Cari
compagni,
mi sembra
che la principale vittima della capitolazione greca sia l’Europa, che
definitivamente mostra la sua faccia di istituzione anti-democratica dominata
da un solo paese, e con essa l’europeismo utopico di certa sinistra.[1]
LA GRECIA CROLLERA' IN POCHI MESI
E’ chiaro
che la questione greca non è finita qui. Martedì il FMI ha ribadito, e di
rimbalzo la Commissione ha ammesso, quello che tutti sanno, cioè l’insostenibilità
del debito greco che o va tagliato o congelato con una moratoria di tre o più
decenni. “Extend and pretend”, dicono gli anglosassoni. Questo non vuol dire
una vittoria della Grecia (non dico di Syriza perché ormai non possiamo più
parlare di un governo Syriza). La Grecia non può pagare e quindi si fa finta
che pagherà. Ma l’austerità rimane lì.
E’ facile prevedere (Eichengreen)
che l’economia greca, già di nuovo in profonda recessione, crollerà in pochi
mesi. Un’Europa minimamente intelligente – perché diciamocelo, l’intelligenza
scarseggia – avrebbe offerto alla Grecia già a gennaio (o prima, non c’era
bisogno di Tsipras) una moratoria decennale sul debito, incluso il pagamento
degli interessi, assumendosi anche quello (più costoso) del FMI e della BCE. In
tal modo sarebbe stata offerta a quel paese l’opportunità di sostenere un
pochino la sua fragile ripresa attraverso l’utilizzo dei risparmi in conto
interessi per sostenere la domanda interna.
Andando indietro, qualcosa del
genere andava fatto già nel 2010 quando la Grecia godette del primo
“salvataggio” - che cominciò a mettere in salvo le banche francesi e tedesche.
Nel 2010 fu la paura di una Lehman
Brother europea che fece privilegiare il salvataggio delle banche francesi
e tedesche. Più recentemente la paura che anche altri paesi europei
chiederebbero la ristrutturazione del debito ha forse frenato i tedeschi (ma la
cosa avrebbe riguardato al massimo Portogallo e Irlanda).
Varoufakis
può forse aver sbagliato a chiedere una ristrutturazione del debito greco
condendola con l‘evocazione di episodi storici che hanno poi contribuito a incattivire
i rapporti politici. Non penso proprio che, tuttavia, il presentare il proprio
caso in termini tecnici più asettici, magari appoggiandosi al FMI, avrebbe
funzionato. Certo il Fmi non avrebbe appoggiato un governo di sinistra. Vi è
inoltre la testimonianza di Varoufakis e di Tsakalotos circa il
clima intellettuale che si respirava nell’eurogruppo: come parlare in una
assemblea di condominio, come discutere di queste cose con la Serracchiani.[2]
Un muro di gomma di politici completamente incapaci di capire un discorso di
buon senso, e anche laddove lo fossero stati, annichiliti dal terrore degli
sguardi di Schauble (l’unico con le spalle un po’ dritte è forse stato Draghi
che proprio non capisco perché è continuamente attaccato). In una intervista,
un notevole esponente di Syriza, professore di scienze politiche a Londra, Stathis
Kouvelakis, sostiene che la credulità in una solidarietà finale dell’Europa ha
condotto il gruppo dirigente di Syriza a ritenere che proposte ragionevoli
fossero sufficienti ad attirare la simpatia dei partner.[3]
MODELLO VON HAYEK
Ora l’intelligenza dei partner conta – Keynes a Bretton Wood aveva un
avversario, l’americano Dexter White che era però alla sua altezza e niente
affatto reazionario (faceva naturalmente gli interessi americani). Il problema
è però politico: la solidarietà non è di casa in Europa.
Dobbiamo allora domandarci perché non sia di casa. In un articolo che il manifesto ha
badato bene di non pubblicare (e che un caro compagno economista ha definito un
pezzo magistrale di teoria economica) cerco di dimostrare con grande semplicità
perché.
Negli scorsi giorni c’è stato un coro per cui dalla crisi europea si
esce solo con “più Europa”. Nei più avveduti, la necessità che un’unione
politica completi l’unione monetaria muove dalla constatazione che quest’ultima
non costituisce un’”area valutaria ottimale”. Si argomenta così che un’unione
monetaria sostenibile implica un’unione politica, la sola che può garantire che
i paesi forti si facciano carico, attraverso un cospicuo bilancio federale, dei
paesi deboli. Mentre il mercantilismo tedesco è di ostacolo a tale unione, un
argomento più di fondo per dimostrare che un’Europa politica è pur possibile,
ma solo con uno Stato minimale, viene da un vecchio saggio di Von Hayek del 1939.
La sua argomentazione è che una federazione fra nazioni economicamente e
culturalmente disomogenee (si potrà poi ragionare sull’importanza relativa dei
due aggettivi) e che controlli un cospicuo ammontare di risorse, non potrà
durare a lungo. Essa si fratturerà presto sui criteri di distribuzione delle
risorse e/o del potere di allocarle. La fine dell’ex-Yugoslavia è l’esempio più
evidente. E basti guardare a quello che è accaduto in questi giorni. Che legittimazione
avrebbe avuto un’ipotetica autorità federale europea di andare contro la
volontà di molti paesi di non aiutare
la Grecia a sollevarsi? Non sarebbe neppure stato troppo democratico, a ben
vedere. Questo pone la parola fine al sogno dei più tenaci europeisti per cui
il problema dell’euro si risolverebbe completando l’unione monetaria con
l’unione politica.
L’astuto
Hayek precisa che politicamente sostenibile sarebbe invece uno Stato federale
“leggero”, con poco o nessun potere redistributivo e che si occupi solo di
regolamentare i mercati e poco altro. Esso sarebbe non solo possibile, ma
desiderabile. Per un liberista, naturalmente, non certo per un socialista. E
non è un caso che il Rapporto dei 5 Presidenti (Draghi, Junker ecc.) sulla
riforma politica dell’UE si rifaccia
fondamentalmente al modello Hayek: nessuna funzione fiscale perequativa a
Bruxelles, banca centrale monetarista e limitazione all’autonomia fiscale degli
Stati nazionali. E’ il modello di Europa ordo-liberista che, a quanto sembra, la
Germania si prepara a rilanciare nel dopo-Grecia.
In tal modo
si completerebbe il disegno hayekiano che svuota del tutto gli Stati nazionali
dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici nazionali del
loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia
si riduce così alle lotte per le libertà civili (il resto la fa il mercato). Si
completa così anche la globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al
conflitto delocalizzando, ma anche lo Stato si fa evanescente - di esso rimane
solo il sorriso beffardo del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente
l’indefesso internazionalista ci dirà che a fronte della globalizzazione di
Stato e capitale, anche il lavoro si deve internazionalizzare e creare fronti
sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca di esempi in questa direzione.
L’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e per il socialismo è invece
un classico della storia del movimento operaio.
UNA NUOVA WESTFALIA
L’inaudita
violenza tedesca e la conseguente drammatica chiusura dalla vicenda greca con
il rafforzamento di austerità e perdita di sovranità per quel popolo, impone
che la sinistra prenda coscienza delle ragioni profonde della crisi europea, e
smetta di attribuirla a una generica tecnocrazia neoliberista. Vi sono ragioni
materiali per cui questa è l’unica Europa possibile ed è quella che le élite
desiderano, avvantaggiandosi anche dell’ingenuo europeismo della sinistra. Più
che di una nuova Ventotene, l’Europa sembra aver bisogno di una nuova Vestfalia
che ripristini la sovranità democratica degli stati europei rilanciando una
cooperazione su basi più eque. Questo è il nuovo fronte di lotta per la
sinistra.
Io non credo
che questi temi possano essere lasciati a una destra cialtrona. Purtroppo gran
parte della sinistra – naturalmente non considero il PD qualcosa di sinistra –
vive ancora l’illusione europeista. “Devo vendere una speranza”, dunque non la
realtà, mi diceva nel 2011 Vendola in un aneddoto reso popolare da Alberto
Bagnai nel suo primo libro. Mi domando dove mai potremo andare se, con
coraggio, non mettiamo politicamente in un angolo questa gente, anche
semplicemente dicendolo loro “ma che cazzo dici” quando emettono fumo. Mi
domando se non abbiamo più bisogno di un Bagnai che di alcuni dinosauri presenti
alla manifestazione di Fassina, di cui davvero non sappiamo che farcene.
Chiudo con tre
punti.
Dalle
testimonianze di questi giorni sappiamo che, come ci si poteva attendere,
Syriza ha pensato al piano B, ma senza la necessaria convinzione e comunque spaventata
dalle conseguenze anche in seguito (i) al timore di non avere le competenze
tecniche per gestirla, e (ii) dal non aver ricevuto rassicurazioni adeguate da
Russia e Cina (che anzi avrebbero sollecitato la Grecia a rimanere nell’euro).[4]
Ci si può domandare, tuttavia, perché la Grecia non abbia mai voluto vedere le
carte con Schauble circa un’uscita concordata.
Io credo che
le difficoltà tecniche dell’uscita non ci devono irretire.
Non dobbiamo farci
ingabbiare dal dilemma euro sì/euro no, ma porre il problema politico
dell’insostenibilità democratica e sociale dell’Europa. Se l’euro cade sarà per
una sua crisi politica, e questo aiuta perché a fronte di una crisi politica è
più probabile che il consesso internazionale cerchi soluzioni politiche consensuali.
PODEMOS?
Si è detto
che la lezione alla Grecia è un avvertimento a Podemos e ad altri che osassero
sfidare l’Europa. Podemos ha in un certo senso preso le distanze dalla vicenda
Greca affermando che la situazione spagnola è diversa da quella greca. Pur con
un debito estero enorme (che è quello che conta), la Spagna si finanzierebbe
infatti nei mercati a tassi accettabili, e l’unico debito con l’Europa è il
prestito di 50 miliardi ottenuto nel 2012 per ricapitalizzare le banche (Podemos
chiede che lo ripaghino le banche medesime). Podemos basa la propria proposta
di politica economica sull’assunto che prelievo fiscale e spesa pubblica sono
bassi relativamente al Pil rispetto alla media europea. Ciò permetterebbe di
applicare un famoso teorema keynesiano detto del “bilancio in pareggio” per cui
se si aumenta l’imposizione fiscale e la spesa pubblica di X - diciamo 50
miliardi-, il Pil anche aumenta di 50 miliardi, ottenendo così una espansione con
bilancio in pareggio. Tutto bene? No. Podemos sembra trascurare che
un’espansione in un paese solo è impossibile in quanto peggiorerebbe i conti
esteri (e la Spagna ha già un enorme debito estero).
Mai a sinistra si deve
dimenticare l’esperienza di Mitterand del 1981 quando andò al governo con
obiettivi keynesiani e si trovò in pochi mesi con un grande disavanzo corrente
a favore, beh indovinate di quale paese. La Francia rapidamente abbandonò
quelle politiche e si allineò al rigore tedesco divenendo da allora ancella
della Germania.
Quali
alternative si hanno? Una è l’uscita dall’euro e potersi affidare alla
flessibilità del cambio - ma attenzione, l’enorme debito estero spagnolo è in
euro, e nelle nuova peseta svalutata aumenterebbe di valore.[5]
L’alternativa è il controllo delle importazioni. Si dovrebbe esplorare se nei
meandri dei trattati europei v’è spazio per misure emergenziali di questo tipo
(ma uno scontro con l’Europa è probabile).
Infine
voglio accennare a ciò che colpisce confrontando Grecia, Spagna e Italia: il
protagonismo dei giovani. Nei giorni che ho avuto la fortuna di trascorrere ad
Atene, o entrando nella sede di Podemos a Madrid, mi ha colpito che il 90% di
chi è impegnato è giovane.[6]
Per costoro, come mi ha suggerito un colto spagnolo (Manuel Monereo), la
questione esistenziale e politica hanno finito per coincidere.
Io credo che uno
dei danni della “sinistra” nostrale, sognatrice e poetica, sia stato di non
aver guidato ragazzi e ragazze verso la consapevolezza del loro problema esistenziale
principale, quello del lavoro, distraendoli su altri temi (per l’amor del cielo
importanti) ma fuorvianti, dalla TAV, al MOUS, TTIP e quant’altro, o quello
dell’immigrazione (dimenticando che chi non aiuta prima sé stesso aiuta poco e
male gli altri). D’altronde il problema dell’occupazione è difficile, e se non
si mette in discussione il contesto europeo non si ha nulla da dire.
L’europeismo di certa “sinistra” appare in definitiva una superficiale e
deleteria fuga dalle proprie responsabilità storiche e politiche.
NOTE
[1] Il manifesto riporta stamane (16 7 2015) un’intervista a James Galbraight in cui (apriti cielo) costui sostiene che la Grecia avrebbe dovuto abbandonare l’euro. Non mi sembra che nel passato Galbraight si sia mai espresso in questa direzione. Un articolo di Marco Bersani sembra promettere una qualche autocritica sull’Europa per poi chiudere in maniera farneticante: “Non si tratta banalmente di rispolverare il tema euro/no euro (a mio avviso un’arma di distrazione di massa), né di dimenticare l’orizzonte europeo come dimensione politica, sociale e culturale: si tratta di dire a chiare lettere che, proprio per conquistare quella dimensione, questa Unione europea va combattuta alle radici, aprendo una battaglia diretta per il ripudio del trattato di Maastricht e successivi, per l’abolizione del debito e per un nuovo processo costituente europeo, partendo non più dall’«Europa dei popoli» ma dai «popoli dell’Europa». Una battaglia che non può avere scorciatoie sovraniste e/o nazionaliste, ma che deve investire l’intera dimensione continentale, prefiggendosi da subito l’obiettivo di definanziarizzare la società, rivendicando, contro chi parla di pareggio di bilancio finanziario, la priorità del pareggio di bilancio sociale e ambientale, contro chi parla di deficit della bilancia commerciale, la priorità della chiusura del deficit di diritti in cui vive la maggioranza delle popolazioni. E pretendendo da subito democrazia. A partire dal popolo greco, cui credo vada ridata subito la parola sul proprio futuro.” Parole in libertà.
[2] Così Varoufakis: “ It’s not that it didn’t go down well – it’s that there was point blank refusal to engage in economic arguments. Point blank. … You put forward an argument that you’ve really worked on – to make sure it’s logically coherent – and you’re just faced with blank stares. It is as if you haven’t spoken. What you say is independent of what they say. You might as well have sung the Swedish national anthem – you’d have got the same reply. And that’s startling, for somebody who’s used to academic debate. … The other side always engages. Well there was no engagement at all. It was not even annoyance, it was as if one had not spoken.” http://www.newstatesman.com/world-affairs/2015/07/yanis-varoufakis-full-transcript-our-battle-save-greece”. Sul ministro delle finanze Tsakalotos (che sostituì Varoufakis il lunedì seguente al referendum) v. l’importante intervista a Stathis Kouvelakis https://www.jacobinmag.com/2015/07/tsipras-varoufakis-kouvelakis-syriza-euro-debt/
[3] Ecco alcuni passi:
“actually Tsipras and the leadership has been following very consistently the same line from the start. They thought that by combining a “realistic” approach in the negotiations and a certain rhetorical firmness, they would get concessions from the Europeans. ...
And then you have the other approach, that of Tsipras, which was indeed rooted in the ideology of left-Europeanism. I think the best illustration of that is Euclid Tsakalotos, a person who considers himself a staunch Marxist, someone who comes from the Eurocommunist tradition, we were in the same organization for years. The most typical statement from him which captures both his ideology and the outlook given to the government by the presence of all those academics is what he said in an interview to the French website Mediapart in April.
When asked what had struck him most since he was in government, he replied by saying that he was an academic, his job was to teach economics at a university, so when he went to Brussels he had prepared himself very seriously, he had prepared a whole set of arguments and was expecting exactly elaborated counter-arguments to be presented. But, instead of that, he just had to face people who were endlessly reciting rules and procedures and so on.
Tsakalotos said he was very disappointed by the low level of the discussion. In the interview to the New Statesman, Varoufakis says very similar things about his own experience, although his style is clearly more confrontational than Tsakalotos’s.
From this it is quite clear that these people were expecting the confrontation with the EU to happen along the lines of an academic conference when you go with a nice paper and you expect a kind of nice counter-paper to be presented. (continua pag. succ.)
I think this is telling about what the Left is about today. The Left is filled with lots of people who are well-meaning, but who are totally impotent on the field of real politics. But it’s also telling about the kind of mental devastation wrought by the almost religious belief in Europeanism. This meant that, until the very end, those people believed that they could get something from the troika, they thought that between “partners” they would find some sort of compromise, that they shared some core values like respect for the democratic mandate, or the possibility of a rational discussion based on economic arguments. ...
So it is true that there was a lack of elementary realism and that this was directly connected with the major problem that the Left has to face today — namely, our own impotence.”
https://www.jacobinmag.com/2015/07/tsipras-varoufakis-kouvelakis-syriza-euro-debt/
[4] Nell’intervista che seguì la capitolazine del 12 luglio Tsipras dichiara: “I asked a study about the impact of Grexit when I saw the impact I rejected [the idea] Tsipras”, e secondo la fonte: “He also stressed that Greece had never had alternative funding opportunities outside of Europe”. (http://www.keeptalkinggreece.com/2015/07/14/tsipras-i-cannot-say-with-certainty-we-avoided-grexit-until-bailout-finalized/). Dalla traduzione simultanea si evince che nell’intervista Tsipras ci tiene molto ad affernare che la Grecia non ha mai avuto un piano B, e che l’unico piano B era quello di Schauble (http://webtv.ert.gr/katigories/enimerosi/14iol2015-interview-of-greek-prime-minister-on-ert/ minuto 37 circa). Così anche secondo un’altra fonte: . http://www.euractiv.com/sections/euro-finance/tsipras-clashes-syrizas-drachma-supporters-316320.
Varoufakis in un editoriale per il Guardian che segue le sue dimissioni dichiara che un’uscita era impossibile: “In occupied Iraq, the introduction of new paper money took almost a year, 20 or so Boeing 747s, the mobilisation of the US military’s might, three printing firms and hundreds of trucks. In the absence of such support, Grexit would be the equivalent of announcing a large devaluation more than 18 months in advance: a recipe for liquidating all Greek capital stock and transferring it abroad by any means available.” (http://www.theguardian.com/commentisfree/2015/jul/10/germany-greek-pain-debt-relief-grexit).
In una coeva lunga intervista dichiara che, invece, egli aveva proposto un piano last minute ma che fu messo in minoranza in un comitato ristretto:
“...have preparations been made? YV: The answer is yes and no. We had a small group, a ‘war cabinet’ within the ministry, of about five people that were doing this: so we worked out in theory, on paper, everything that had to be done [to prepare for/in the event of a Grexit]. But it’s one thing to do that at the level of 4-5 people, it’s quite another to prepare the country for it. To prepare the country an executive decision had to be taken, and that decision was never taken.
HL: And in the past week, was that a decision you felt you were leaning towards [preparing for Grexit]? YV: My view was, we should be very careful not to activate it. I didn’t want this to become a self-fulfilling prophecy. I didn’t want this to be like Nietzsche’s famous dictum that if you stare into the abyss long enough, the abyss will stare back at you. But I also believed that at the moment the Eurogroup shut out banks down, we should energise this process.
HL: Right. So there were two options as far as I can see – an immediate Grexit, or printing IOUs and taking bank control of the Bank of Greece [potentially but not necessarily precipitating a Grexit]? YV: Sure, sure. I never believed we should go straight to a new currency. My view was – and I put this to the government – that if they dared shut our banks down, which I considered to be an aggressive move of incredible potency, we should respond aggressively but without crossing the point of no return.
We should issue our own IOUs, or even at least announce that we’re going to issue our own euro-denominated liquidity; we should haircut the Greek 2012 bonds that the ECB held, or announce we were going to do it; and we should take control of the Bank of Greece. This was the triptych, the three things, which I thought we should respond with if the ECB shut down our banks.
… I was warning the Cabinet this was going to happen [the ECB shut our banks] for a month, in order to drag us into a humiliating agreement. When it happened – and many of my colleagues couldn’t believe it happened – my recommendation for responding “energetically”, let’s say, was voted down.” http://www.newstatesman.com/world-affairs/2015/07/yanis-varoufakis-full-transcript-our-battle-save-greece”
Secondo la testimonianza di Kouvelakis (cit.), il ministro Tsakalotos non avrebbe mai creduto, invece, all’uscita:“Tsakalotos said that exit would be an absolute catastrophe and that Europe would relive the 1930s with the return of competition between national currencies and the rise of various nationalisms and fascism. ...This is the meaning of the kind of denunciations of Grexit as a kind of return to the 1930s or Grexit as a kind of apocalypse. This is the symptom of the leadership’s own entrapment in the ideology of left-Europeanism.”
[5] Per confronto, il debito estero italiano è assolutamente minore, circa 1/3 del Pil a fronte del quasi 100% del debito spagnolo.
[6] Di nuovo Kouvelakis (cit.): “The second thing that is equally impressive is the radicalization of the youth. This is the first moment since the crisis that the youth in its mass actually made a unified statement. Eighty-five percent of those from eighteen to twenty-four voted “no,” which shows that this generation, which has been completely sacrificed by the memorandum, is very aware of the future ahead of it and has a clear attitude with regards to Europe. The French daily Le Monde had this article asking how come these young people, who had grown up with the euro, Erasmus programs, and European Union are turning against it, and the response from all those interviewed was simple: we have seen what Europe is about, and Europe is about austerity, Europe is about blackmailing democratic governments, Europe is about destroying our future.”
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Il keynesismo in un paese solo
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