[ 24 luglio ]
Ebbi modo di polemizzare con Mimmo Porcaro nel settembre dell'anno scorso, quando criticavo come chimerica, quindi sbagliata, l'idea che fosse possibile e necessario un partito unico anti-euro, al di là della cosiddetta dicotomia destra-sinistra. Porcaro sostiene in questo suo ottimo contributo la necessità di un Comitato di Liberazione Nazionale, come vasta alleanza di forze sovraniste — e siamo d'accordo. Conclude tuttavia chiedendosi se questo CLN non possa costituirsi «da subito come partito unitario, pur se inevitabilmente attraversato da correnti». Per quanto in modo più sfumato e meno perenterio, Porcaro ci ripropone la tesi del "partito unico dei sovranisti". Torneremo sulla questione. (M.P)
In buona misura, concordo. Porre, come fanno i tre autori, il nesso sovranità/democrazia/costituzione depotenzia subito la polemica antisovranista che vede nella sovranità, appunto, un moloch che spadroneggia dentro e fuori i confini dello stato: la sovranità invece, nella proposta che stiamo discutendo, non è il fondamento d’una politica assoluta bensì, più sobriamente, è una delle condizioni imprescindibili dell’esistenza della democrazia. Se sovranità e costituzione sono state a lungo antitetiche (perché la seconda nasceva proprio per limitare le pretese della prima), oggi ci è chiaro che senza un minimo di sovranità nazionale nessuna costituzione ha senso: gli sfregi imposti dall’Ue alla nostra Carta fondamentale parlano da soli. So che la difesa ed il ripristino della Costituzione appaiono a molti un obiettivo arretrato e forse inutile. In fondo l’esistenza della Costituzione non ha impedito lo scempio attuale; inoltre essa andrebbe certamente riscritta togliendo ai partiti il monopolio dell’azione politica, o tutelando meglio di prima l’esistenza della proprietà pubblica e di altre forme non privatistiche di proprietà. Eppure, alcuni aspetti fondamentali della logica costituzionale coincidono con quanto è oggi necessario all’Italia per riprendere il cammino della democrazia, e ai lavoratori per riconquistare autonomia politica: in particolare l’idea di uno stato fondato su un compromesso tra classi distinte (e libere di organizzarsi autonomamente), unite da una prospettiva di piena occupazione nel quadro di un’economia mista. Un compromesso aperto a diversi sviluppi dinamici in cui si confrontavano – ed oggi possono di nuovo confrontarsi – un’ipotesi di capitalismo democratico ed una di socialismo costituzionale. Negli anni ’70 tutto ciò ci parve arretrato, e forse lo era. Oggi, visto il volto ferocemente anticostituzionale del liberismo, una qualche riedizione di quel compromesso mi pare l’unico modo per ridare dignità al lavoro ed al paese, gestire la non facile liberazione dal giogo eurista e riaprire, addirittura, una prospettiva socialista. E per costruire una forma di identificazione collettiva che non si basi, tragicamente su sul sangue e sul suolo, ma sul riferimento ad una civiltà politica.
Per rendere efficace una simile ipotesi è però assolutamente necessario rendersi conto delle sue difficoltà. Io mi limito ad indicarne due, quelle che reputo più importanti, o meno considerate. Prima di tutto è assai arduo costruire l’alleanza sociale che può dare sostanza a una tale proposta politica. Nessuna delle classi più importanti del nostro paese sembra infatti oggi in grado di guardare oltre i propri interessi immediati (o, per dirla con Gramsci, di elaborare in forma egemonica il proprio particolare punto di vista), né i partiti che in qualche modo le rappresentano (privi ormai di qualunque autorità morale e quindi costretti a riguadagnarsi ogni giorno la fiducia degli elettori blandendoli in tutti i modi) sembrano porsi questo problema. Si può pensare che la riconquista del controllo della banca centrale da parte del governo e del parlamento, e le conseguenti politiche espansive, ridurranno la conflittualità “in seno al popolo”, ma questo non risolverà le difficoltà dell’alleanza. Difficoltà che ruoteranno da un lato attorno all’irrisolta questione fiscale (dove si dovrà trovare un punto d’incontro tra le sacrosante esigenze di equità del lavoro dipendente e la realtà non aggirabile dell’evasione “di sopravvivenza”) e dall’altro attorno alla questione dell’ammodernamento del sistema produttivo e dello stato, un ammodernamento che richiederà un’oculata redistribuzione delle risorse e quindi inevitabili conflitti. Ci vorrà molta testa, insomma, per pensare ad un programma realmente unitario, realmente “nazionale e popolare”, per superare decenni di diffidenze, spesso motivate, tra lavoratori dipendenti ed autonomi, tra organizzati e disorganizzati, qualificati e no, italiani e no. Questo sarà un nodo davvero importante, tanto che la costruzione del gruppo dirigente di un progetto neo-costituzionale dovrà già essere, in sedicesimo, la realizzazione di un’alleanza popolare tra esponenti d’avanguardia di diverse classi e frazioni di classe.
Una forte alleanza popolare è necessaria sia per sconfiggere gli avversari interni sia per gestire le conseguenza della rottura delle alleanze internazionali che segnano da più di 70 anni il destino del nostro paese, rottura inevitabile in caso di successo dell’ipotesi che qui discutiamo. Il capitalismo nordatlantico, di cui siamo alleati subalterni, non sopporta infatti la sovranità nazionale (ad eccezione di quella statunitense e, in subordine, tedesca e francese), né sopporta le costituzioni. La sostituzione della democrazia (che peraltro, nella sua forma data aveva già registrato gravi debolezze) con una governance opaca nella quale vincono i paesi e i capitali più forti, sostituzione iniziata con l’Ue, sarà presto perfezionata dalla TTIP, ed a quel punto ogni autonoma politica nazionale diverrebbe impossibile finanche nell’ipotesi di un’uscita dall’euro che non prevedesse, in aggiunta, un superamento del rapporto subalterno con gli Usa. Non è quindi possibile riscattare il paese e difendere i suoi lavoratori se non ci si distacca dal polo capitalistico nordatlantico che è la realizzazione geopolitica del liberismo. Non è possibile farlo se non si stabilisce una forte relazione coi paesi dell’area mediterranea, se non si apre – senza servilismi – ai Brics e se non si rilancia, sulle ceneri dell’Ue, l’idea di un’Europa unita prima di tutto da un progetto politico di equilibrio fra i blocchi e poi da un progetto economico alternativo a quello presente. Insomma: riverire il capitalismo nordatlantico non ci darà più, in cambio, né qualcosa di simile al “boom” né una riedizione dello sviluppo drogato degli anni ’80, ma soltanto il continuo regresso dell’apparato industriale del paese, e contemporaneamente, del suo ruolo nel Mediterraneo. Chi vuole questo può acconciarsi a vivacchiare, se il succedersi delle crisi glielo consentirà. Chi non lo vuole deve sapere che il mutamento della collocazione geopolitica implica anche una mutazione profonda nelle abitudini mentali e nella cultura politica italiana, tale da consentirci di gestire, con nettezza strategica e duttilità tattica, uno scontro con gli amici di ieri. Siamo consapevoli di tutto ciò? Questo è il problema numero uno, perché è qui che si situa veramente la questione della forza e del potere, è qui che bisogna riuscire a vincere e ad evitare conseguenza “greche” (se non peggio) per tutti noi. E proprio per questo, e quindi non solo per motivi economici, è necessario aggiungere all’alleanza sociale interna al paese l’alleanza internazionale nel Mediterraneo ed oltre. Questo è il problema numero uno, ripeto: l’incrollabile e folle europeismo della sinistra è spiegabile in gran parte proprio con la sorda consapevolezza delle conseguenze e delle implicazioni geopolitiche di una rottura con l’Ue, conseguenze ed implicazioni da cui si rifugge senza capire che una sinistra vera può essere ricostruita solo all’interno di una tale rottura. Una futura, più dignitosa forza politica non potrebbe certo fondarsi su una analoga rimozione.
Concludo introducendo un ultimo punto. Lo scritto dei nostri interlocutori parla espressamente di CLN. Il CLN del passato fu convergenza di forze politiche preesistenti; quello del futuro sarà analogo, oppure l’assenza di precedenti (e forti) soggetti politici farà sì che esso si costituisca da subito come partito unitario, pur se inevitabilmente attraversato da correnti? Il problema non è di poco conto, e bisogna pensarci da subito…ma se potessimo già discutere concretamente di questo saremmo già ad un punto molto avanzato. E purtroppo non ci siamo ancora.
* Fonte: A/simmetrie
«I fatti di Grecia, di cui converrà parlare meglio altrove, lasciano intatte solo le opinioni degli europeisti dogmatici, ma per il resto mutano lo scenario, accelerano la possibile crisi politica dell’Ue e fanno da spartiacque per tutti. D’ora in poi qualunque forza politica che non si proponga (e proprio come “Piano A”) l’obiettivo strategico del superamento dell’Unione e dell’euro sarà, e senza più scusanti, una forza conservatrice quando non reazionaria: in ogni caso sarà una forza irresponsabile. E d’ora in poi chiunque abbia le idee chiare sull’Unione e sull’euro e ciononostante non si ponga il problema della costruzione di una politica altrettanto chiara, mostrerà di non essere all’altezza delle proprie migliori intuizioni.
Non corre questo rischio lo scritto di Magoni, Dal Monte e Boghetta Il male della banalità: la sinistra nell’epoca del sogno europeo, che si caratterizza proprio per la chiarezza e la consequenzialità della proposta politica: di fronte al nesso inscindibile tra neoliberismo e perdita della sovranità nazionale (così funziona l’Unione europea, almeno nei confronti dei paesi meno forti) si rivendica di fatto un’ alleanza sociale e politica per il ripristino della sovranità, ovvero della democrazia e della Costituzione: un’alleanza assai ampia tra classi diverse e tra orientamenti politici abitualmente divergenti finalizzata al ripristino della democrazia e di una politica economica di piena occupazione.
In buona misura, concordo. Porre, come fanno i tre autori, il nesso sovranità/democrazia/costituzione depotenzia subito la polemica antisovranista che vede nella sovranità, appunto, un moloch che spadroneggia dentro e fuori i confini dello stato: la sovranità invece, nella proposta che stiamo discutendo, non è il fondamento d’una politica assoluta bensì, più sobriamente, è una delle condizioni imprescindibili dell’esistenza della democrazia. Se sovranità e costituzione sono state a lungo antitetiche (perché la seconda nasceva proprio per limitare le pretese della prima), oggi ci è chiaro che senza un minimo di sovranità nazionale nessuna costituzione ha senso: gli sfregi imposti dall’Ue alla nostra Carta fondamentale parlano da soli. So che la difesa ed il ripristino della Costituzione appaiono a molti un obiettivo arretrato e forse inutile. In fondo l’esistenza della Costituzione non ha impedito lo scempio attuale; inoltre essa andrebbe certamente riscritta togliendo ai partiti il monopolio dell’azione politica, o tutelando meglio di prima l’esistenza della proprietà pubblica e di altre forme non privatistiche di proprietà. Eppure, alcuni aspetti fondamentali della logica costituzionale coincidono con quanto è oggi necessario all’Italia per riprendere il cammino della democrazia, e ai lavoratori per riconquistare autonomia politica: in particolare l’idea di uno stato fondato su un compromesso tra classi distinte (e libere di organizzarsi autonomamente), unite da una prospettiva di piena occupazione nel quadro di un’economia mista. Un compromesso aperto a diversi sviluppi dinamici in cui si confrontavano – ed oggi possono di nuovo confrontarsi – un’ipotesi di capitalismo democratico ed una di socialismo costituzionale. Negli anni ’70 tutto ciò ci parve arretrato, e forse lo era. Oggi, visto il volto ferocemente anticostituzionale del liberismo, una qualche riedizione di quel compromesso mi pare l’unico modo per ridare dignità al lavoro ed al paese, gestire la non facile liberazione dal giogo eurista e riaprire, addirittura, una prospettiva socialista. E per costruire una forma di identificazione collettiva che non si basi, tragicamente su sul sangue e sul suolo, ma sul riferimento ad una civiltà politica.
Per rendere efficace una simile ipotesi è però assolutamente necessario rendersi conto delle sue difficoltà. Io mi limito ad indicarne due, quelle che reputo più importanti, o meno considerate. Prima di tutto è assai arduo costruire l’alleanza sociale che può dare sostanza a una tale proposta politica. Nessuna delle classi più importanti del nostro paese sembra infatti oggi in grado di guardare oltre i propri interessi immediati (o, per dirla con Gramsci, di elaborare in forma egemonica il proprio particolare punto di vista), né i partiti che in qualche modo le rappresentano (privi ormai di qualunque autorità morale e quindi costretti a riguadagnarsi ogni giorno la fiducia degli elettori blandendoli in tutti i modi) sembrano porsi questo problema. Si può pensare che la riconquista del controllo della banca centrale da parte del governo e del parlamento, e le conseguenti politiche espansive, ridurranno la conflittualità “in seno al popolo”, ma questo non risolverà le difficoltà dell’alleanza. Difficoltà che ruoteranno da un lato attorno all’irrisolta questione fiscale (dove si dovrà trovare un punto d’incontro tra le sacrosante esigenze di equità del lavoro dipendente e la realtà non aggirabile dell’evasione “di sopravvivenza”) e dall’altro attorno alla questione dell’ammodernamento del sistema produttivo e dello stato, un ammodernamento che richiederà un’oculata redistribuzione delle risorse e quindi inevitabili conflitti. Ci vorrà molta testa, insomma, per pensare ad un programma realmente unitario, realmente “nazionale e popolare”, per superare decenni di diffidenze, spesso motivate, tra lavoratori dipendenti ed autonomi, tra organizzati e disorganizzati, qualificati e no, italiani e no. Questo sarà un nodo davvero importante, tanto che la costruzione del gruppo dirigente di un progetto neo-costituzionale dovrà già essere, in sedicesimo, la realizzazione di un’alleanza popolare tra esponenti d’avanguardia di diverse classi e frazioni di classe.
Una forte alleanza popolare è necessaria sia per sconfiggere gli avversari interni sia per gestire le conseguenza della rottura delle alleanze internazionali che segnano da più di 70 anni il destino del nostro paese, rottura inevitabile in caso di successo dell’ipotesi che qui discutiamo. Il capitalismo nordatlantico, di cui siamo alleati subalterni, non sopporta infatti la sovranità nazionale (ad eccezione di quella statunitense e, in subordine, tedesca e francese), né sopporta le costituzioni. La sostituzione della democrazia (che peraltro, nella sua forma data aveva già registrato gravi debolezze) con una governance opaca nella quale vincono i paesi e i capitali più forti, sostituzione iniziata con l’Ue, sarà presto perfezionata dalla TTIP, ed a quel punto ogni autonoma politica nazionale diverrebbe impossibile finanche nell’ipotesi di un’uscita dall’euro che non prevedesse, in aggiunta, un superamento del rapporto subalterno con gli Usa. Non è quindi possibile riscattare il paese e difendere i suoi lavoratori se non ci si distacca dal polo capitalistico nordatlantico che è la realizzazione geopolitica del liberismo. Non è possibile farlo se non si stabilisce una forte relazione coi paesi dell’area mediterranea, se non si apre – senza servilismi – ai Brics e se non si rilancia, sulle ceneri dell’Ue, l’idea di un’Europa unita prima di tutto da un progetto politico di equilibrio fra i blocchi e poi da un progetto economico alternativo a quello presente. Insomma: riverire il capitalismo nordatlantico non ci darà più, in cambio, né qualcosa di simile al “boom” né una riedizione dello sviluppo drogato degli anni ’80, ma soltanto il continuo regresso dell’apparato industriale del paese, e contemporaneamente, del suo ruolo nel Mediterraneo. Chi vuole questo può acconciarsi a vivacchiare, se il succedersi delle crisi glielo consentirà. Chi non lo vuole deve sapere che il mutamento della collocazione geopolitica implica anche una mutazione profonda nelle abitudini mentali e nella cultura politica italiana, tale da consentirci di gestire, con nettezza strategica e duttilità tattica, uno scontro con gli amici di ieri. Siamo consapevoli di tutto ciò? Questo è il problema numero uno, perché è qui che si situa veramente la questione della forza e del potere, è qui che bisogna riuscire a vincere e ad evitare conseguenza “greche” (se non peggio) per tutti noi. E proprio per questo, e quindi non solo per motivi economici, è necessario aggiungere all’alleanza sociale interna al paese l’alleanza internazionale nel Mediterraneo ed oltre. Questo è il problema numero uno, ripeto: l’incrollabile e folle europeismo della sinistra è spiegabile in gran parte proprio con la sorda consapevolezza delle conseguenze e delle implicazioni geopolitiche di una rottura con l’Ue, conseguenze ed implicazioni da cui si rifugge senza capire che una sinistra vera può essere ricostruita solo all’interno di una tale rottura. Una futura, più dignitosa forza politica non potrebbe certo fondarsi su una analoga rimozione.
Concludo introducendo un ultimo punto. Lo scritto dei nostri interlocutori parla espressamente di CLN. Il CLN del passato fu convergenza di forze politiche preesistenti; quello del futuro sarà analogo, oppure l’assenza di precedenti (e forti) soggetti politici farà sì che esso si costituisca da subito come partito unitario, pur se inevitabilmente attraversato da correnti? Il problema non è di poco conto, e bisogna pensarci da subito…ma se potessimo già discutere concretamente di questo saremmo già ad un punto molto avanzato. E purtroppo non ci siamo ancora.
* Fonte: A/simmetrie
1 commento:
Come fa un partito, che rappresenta una parte, a essere unitario?
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