[ 5 luglio ]
Il referendum greco, quale che sarà il suo risultato finale, segna uno spartiacque nella vicenda europea. Per la prima volta la tesi sull’insostenibilità sia democratica che economica dell’attuale assetto dell’euro esce dall’ambito dell’analisi intellettuale e si traduce in un atto politico a tutto tondo. Non la solita generica invocazione di un’altra Europa, ma un gesto con il quale un leader e una forza politica mettono totalmente in gioco la propria funzione per scardinare un equilibrio di potere lesivo degli interessi popolari che si vogliono rappresentare. Questo atto non lo hanno compiuto i leader del socialismo europeo al governo nei Paesi più importanti. Né il capo dei socialdemocratici tedeschi Gabriel, saldamente aggrappato all’alleanza presente e futura con la Merkel ed esplicito fino all’ingenuità nel motivare la linea dura con l’assoluta indisponibilità tedesca ad accettare un qualsiasi cambiamento delle regole dell’eurozona. Né il Presidente francese Hollande, rapidamente convertitosi al mantra delle riforme strutturali con la nomina del governo Valls. E neppure il premier italiano Renzi, che dopo il 41% delle europee dell’anno scorso ha trasformato la lotta all’austerità in una innocua retorica a uso di tweet e comizi, scegliendo invece nella sostanza un’asse con la Merkel, a cui ha portato in dote il contenimento salariale garantito dal jobs act in cambio di qualche decimale di flessibilità sui conti.
In questa debacle storica delle sinistra riformista europea è toccato al coraggio e forse anche alla disperazione del governo greco di Syriza ingaggiare una battaglia in totale solitudine per squarciare il manto di ipocrisie politiche e corposi interessi materiali su cui l’euro si è retto finora. Tsipras si è trovato ad agire nelle condizioni più difficili, con un mandato dell’elettorato greco che chiedeva contemporaneamente l’uscita dall’austerità e la permanenza nella moneta unica, isolato dagli altri leader socialisti e sotto la spregiudicata minaccia del default imminente brandita dai suoi interlocutori. La scelta è stata quella di non cedere al ricatto e di investire tutto su un nuovo pronunciamento popolare, il gesto di sfida più eversivo rispetto all’ortodossia post-democratica che regna a Bruxelles: quella per la quale una sola politica economica è ammessa e le regole europee sono sovraordinate rispetto sia al mandato elettorale dei governi che al contenuto delle Costituzioni nazionali.
Se prevarrà l’appello di Tsipras alla dignità e alla sovranità del popolo greco e vinceranno i no, la Germania e le forze creditrici che governano l’euro si troveranno finalmente inchiodate di fronte alla scelta fondamentale non più rinviabile (quella a cui non si sarebbe mai arrivati con i sempre più vacui appelli dell’europeismo responsabile e benpensante a favore della crescita o degli Stati Uniti d’Europa…): o accettare il tabù impronunciabile, ossia la trasformazione dell’eurozona in una unione di trasferimento in cui i Paesi più ricchi aiutano i più deboli (come avviene in ogni vera unione politica e fiscale e in ogni area valutaria che ambisca a sopravvivere), oppure dimostrare che l’euro non è irreversibile, costringendo uno dei Paesi membri all’uscita.
Ma anche nell’ipotesi, purtroppo tutt’altro che remota, che tra i greci prevalga la paura dell’ignoto e vincano i sì, nulla sarà come prima. A quel punto sarà molto più difficile occultare la dura realtà: questo euro non è affatto solo una moneta, ma anzitutto un sistema di governo, in virtù del quale gli esecutivi nazionali traggono la loro legittimità non dal mandato elettorale ma dalla piena applicazione degli imperativi di Bruxelles. Un sistema di governo descritto dalla fulminante definizione data qualche anno fa dal premio Nobel e ispiratore della Reaganomics Robert Mundell: togliere agli Stati il controllo della moneta e del bilancio è stato il modo per portare Reagan in Europa senza passare per il voto degli elettori.
Anche se il governo di Syriza fosse sconfitto, quanti in Europa hanno a cuore il primato della democrazia e un’idea di società fondata sul lavoro e sull’uguaglianza dovrebbero essergli grati per almeno due buone ragioni: per averci provato fino in fondo mettendo in gioco la propria permanenza al potere e per aver disvelato la vera natura del sistema di governo dell’euro e l’illusione di poterlo cambiare con gli appelli e le prediche edificanti, senza affrontare e vincere una battaglia politica fondata anzitutto sulla rivendicazione dell’autonomia democratica e nazionale.
Per questo domenica, comunque vada, è decisivo far capire da che parte si sta e, in ogni caso, dopo il referendum non si potrà rimuovere la lezione greca. Anche in Italia, provando per un momento a lasciare sullo sfondo la discussione sulle appartenenze e sui contenitori e partendo da quella svolta culturale che occorre sia alla sinistra riformista che a quella radicale per ripensare il rapporto Europa, sovranità democratica e interesse nazionale. Senza questo ripensamento non basterà certo la scomposizione e riaggregazione di pezzi di personale politico per ricostruire nel campo del centrosinistra un progetto popolare, nazionale e di governo: un progetto che sappia accumulare sul piano interno l’energia politica necessaria per guidare su un sentiero costituzionale l'indispensabile recupero di autonomia decisionale del Paese e indicare la strada di una rifondazione del disegno europeo su basi di cooperazione, rispetto del principio democratico e pari dignità tra i popoli.
Il referendum greco, quale che sarà il suo risultato finale, segna uno spartiacque nella vicenda europea. Per la prima volta la tesi sull’insostenibilità sia democratica che economica dell’attuale assetto dell’euro esce dall’ambito dell’analisi intellettuale e si traduce in un atto politico a tutto tondo. Non la solita generica invocazione di un’altra Europa, ma un gesto con il quale un leader e una forza politica mettono totalmente in gioco la propria funzione per scardinare un equilibrio di potere lesivo degli interessi popolari che si vogliono rappresentare. Questo atto non lo hanno compiuto i leader del socialismo europeo al governo nei Paesi più importanti. Né il capo dei socialdemocratici tedeschi Gabriel, saldamente aggrappato all’alleanza presente e futura con la Merkel ed esplicito fino all’ingenuità nel motivare la linea dura con l’assoluta indisponibilità tedesca ad accettare un qualsiasi cambiamento delle regole dell’eurozona. Né il Presidente francese Hollande, rapidamente convertitosi al mantra delle riforme strutturali con la nomina del governo Valls. E neppure il premier italiano Renzi, che dopo il 41% delle europee dell’anno scorso ha trasformato la lotta all’austerità in una innocua retorica a uso di tweet e comizi, scegliendo invece nella sostanza un’asse con la Merkel, a cui ha portato in dote il contenimento salariale garantito dal jobs act in cambio di qualche decimale di flessibilità sui conti.
In questa debacle storica delle sinistra riformista europea è toccato al coraggio e forse anche alla disperazione del governo greco di Syriza ingaggiare una battaglia in totale solitudine per squarciare il manto di ipocrisie politiche e corposi interessi materiali su cui l’euro si è retto finora. Tsipras si è trovato ad agire nelle condizioni più difficili, con un mandato dell’elettorato greco che chiedeva contemporaneamente l’uscita dall’austerità e la permanenza nella moneta unica, isolato dagli altri leader socialisti e sotto la spregiudicata minaccia del default imminente brandita dai suoi interlocutori. La scelta è stata quella di non cedere al ricatto e di investire tutto su un nuovo pronunciamento popolare, il gesto di sfida più eversivo rispetto all’ortodossia post-democratica che regna a Bruxelles: quella per la quale una sola politica economica è ammessa e le regole europee sono sovraordinate rispetto sia al mandato elettorale dei governi che al contenuto delle Costituzioni nazionali.
Se prevarrà l’appello di Tsipras alla dignità e alla sovranità del popolo greco e vinceranno i no, la Germania e le forze creditrici che governano l’euro si troveranno finalmente inchiodate di fronte alla scelta fondamentale non più rinviabile (quella a cui non si sarebbe mai arrivati con i sempre più vacui appelli dell’europeismo responsabile e benpensante a favore della crescita o degli Stati Uniti d’Europa…): o accettare il tabù impronunciabile, ossia la trasformazione dell’eurozona in una unione di trasferimento in cui i Paesi più ricchi aiutano i più deboli (come avviene in ogni vera unione politica e fiscale e in ogni area valutaria che ambisca a sopravvivere), oppure dimostrare che l’euro non è irreversibile, costringendo uno dei Paesi membri all’uscita.
Ma anche nell’ipotesi, purtroppo tutt’altro che remota, che tra i greci prevalga la paura dell’ignoto e vincano i sì, nulla sarà come prima. A quel punto sarà molto più difficile occultare la dura realtà: questo euro non è affatto solo una moneta, ma anzitutto un sistema di governo, in virtù del quale gli esecutivi nazionali traggono la loro legittimità non dal mandato elettorale ma dalla piena applicazione degli imperativi di Bruxelles. Un sistema di governo descritto dalla fulminante definizione data qualche anno fa dal premio Nobel e ispiratore della Reaganomics Robert Mundell: togliere agli Stati il controllo della moneta e del bilancio è stato il modo per portare Reagan in Europa senza passare per il voto degli elettori.
Anche se il governo di Syriza fosse sconfitto, quanti in Europa hanno a cuore il primato della democrazia e un’idea di società fondata sul lavoro e sull’uguaglianza dovrebbero essergli grati per almeno due buone ragioni: per averci provato fino in fondo mettendo in gioco la propria permanenza al potere e per aver disvelato la vera natura del sistema di governo dell’euro e l’illusione di poterlo cambiare con gli appelli e le prediche edificanti, senza affrontare e vincere una battaglia politica fondata anzitutto sulla rivendicazione dell’autonomia democratica e nazionale.
Per questo domenica, comunque vada, è decisivo far capire da che parte si sta e, in ogni caso, dopo il referendum non si potrà rimuovere la lezione greca. Anche in Italia, provando per un momento a lasciare sullo sfondo la discussione sulle appartenenze e sui contenitori e partendo da quella svolta culturale che occorre sia alla sinistra riformista che a quella radicale per ripensare il rapporto Europa, sovranità democratica e interesse nazionale. Senza questo ripensamento non basterà certo la scomposizione e riaggregazione di pezzi di personale politico per ricostruire nel campo del centrosinistra un progetto popolare, nazionale e di governo: un progetto che sappia accumulare sul piano interno l’energia politica necessaria per guidare su un sentiero costituzionale l'indispensabile recupero di autonomia decisionale del Paese e indicare la strada di una rifondazione del disegno europeo su basi di cooperazione, rispetto del principio democratico e pari dignità tra i popoli.
8 commenti:
I no al 60%.
Ma vedrete che ci sarà chi si lamenta che è una fregatura di Tsipras e Varoufakis o magari anche chi mi darà del saccente.
Scusate se lo sottolineo ma me ne sono presi abbastanza di sfottò e anche pesanti: sul web sono stato l'unico a dire che i due greci stavano giocando una grandissima partita.
Adesso cambia tutto ANCHE SE TSIPRAS DOVESSE FARE DELLE CAPPELLATE perché il resto dell'Unione si rivolterà contro l'austerità, contro il liberismo e quindi di conseguenza (come avevo detto) contro la moneta unica.
Ora la chiave da capire non è tanto nella strategia di Varoufakis ma nel fatto CHE QUANDO CI SI RIVOLGE AL POPOLO CON LA BORGHESIA UNITA AI CITTADINI NIENTE E NESSUNO SI PUO' OPPORRE.
Se poi domani la borsa dovese crollare le cose precipiteranno ancora più rapidamente
Godiamoci il momento che erano più di quarant'anni che non si vedeva una meraviglia simile.
Ehm, la partita non è ancora conclusa, di solito il vincitore diventa generoso, speriamo invece tengano ancora più duro.
Ehm, hanno fatto il 60%...ma d'altra parte lo sapevo che ci sarebbero stati dei lamenti anche nella vittoria...
Altro fulminato sulla via di Damasco D'Attorre come Fassina ed ipocritamente dice "questo euro" identico al "questa europa".
Sollevazione che brutta fine...
@ Francesco Buontalenti
Dopo essermi fatto una maratona greca e arrivati alle 11 mi sembra doveroso farti una domanda:
Qualche tempo fa credo di aver dibattuto con te quando eri ancora anonimo riguardo la tattica del governo greco per quanto riguarda il fatidico piano b.
Volevo (ri)chiederti(senza polemica il mio intento è di capire)sei sicuro che Tsipras lo abbia? E se si mi potresti portare qualche fonte per poter eventualmente verificare.
Ti ringrazio in anticipo.
Ehm era perchè non sei l' unico a pensarla così sul web, ricordi? la partita si fa dura perchè la palla è stato rimandata nel campo avversario, vediamo se come al solito l' intransigenza teutonica li porterà a sbattere contro l' ennesimo muro, ma se dovessero concedere il taglio del debito per Varoufakis sarebbe dura continuare verso la rottura.
Karl Melvin
Secondo me non devono avere un piano B, il piano B era il referendum.
L'idea di Varoufakis, che puoi trovare esposta nei dettagli nel suo libro
http://www.a-puntes.net/arc/VAROUFAKIS-the-global-minotaur.pdf
è che un sistema economico si regge solamente se esiste un meccanismo di reinvestimento dei surplus dai paesi ricchi verso i paesi poveri per creare domanda e redistribuire la ricchezza. Un vantaggio per entrambi che però porta inevitabilmente a un maggior benessere dei paesi poveri e conseguentemente a un aumento delle loro richieste di avere più peso politico.
Quindi se la Grecia riesce ad ottenere la fine dell'austerità e la ristrutturazione del debito potrebbe risalire lentamente la china con molte meno sofferenze di adesso.
Il punto però è che nella visione di Varoufakis questo meccanismo di reinvestimento del surplus, essenziale per la sopravvivenza di qualsiasi sistema economico e quindi anche dell'UE, non è accettabile dalla Germania perché, nelle sue parole:
"È evidente che la richiesta di ancora più austerity da parte dei nostri creditori non è motivata dall’interesse per autentiche riforme o dal desiderio di indirizzare la Grecia lungo un percorso finanziario sostenibile. Quale sia la loro reale motivazione è una questione che è meglio lasciare agli storici futuri"
Come vedi non dà la risposta finale in questo recente articolo apparso anche sul Sole; ma la dà invece e molto precisa nel suo libro dove dice che è interesse della Germania, in quanto emissaria dell'Impero (l'euro secondo Yanis lo vogliono prima di tutti gli USA), mantenere i paesi periferici in stato di semi schiavitù con un debito permanente che verrà finanziato ma anche reso cronico dai famosi aiuti ai quali dovranno seguire delle riforme recessive che finiranno per instaurare il totale dominio dei tedeschi in Europa.
A questo punto capisci che il piano B non serve e anzi non deve mai essere nemmeno nominato come appunto stanno facendo Tsipras e Varoufakis: se i tedeschi cedono, tutto bene per la Grecia ma in quel caso anche gli altri Paesi dell'Unione, e quelli del terzo mondo nei confronti del FMI, avanzeranno le stesse pretese dei greci. Una situazione insostenibile.
Se invece si irrigidiranno ossia se si rifuteranno di applicare il meccanismo di reinvestimento dei surplus (senza il quale il sistema crolla) magari costringeranno la Grecia fuori dall'euro ma così la consegneranno nelle braccia di Putin portando per di più l'Europa alla paralisi economica e politica. In particolare, se la Grecia fosse costretta ad abbandonare la moneta unica (soluzione non indolore per gli ellenici) la rottura sarebbe colpa dei tedeschi e quindi per Syriza la situazione politica interna diventerebbe gestibile dato che il torto è di un nemico esterno. Un abbandono unilaterale da parte di Tsipras non sarebbe capito da una buona parte della cittadinanza e in quelle condizioni governare diventerebbe impossibile (come fu nel dopoguerra).
Non serve il piano B perché nella visione di Varoufakis, che io condivido, sono i tedeschi a stare sotto scacco, non i greci.
I greci non possono muovere perché le loro pedine sono bloccate dai pezzi tedeschi; i tedeschi invece DEVONO muovere ma muovendo sbloccano le pedine greche (e quelle degli altri paesi periferici in cui cominciano a levarsi troppe voci di dissenso oggi contro l'austerità, domani contro l'euro e la permanenza nell'Unione).
@Francesco
vista la tua visione (che rispetto) rimane aperta la questione di uno scontro interno tra varie modalità d'uscita,perchè c'è da scommettere che le classi dirigenti greche non sono per nulla affossate e le tenteranno tutte per avere i maggiori vantaggi dalla situazione che si prospetta.
Consideriamo anche che,avendo tutto l'apparato dei mass media dalla propria parte la partita anche a livello di opinione pubblica si farà più complicata.
E' per questo che personalmente credo che un piano b sia ancora un arma indispensabile,perchè il nemico muove si da fuori,ma anche da dentro,e mi sa che un referendum purtroppo non è bastato per sconfiggerlo.
Comunque vediamo come andrà a finire e speriamo di darglielo bene e tutto questo calcio nel culo!
Posta un commento