto senza la devastante crisi economica e sociale che ha sconvolto la società ed il sistema politico spagnoli.
Ciò nulla toglie al grande valore politico di quel pugno di intellettuali raccolti attorno a Pablo Iglesias che due anni e mezzo dopo, esattamente il 17 gennaio 2014, sulla base di un appello, fondarono Podemos.
Il bel successo alle elezioni europee del maggio 2014, nonché quello alle elezioni regionali del marzo scorso, hanno messo Podemos —in un anno diventato il terzo partito spagnolo— sotto la luce di molti riflettori; da quelli degli eurocrati a quelli degli analisti statunitensi, da quelli dei banchieri a quelli di una certa sinistra spompata che Podemos vorrebbe scimmiottare.
I populismi
Intellettuali e politologi liberali, che non si fanno troppe fisime ideologiche e sono abili nell'uso del Rasoio di Occam, lo definiscono, non senza disprezzo, un "movimento populista di sinistra". Una definizione forse troppo lasca, per sua stessa natura imperfetta, che quindi dev'essere meglio qualificata.
Nel novecento (sorvoliamo sullo specifico fenomeno del populismo russo del XIX secolo), segnato da una forte polarizzazione sociale ed ideologica, "populista" era in effetti una definizione dispregiativa. Qualificava movimenti di protesta che, dichiarandosi al di sopra dell'opposizione tra le due classi fondamentali ed al di là dell'alternativa tra capitalismo e socialismo, avanzavano pasticciate riforme sociali che consistevano in un miscuglio abborracciato di capitalismo e socialismo — sempre dietro a formali proclami giustizialisti e qualunquistici anti-élite. Il discorso populista si distingueva quindi per il suo carattere demagogico, per il sostegno alle più disparate e contraddittorie istanze sociali pur di ottenere il consenso e salire al potere.
Il fascismo, coi suoi miti fondanti di popolo, patria e giustizia sociale, fu senza dubbio una delle variopinte forme del fenomeno populista. Una volta sconfitto quest'ultimo il populismo prese strade anche molto diverse, spesso opposte, ma fu fenomeno sempre vivo, anzitutto nei paesi del Sud del mondo. Alla testa dei movimenti di liberazione nazionali dei paesi semicoloniali e coloniali avemmo formazioni a vario titolo populiste, nella gran parte dei casi con tratti ideologici giacobini, se non addirittura socialisti.
In Occidente, come effetto del doppio crollo, del movimento operaio e del cosiddetto "socialismo reale", il discorso populista ha ripreso vigore. Assumendo anche in questo caso le più disparate forme. Con l'avvento della crisi sistemica —che è triplice: economica, di egemonia ideologica delle classi dominanti e dunque dei regimi politici— possiamo addirittura dire che siamo entrati nella fase dell'espansione dei populismi. Fare esorcismi davanti a questa rinascita non è solo inutile, è dannoso. Occorre invece capirli per farvi fronte. Per parafrasare Marx, per sopprimere il populismo, ovvero per dare una direzione adeguata agli eventi storici, occorre realizzarlo. Salvo una ripresa su larga scala del ciclo neoliberista (ipotesi che escludiamo) avremo, di sicuro nei paesi più colpiti dalla crisi sistemica, governi populisti o a guida populista, che assumeranno forme molto diverse, finanche antagonistiche. Avremo governi populisti di tipo reazionario, con politiche che mischieranno liberismo e autoritarismo —di destra—, e governi populisti antiliberisti e democratici —di sinistra. Proprio a causa dei limiti a loro connaturati, questi populismi sono destinati a fallire, e questo fallimento aprirà la strada a chi verrà dopo di loro, a regimi di tipo fascista o a regimi di tipo socialista. Se tentiamo di scrutare l'orizzonte gettando lo sguardo oltre al presente, una terza via non si avrà.
Il discorso Pablo Iglesias
E' Podemos un movimento populista?
La risposta, e per noi non è affatto motivo di scandalo, è sì. Ce lo confermava Pablo Iglesias quando, in polemica con gli intellettuali di regime che bollavano Podemos come populista, rispose argutamente che questi pennivendoli maledicono come populista ogni movimento che abbia due caratteristiche: la prima, che sorga come forma di rappresentanza di chi sta in basso; la seconda, che la direzione di chi da voce e identità a chi sta in basso, non provenga dal sinedrio delle élite dominanti.
E sempre Pablo Iglesias ci conferma questa diagnosi quando non perde occasione per dire che Podemos non è né di destra né di sinistra, e quando con estrema durezza risponde di no alla proposta di Izquierda unida (Iu) di dar vita ad una alleanza elettorale che implichi la presenza del simbolo di Iu sulla scheda elettorale. "Niente simboli ideologici del passato che ci farebbero perdere, non ci accontentiamo di gareggiare, vogliamo vincere le elezioni", risponde Iglesias. Alleanze popolari sì, ma solo con movimenti di base apartitici, come è avvenuto nelle città di Madrid e Barcellona.
Pablo Iglesias tenne l'anno passato a Valladolid un discorso a braccio davvero importante [il cui testo riportiamo quasi integralmente più sotto e che consigliamo vivamente di leggere]. Perché importante? Perché, oltre a mostrare da dove egli venga, oltre a mettere in luce le sue indubbie capacità intellettuali, svela come la narrazione di Podemos oscilli tra il grande e l'enormemente piccolo, tra una notevole abilità tattico-discorsiva e l'angustia strategica.
Nel novecento (sorvoliamo sullo specifico fenomeno del populismo russo del XIX secolo), segnato da una forte polarizzazione sociale ed ideologica, "populista" era in effetti una definizione dispregiativa. Qualificava movimenti di protesta che, dichiarandosi al di sopra dell'opposizione tra le due classi fondamentali ed al di là dell'alternativa tra capitalismo e socialismo, avanzavano pasticciate riforme sociali che consistevano in un miscuglio abborracciato di capitalismo e socialismo — sempre dietro a formali proclami giustizialisti e qualunquistici anti-élite. Il discorso populista si distingueva quindi per il suo carattere demagogico, per il sostegno alle più disparate e contraddittorie istanze sociali pur di ottenere il consenso e salire al potere.
Il fascismo, coi suoi miti fondanti di popolo, patria e giustizia sociale, fu senza dubbio una delle variopinte forme del fenomeno populista. Una volta sconfitto quest'ultimo il populismo prese strade anche molto diverse, spesso opposte, ma fu fenomeno sempre vivo, anzitutto nei paesi del Sud del mondo. Alla testa dei movimenti di liberazione nazionali dei paesi semicoloniali e coloniali avemmo formazioni a vario titolo populiste, nella gran parte dei casi con tratti ideologici giacobini, se non addirittura socialisti.
In Occidente, come effetto del doppio crollo, del movimento operaio e del cosiddetto "socialismo reale", il discorso populista ha ripreso vigore. Assumendo anche in questo caso le più disparate forme. Con l'avvento della crisi sistemica —che è triplice: economica, di egemonia ideologica delle classi dominanti e dunque dei regimi politici— possiamo addirittura dire che siamo entrati nella fase dell'espansione dei populismi. Fare esorcismi davanti a questa rinascita non è solo inutile, è dannoso. Occorre invece capirli per farvi fronte. Per parafrasare Marx, per sopprimere il populismo, ovvero per dare una direzione adeguata agli eventi storici, occorre realizzarlo. Salvo una ripresa su larga scala del ciclo neoliberista (ipotesi che escludiamo) avremo, di sicuro nei paesi più colpiti dalla crisi sistemica, governi populisti o a guida populista, che assumeranno forme molto diverse, finanche antagonistiche. Avremo governi populisti di tipo reazionario, con politiche che mischieranno liberismo e autoritarismo —di destra—, e governi populisti antiliberisti e democratici —di sinistra. Proprio a causa dei limiti a loro connaturati, questi populismi sono destinati a fallire, e questo fallimento aprirà la strada a chi verrà dopo di loro, a regimi di tipo fascista o a regimi di tipo socialista. Se tentiamo di scrutare l'orizzonte gettando lo sguardo oltre al presente, una terza via non si avrà.
Il discorso Pablo Iglesias
E' Podemos un movimento populista?
La risposta, e per noi non è affatto motivo di scandalo, è sì. Ce lo confermava Pablo Iglesias quando, in polemica con gli intellettuali di regime che bollavano Podemos come populista, rispose argutamente che questi pennivendoli maledicono come populista ogni movimento che abbia due caratteristiche: la prima, che sorga come forma di rappresentanza di chi sta in basso; la seconda, che la direzione di chi da voce e identità a chi sta in basso, non provenga dal sinedrio delle élite dominanti.
E sempre Pablo Iglesias ci conferma questa diagnosi quando non perde occasione per dire che Podemos non è né di destra né di sinistra, e quando con estrema durezza risponde di no alla proposta di Izquierda unida (Iu) di dar vita ad una alleanza elettorale che implichi la presenza del simbolo di Iu sulla scheda elettorale. "Niente simboli ideologici del passato che ci farebbero perdere, non ci accontentiamo di gareggiare, vogliamo vincere le elezioni", risponde Iglesias. Alleanze popolari sì, ma solo con movimenti di base apartitici, come è avvenuto nelle città di Madrid e Barcellona.
Non dobbiamo andare troppo lontano per capire Podemos.
In Italia la cosa che più gli si avvicina è il Movimento 5 Stelle. Movimento, quest'ultimo, che i fondatori di Podemos hanno preso con ogni evidenza ad esempio (che lo ammettano o meno), ben più che SYRIZA —malgrado ora spagnoli e greci facciano parte, nel Parlamento europeo, dello stesso gruppo della sinistra unitaria europea/sinistra verde nordica (Gue/Ngl).
I fondatori di Podemos hanno deliberatamente ricalcato l'esperienza dei cinque stelle sotto diversi profili. Ad esempio quello del funzionamento interno, fondato sulla narrazione della democrazia diretta, dell'uno che vale uno, della modalità dei referendum interni e delle primarie per comporre liste elettorali e comitati direttivi—salvo, anche qui seguendo i cinque stelle, coartare la democrazia diretta a favore di modalità chiaramente centralistiche: vedi la procedura proposta dell'esecutivo di Podemos per formare le liste alle prossime elezioni politiche.
Anche sul piano del profilo politico generale e delle rivendicazioni programmatiche le similitudini saltano agli occhi: centralità del discorso sulla "casta", inasprimento delle pene per i reati di corruzione e fiscali, reddito di cittadinanza, contrasto alle banche ed ai meccanismi di pignoramento, referendum obbligatori sui temi importanti, rifiuto delle politiche austeritarie. Due le differenze più evidenti rispetto al M5S: una critica più decisa e coerente del neoliberismo, a cui fa tuttavia da contraltare una visione altreuropeista molto simile a quella delle sinistre "radicali" europee.
In Italia la cosa che più gli si avvicina è il Movimento 5 Stelle. Movimento, quest'ultimo, che i fondatori di Podemos hanno preso con ogni evidenza ad esempio (che lo ammettano o meno), ben più che SYRIZA —malgrado ora spagnoli e greci facciano parte, nel Parlamento europeo, dello stesso gruppo della sinistra unitaria europea/sinistra verde nordica (Gue/Ngl).
I fondatori di Podemos hanno deliberatamente ricalcato l'esperienza dei cinque stelle sotto diversi profili. Ad esempio quello del funzionamento interno, fondato sulla narrazione della democrazia diretta, dell'uno che vale uno, della modalità dei referendum interni e delle primarie per comporre liste elettorali e comitati direttivi—salvo, anche qui seguendo i cinque stelle, coartare la democrazia diretta a favore di modalità chiaramente centralistiche: vedi la procedura proposta dell'esecutivo di Podemos per formare le liste alle prossime elezioni politiche.
Anche sul piano del profilo politico generale e delle rivendicazioni programmatiche le similitudini saltano agli occhi: centralità del discorso sulla "casta", inasprimento delle pene per i reati di corruzione e fiscali, reddito di cittadinanza, contrasto alle banche ed ai meccanismi di pignoramento, referendum obbligatori sui temi importanti, rifiuto delle politiche austeritarie. Due le differenze più evidenti rispetto al M5S: una critica più decisa e coerente del neoliberismo, a cui fa tuttavia da contraltare una visione altreuropeista molto simile a quella delle sinistre "radicali" europee.
Polemizzando (giustamente) con l'astrattismo identitario e dogmatico di certa sinistra, con l'incapacità di mettersi in sintonia con i bisogni e la coscienza reali delle persone in carne ed ossa, Iglesias traccia le linee fondamentali del suo pensiero politico.
La politica? "... non è ciò che io o voi vogliamo che sia. È ciò che è, ed è terribile... La politica è una questione di rapporti di forza, non di desideri o di quel che ci diciamo in assemblea"
In politica? "...non conta avere ragione, ma avere successo".
L’obiettivo? "... è riuscire a deviare il “senso comune” verso una direzione di cambiamento".
Confesso che ascoltando questi concetti un brivido mi è corso lungo la schiena.
All'apparenza Iglesias fa un discorso all'insegna di un sano e spietato realismo politico. Vale la pena però soffermarsi su queste parole, perché ci dicono molto della forma mentis di chi le ha pronunciate.
Ebbene, qui siamo oltre la vecchia banalissima massima per cui la politica sarebbe "l'arte del possibile". Una massima massimamente sbagliata, buona in bocca a politicanti mediocri in fasi politiche ordinarie. In fasi politiche straordinarie, segnate da profonde crisi di regime che pongono sul tappeto in modo oppositivo soluzioni alternative, la politica come tecnica del possibile cede sempre il passo a quella della politica come arte di ciò che il tradizionale "senso comune" considera "impossibile", di ciò che non è ancora. Fasi di grande turbolenza sociale nelle quali prendono necessariamente il sopravvento movimenti politici dotati di visioni strategiche audaci, raggruppati attorno a gruppi dirigenti coraggiosi che non esitano davanti ai nemici, decisi ad abbattere gli ostacoli sulla loro strada.
Movimenti e dirigenti che non solo indicano con chiarezza il nemico da battere ma possiedono una idea nobile ed altruistica della politica, concepita come missione spirituale, polarmente opposta a quella cosa "terribile" di cui ci racconta Iglesias, di cui ci parla il senso comune così com'è stato plasmato da secoli di soggezione e abiezione plebea alle classi dominanti.
Che la vittoria nel campo politico si risolva in una questione di rapporti di forza —quindi anche di esercizio della forza—, è certamente vero, a patto di accompagnare questo concetto a quello di egemonia, il quale implica appunto una tenace guerra di posizione e di movimento sul piano intellettuale, filosofico e culturale affinché una concezione del mondo rivoluzionaria si faccia strada a spese di quella dominante. O si ha una visione del mondo alternativa a quella delle classi dominanti o si finisce per essere non solo contaminati dal discorso dominante, ma prigionieri.
Iglesias esprime un arrogante disprezzo per le utopie e gli utopisti ma dovrebbe dirci, oltre a proferire i luoghi comuni sul fatto che il sistema vigente è disfunzionale e sommamente ingiusto, se occorra o no oltrepassarlo, se ritiene che un buen vivir sia compatibile con un sistema che ha come ragion d'essere che i pochi sfruttino e succhino valore ai molti. Ciò che appunto chiama in ballo l'avere o il non avere un visione generale, una coerente proposta di società.
Che in politica non conti "...avere ragione, ma avere successo", è un concetto francamente disarmante. Nella sua inquietante innocenza questa frasetta potrebbe essere presa alla leggera, come prova provata di una volontà populistica di potenza. C'è qualcosa di più invece, c'è appunto quel mostro della politica come "cosa terribile", ove terribile significa, pur di avere "successo", il dover fare ed il dover dire anche ciò che non si pensa, se non addirittura il contrario di ciò in cui si crede. Se qui c'è un metodo, è quello tipico di chi considera la politica una tecnica per strappare il potere, astuzia per ottenere consenso se non per abbindolare le masse, ciò che spesso implica il dissimulare le proprie reali intenzioni.
Saremmo, in questo caso, sul terreno della politica politicante, dove l'obbiettivo fine a se stesso sarebbe il "successo", che si misura nella quantità di potere che si ottiene. Potere per cosa? Per il "cambiamento" risponde Iglesias, parola ingannevole degli in fingardi e dei furfanti politici —come ad esempio Albert Rivera leader di Ciudadanos—, che non a caso disputa a Podemos, ma sul versante neoliberista opposto, il consenso degli spagnoli scontenti della "casta", considerati dalle élite intellettuali sudditi da rimbonire con parole polisemiche, spesso prive di significato, o buone per tutte le stagioni.
Potere da chi? Chi ti rende —nel contesto dato di quella che Debord chiamava "società dello spettacolo", della politica non come visione, come pathos ed ethos, ma al contrario come rappresentazione scenica— candidabile, se non anche il potere medesimo che decide chi gettare e chi no sulla ribalta mediatica? Non è forse vero che se il potere ti offre questo lusso è proprio per renderti potabile?
All'apparenza Iglesias fa un discorso all'insegna di un sano e spietato realismo politico. Vale la pena però soffermarsi su queste parole, perché ci dicono molto della forma mentis di chi le ha pronunciate.
Ebbene, qui siamo oltre la vecchia banalissima massima per cui la politica sarebbe "l'arte del possibile". Una massima massimamente sbagliata, buona in bocca a politicanti mediocri in fasi politiche ordinarie. In fasi politiche straordinarie, segnate da profonde crisi di regime che pongono sul tappeto in modo oppositivo soluzioni alternative, la politica come tecnica del possibile cede sempre il passo a quella della politica come arte di ciò che il tradizionale "senso comune" considera "impossibile", di ciò che non è ancora. Fasi di grande turbolenza sociale nelle quali prendono necessariamente il sopravvento movimenti politici dotati di visioni strategiche audaci, raggruppati attorno a gruppi dirigenti coraggiosi che non esitano davanti ai nemici, decisi ad abbattere gli ostacoli sulla loro strada.
Movimenti e dirigenti che non solo indicano con chiarezza il nemico da battere ma possiedono una idea nobile ed altruistica della politica, concepita come missione spirituale, polarmente opposta a quella cosa "terribile" di cui ci racconta Iglesias, di cui ci parla il senso comune così com'è stato plasmato da secoli di soggezione e abiezione plebea alle classi dominanti.
Che la vittoria nel campo politico si risolva in una questione di rapporti di forza —quindi anche di esercizio della forza—, è certamente vero, a patto di accompagnare questo concetto a quello di egemonia, il quale implica appunto una tenace guerra di posizione e di movimento sul piano intellettuale, filosofico e culturale affinché una concezione del mondo rivoluzionaria si faccia strada a spese di quella dominante. O si ha una visione del mondo alternativa a quella delle classi dominanti o si finisce per essere non solo contaminati dal discorso dominante, ma prigionieri.
Iglesias esprime un arrogante disprezzo per le utopie e gli utopisti ma dovrebbe dirci, oltre a proferire i luoghi comuni sul fatto che il sistema vigente è disfunzionale e sommamente ingiusto, se occorra o no oltrepassarlo, se ritiene che un buen vivir sia compatibile con un sistema che ha come ragion d'essere che i pochi sfruttino e succhino valore ai molti. Ciò che appunto chiama in ballo l'avere o il non avere un visione generale, una coerente proposta di società.
Che in politica non conti "...avere ragione, ma avere successo", è un concetto francamente disarmante. Nella sua inquietante innocenza questa frasetta potrebbe essere presa alla leggera, come prova provata di una volontà populistica di potenza. C'è qualcosa di più invece, c'è appunto quel mostro della politica come "cosa terribile", ove terribile significa, pur di avere "successo", il dover fare ed il dover dire anche ciò che non si pensa, se non addirittura il contrario di ciò in cui si crede. Se qui c'è un metodo, è quello tipico di chi considera la politica una tecnica per strappare il potere, astuzia per ottenere consenso se non per abbindolare le masse, ciò che spesso implica il dissimulare le proprie reali intenzioni.
Saremmo, in questo caso, sul terreno della politica politicante, dove l'obbiettivo fine a se stesso sarebbe il "successo", che si misura nella quantità di potere che si ottiene. Potere per cosa? Per il "cambiamento" risponde Iglesias, parola ingannevole degli in fingardi e dei furfanti politici —come ad esempio Albert Rivera leader di Ciudadanos—, che non a caso disputa a Podemos, ma sul versante neoliberista opposto, il consenso degli spagnoli scontenti della "casta", considerati dalle élite intellettuali sudditi da rimbonire con parole polisemiche, spesso prive di significato, o buone per tutte le stagioni.
Potere da chi? Chi ti rende —nel contesto dato di quella che Debord chiamava "società dello spettacolo", della politica non come visione, come pathos ed ethos, ma al contrario come rappresentazione scenica— candidabile, se non anche il potere medesimo che decide chi gettare e chi no sulla ribalta mediatica? Non è forse vero che se il potere ti offre questo lusso è proprio per renderti potabile?
(QUI la seconda parte)
L'INTERVENTO DI PABLO IGLESIAS
Più sotto il testo in lingua italiana
«So molto bene che la chiave per comprendere la storia degli ultimi cinque secoli è la formazione di specifiche categorie sociali, chiamate “classi”; è per questo che vorrei raccontarvi un aneddoto. Quando il movimento 15-M ebbe inizio, a Puerta del Sol, alcuni studenti del mio dipartimento, il dipartimento di scienze politiche, studenti molto politicizzati – avevano letto Marx, avevano letto Lenin – parteciparono per la prima volta nella loro vita a iniziative politiche con persone normali.
Si disperarono. “Non capiscono niente! Proviamo a dirglielo, voi siete proletari, anche se non lo sapete!”. Le persone li guardavano come se venissero da un altro pianeta. E gli studenti tornavano a casa depressi, dicendo “non capiscono niente”. Gli avrei voluto rispondere: “Non capite che il problema siete voi? Che in politica non conta avere ragione, ma avere successo?”. Potere avere le migliori analisi, comprendere le chiavi di lettura dello sviluppo economico a partire dal sedicesimo secolo, capire che il materialismo storico è la via da seguire per capire i processi sociali. Ma a cosa serve se poi ve ne andate in giro ad urlare in faccia alla gente “siete proletari e nemmeno ve ne rendete conto”?
Il nemico non farebbe altro che ridervi in faccia. Potete indossare una maglietta con la falce e il martello. Potete persino portare un’enorme bandiera rossa, e tornarvene a casa con la vostra bandiera, il tutto mentre il nemico continua a ridervi in faccia. Perché le persone, i lavoratori, continuano a preferire il nemico a voi. Gli credono. Lo capiscono quando parla. Mentre a voi non vi capiscono. E probabilmente voi avete ragione! Probabilmente potreste chiedere ai vostri figli di scrivere sulla vostra lapide: “Aveva sempre ragione – ma nessuno lo seppe mai”.
Quando si studiano i movimenti rivoluzionari di successo, si può notare con facilità che la chiave per riuscire è lo stabilire una certa convergenza tra le proprie analisi e il sentire comune della maggioranza. E questo è molto difficile. Perché implica il superamento delle contraddizioni.
Pensate che avrei qualche problema ideologico nei confronti di uno sciopero selvaggio di 48 o di 72 ore? Neanche per idea! Il problema è che organizzare uno sciopero non ha nulla a che fare con quanto grande sia il desiderio mio e vostro di farlo. Ha a che fare con la forza dei sindacati, e sia io che voi siamo insignificanti in materia.
Voi e io possiamo desiderare che la terra sia un paradiso per l’umanità intera. Possiamo desiderare quello che vogliamo, e scriverlo su una maglietta. Ma la politica è una questione di rapporti di forza, non di desideri o di quel che ci diciamo in assemblea. In questo paese ci sono solamente due sindacati che hanno la capacità di organizzare uno sciopero generale: la CCOO e la UGT. Mi piacciono? No. Ma così è come stanno le cose, e organizzare uno sciopero generale è molto difficile.
Ho partecipato ai picchettaggi davanti ai depositi degli autobus a Madrid. Le persone che erano lì, all’alba, e sapete dove dovevano andare? A lavoro. Non erano crumiri. Ma sarebbero stati cacciati dal loro posto di lavoro, perché lì non c’erano sindacati a difenderli. Perché i lavoratori che possono difendersi da soli, come quelli nei cantieri navali o nelle miniere, hanno sindacati forti. Ma i ragazzi che lavorano come venditori telefonici, o nelle pizzerie, o le ragazze che lavorano nel commercio al dettaglio, non possono difendersi.
Verrebbero immediatamente segati il giorno dopo lo sciopero. E voi non sarete lì, e io non sarò lì, e nessun sindacato sarà lì per sedersi col capo e dirgli: faresti meglio a non far fuori questa persona perché ha esercitato il diritto di sciopero, perché pagherai un prezzo per questo. Questo non succede, non importa quanto entusiasmo possiamo avere.
La politica non è ciò che io o voi vogliamo che sia. È ciò che è, ed è terribile. Terribile. Ed è per questo motivo che dobbiamo parlare di unità popolare, ed essere umili. A volte dovrete parlare con persone cui non piacerà il vostro linguaggio, con le quali i concetti che voi usate non faranno presa. Cosa possiamo capire da questo? Che stiamo venendo sconfitti da parecchi anni. Il perdere tutte le volte implica esattamente ciò: implica che il “senso comune” è differente da ciò che noi pensiamo sia giusto. Ma non è nulla di nuovo. I rivoluzionari lo hanno sempre saputo. L’obiettivo è riuscire a deviare il “senso comune” verso una direzione di cambiamento.
César Rendulues, un tipo molto acuto, afferma che la maggior parte delle persone sono contro il capitalismo ma non lo sanno. La maggior parte delle persone difende il femminismo, anche se non ha mai letto Judith Butler o Simone de Beauvoir. Ogni volta che vedete un padre fare i piatti o giocare con suo figlio, o un nonno spiegare a suo nipote di condividere i suoi giocattoli, c’è più trasformazione sociale in questi piccoli episodi che in tutte le bandiere rosse che potete portare ad una manifestazione. E se falliamo nel comprendere che queste cose possono fungere da fattori unificanti, loro continueranno a riderci in faccia.
Quello è il modo in cui il nemico ci vuole. Ci vuole piccoli, mentre parliamo un linguaggio che nessuno capisce, fra di noi, mentre ci nascondiamo dietro i nostri simboli tradizionali. È deliziato da tutto ciò, perché sa che finché continueremo ad essere così, non saremo mai pericolosi. Possiamo avere toni radicali, dire che vogliamo organizzare uno sciopero selvaggio, parlare di popolo armato, brandire simboli, portare ritratti dei grandi rivoluzionari alle nostre manifestazioni… loro ne saranno deliziati! Ci rideranno in faccia. È quando metterete insieme centinaia, migliaia di persone, quando inizierete a convincere la maggioranza, persino quelli che votavano per il nemico: è in quel momento che inizieranno a spaventarsi. Questo è quello che si chiama “politica”, ed è questo che dobbiamo capire.
Ve lo ricordate quel compagno calvo e col pizzetto che nel 1905 parlava di soviet?. Era un genio. Aveva intuito l’importanza di un’analisi concreta della situazione concreta. In tempo di guerra, nel 1917, quando il regime russo era sull’orlo del collasso, disse una cosa molto semplice ai russi, fossero essi soldati, contadini o lavoratori. Disse: “Pane e pace”. E quando disse “pane e pace”, che era ciò che tutti volevano – che la guerra finisse e che si potesse avere abbastanza da mangiare – molti russi che non sapevano neppure se fossero di “destra” o di “sinistra”, ma sapevano di essere affamati, dissero: “Il tizio calvo ha ragione”. E il tizio calvo fece molto bene. Non parlò ai russi di “materialismo dialettico”, gli parlò di “pane e pace”. E questa è una delle lezioni più importanti del ventesimo secolo.
Cercare di trasformare la società scimmiottando la storia, scimmiottando i simboli, è ridicolo. La strada non è quella di ripetere le esperienze di altri paesi, eventi storici del passato. La strada è quella di analizzare i processi, le lezioni della storia. E comprendere in ogni momento della storia che dire “pane e pace”, se non è connesso a ciò che le persone sentono e provano, non è altro che una ripetizione, sotto forma di farsa, di una tragica vittoria de passato».
* Fonte e traduzione: eunews
1 commento:
Il documento di Iglesias è eccellente. Ricostruisce esattamente la miseria intellettiva del gregge, dominato da ciechi istinti aggregativi ed avente come unica bussola il senso comune introiettato dall'ambiente circostante (quel che fanno e pensano gli altri). Questo ambiente, al giorno d'oggi, è plasmato da élites mediatiche a loro volta controllate dai poteri forti plutocratici. Ne risulta che le iconografie contestatarie tradizionali, sia di destra che di sinistra, non funzionano più.
Valido il riferimento a Lenin che non conquistò certo le masse con lezioni di dottrina marxista o realistiche previsioni sulla guerra civile che inevitabilmente sarebbe seguita alla presa del potere da parte dei bolscevichi, ma con parole d'ordine abbastanza elementari e rassicuranti da essere introiettate dal popolo, cioè da schiavi e idioti.
La politica è pathos ed ethos, ma questi attributi possono essere uniti alla presa di coscienza solo presso le élites. Che è poi quel che dite voi quando sostenete che del popolo ci si può fidare, ma solo quando è guidato da una dirigenza forte e determinata.
Il problema è la direzione verso cui Iglesias vuole indirizzare queste realistiche considerazioni. Il documento coi suoi riferimenti a Lenin e agli scioperi selvaggi sembrerebbe preludere all'intento di strumentalizzare le irrequietezze generate dalla crisi in senso più radicale, abituando progressivamente le masse a una narrazione alternativa. Tuttavia, le sue posizioni su Tsipras e eurodittatura non lasciano dubbi sul fatto che Iglesias punti a un'ammuina con il regime.
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