17 ottobre. Rifondazione Comunista si appresta a celebrare il suo congresso. Per la prima volta un'area del partito è venuta allo scoperto chiedendo proponendo apertamente l'uscita dall'eurozona. Piobbichi e Boghetta, membri del Comitato politico nazionale e firmatari degli emendamenti ce ne spiegano le ragioni.
«Al CPN che ha varato i documenti finali del congresso sono stati presentati, a nome di alcuni compagne e compagni, due emendamenti aventi l'obiettivo di porre alla discussione il tema dell'euro. Alcuni hanno sottoscritto convinti, altri affinché il partito affronti comunque una questione che è all'ordine del giorno in tutta Europa. Il primo emendamento illustra gli effetti devastanti che la moneta unica ha sull'Europa, l'Italia, i paesi dell'Europa del sud, i lavoratori. Il secondo propone il tema dell'uscita a sinistra dall'euro con tutte le problematiche che ne seguono. Proposta, questa, alternativa alla centralità contenuta nel documento sulla disobbedienza ai Trattati. Proposta, quest'ultima, che in varie forme accomuna anche gli altri documenti.
L'obiettivo è che il Partito faccia sua questa proposta, nuova e dirompente.
Questo approccio acquista ancor maggior rilievo dopo la vittoria della Merkel che di fatto “stabilizza” il processo di ristrutturazione capitalista e che in Italia si consolida con la tenuta del governo Letta-Alfano. In questo quadro si assiste oggi nel nostro paese ad uno scontro aperto tra chi difende la Costituzione nata dalla Resistenza e chi vuole sottometterla alla Lex Mercatoria che impone l'Europa. Con una chiave di lettura di questo tipo acquista concretezza e respiro anche la campagna per la difesa della Costituzione che si avvia con la manifestazione del 12 ottobre. La problematica contenuta negli emendamenti è in discussione anche in alcune forze che sostengono la manifestazione del 18 e 19 ottobre.
E’ importante capire che gli emendamenti non si limitano a dire “no euro”. Essi piuttosto prendono atto della mutata situazione internazionale (crisi della globalizzazione e del ruolo dei Brics) già ben indicata nel primo documento, e la vedono come occasione per uscire dalla subordinazione atlantica del nostro Paese, subordinazione che oggi si esprime anche attraverso l’euro e che è la base granitica dell’impossibilità di ogni politica favorevole ai lavoratori. Essi quindi cercano di unire questione di classe e questione nazionale e di allargare così lo spazio di un’azione di sinistra fondato sulla rottura dell’alleanza tra lavoro organizzato e grande capitale “europeista”.
Non tenendo conto di questa dimensione dei problemi, tutti e tre i documenti congressuali rischiano di ripetere formule politiche già sperimentate e già fallite che: non parlano all'esterno, non danno profilo e identità all'interno. Rimarremmo in un vuoto di proposta politica.
Senza un programma chiaro, senza avversari chiari, non solo le nostre parole d'ordine saranno recepite come inefficaci, ma rischiano di essere incomprensibili al vissuto quotidiano di milioni di persone che vivono il morso della crisi.
Senza una proposta forte non si costruiscono relazioni. Ed il primo obiettivo non è il consenso ma suscitare interesse, intrigare, rendere la nostra discussione utile non solo a noi ma a tutte le forze che si muovono nella contestazione ai processi di austerità.
Questi emendamenti, dunque, rappresentano un nuovo e diverso approccio analitico, una nuova proposta finalizzata a ricostruire uno spazio politico nel quale ricomporre un nuovo blocco storico.
Per loro natura gli emendamenti sono sintetici rispetto a una materia di tale vastità ma obbligano ad approfondire la discussione.
La proposta, infatti, apre nuovi e diversi filoni di analisi, di ricerca ed elaborazione:
- il blocco sociale e storico da aggregare per un uscita a sinistra dall'euro;
- l'uscita dalla crisi verso il Socialismo del XXI secolo, questione che altrimenti rimane una vaga quando inefficace ed inutile declamazione;
- l'approfondimento del tema di quale Europa e/o spazio euro-Mediterraneo;
- il soggetto politico unitario da costruire in questo percorso storico ed il conseguente ruolo dei comunisti vien posto con i piedi per terra, uscendo dalla sommatoria di ceti e temi.
La necessità della rottura con l'Euro che proponiamo in queste tesi è una proposta politica che in varie maniere ed in vari modi attraversa oggi l'intero campo della Sinistra Europea, assumerla come primo punto di un programma politico di fase può essere l'elemento centrale per rilanciare l'azione del movimento che abolisce lo stato di cose esistenti.
* membri del Cpn di Rifondazione Comunista
EMENDAMENTI AL DOCUMENTO 1 “RICOSTRUIRE LA SINISTRA”
1. Al paragrafo 4, “L’Europa da cambiare”, dopo la riga 20 “…e di quali sono i suoi meccanismi reali di governo.”, aggiungere:
“L’euro è la più completa e la più perniciosa espressione del carattere neoliberista ed antipopolare dell’Unione europea. Infatti, in quanto moneta eguale per economie notevolmente diseguali, ed in quanto moneta votata ad una granitica stabilità e contraria ad ogni fisiologica svalutazione, esso riproduce ed approfondisce automaticamente gli squilibri commerciali fra i diversi Paesi, e favorisce l’indebitamento degli uni e l’arricchimento degli altri. A prescindere dalle politiche di volta in volta adottate dall’Unione, il meccanismo dell’euro impone quindi, con la forza apparentemente oggettiva e naturale delle leggi economiche, la subordinazione dei Paesi del sud e la centralizzazione dei capitali nel centro-nord del continente; inoltre, non consentendo la svalutazione del denaro, esso impone la continua svalutazione del salario, e la connessa restrizione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. Per tali vie le divaricazioni territoriali e le divaricazioni di classe si alimentano a vicenda: un mercato del lavoro duale (oltre a minare alla radice la possibilità di una lotta unitaria dei lavoratori europei) deprime in particolare i salari del sud; a sua volta la depressione dei salari aggiunge il calo della domanda interna al deficit di esportazioni, e contribuisce all’arretramento dei Paesi meridionali, destinati, in tempi più o meno rapidi, ad un inevitabile declino.
Per tutti questi motivi ogni trasformazione delle politiche e degli stessi Trattati costitutivi dell’Unione che non elimini il sistema della moneta unica costruendo, nel rapporto tra aree economiche più omogenee, elementi significativi di sovranità monetaria e la possibilità di momentanee svalutazioni, è destinata a mostrarsi presto o tardi inefficace.
E’ certamente vero che l’euro non è la causa unica degli squilibri europei, e che esso è l’espressione dei rapporti sociali e delle relazioni fra Stati sulla cui base l’Unione europea si è fondata. Così come è vero che le difficoltà dell’economa italiana dipendono in gran parte dalle inefficienze del capitalismo privato, dalla precarizzazione del lavoro, dalla latenza di ogni serio intervento pubblico. Ma è altrettanto vero che, come insegna Marx, il denaro non è semplicemente l’espressione di determinati rapporti sociali, ma anche forma decisiva del funzionamento di questi stessi rapporti, cosicché se non si modificano forma e funzione del denaro, nemmeno i rapporti che lo sottendono possono essere realmente modificati. E se è vero che la sovranità monetaria e la svalutazione non risolvono, da sole, le difficoltà dei Paesi del sud e dei lavoratori, è altrettanto vero che, in un mondo in cui le svalutazioni competitive sono praticate ormai da tutte le economie (inclusa quella tedesca che grazie all’euro gode di una sorta di svalutazione strutturale permanente) esse sono condizione necessaria, pur se insufficiente, della ripresa economica e di ogni efficace politica industriale.”
Segue: “Il punto fondamentale di analisi che ne consegue…ecc.”
Boghetta Ugo
Arnaboldi Patrizia
Capelli Giovanna
Commodari Pino
Emprin Erminia
Greco Dino
Mantovani Ramon
Nicotra Alfio
Patta Nello
Piobbichi Francesco
Stufara Damiano
Sgherri Monica
2. Il paragrafo 5, “Disobbedire all’Unione Europea”, è integralmente sostituito dal seguente:
“5. Uscire a sinistra dall’euro.
Come abbiamo visto, sia dal punto di vista delle esigenze dei lavoratori che da quello delle esigenze generali del Paese, l’uscita dall’euro è inevitabile. E lo è ancor di più se si considera il fatto che, nella situazione attuale, nessuno dei gruppi dominanti del capitalismo europeo, ed in particolare di quello tedesco, mostra di voler abbandonare la linea del deflazionismo e del mercantilismo. L’emergere, altamente improbabile, di una tendenza riformista nel capitalismo tedesco, potrebbe peraltro verificarsi solo di fronte alla chiara percezione della scelta dell’uscita da parte dell’Italia e degli altri Paesi del sud. La semplice minaccia dell’uscita, quando è accompagnata – come oggi avviene – dalla persistente idea che l’euro sia comunque la scelta ottimale, e quando è presentata solo come extrema ratio, non può spaventare nessuno. Oppure, se presa sul serio, ci esporrebbe solo ai problemi derivanti dall’uscita (speculazione, fuga dei capitali, ecc.) senza consentirci di utilizzarne gli effetti positivi.
Soltanto la piena consapevolezza della necessità storica dell’uscita dall’euro, come passaggio necessario alla costruzione di un’autonomia nazionale e quindi di nuovi rapporti internazionali liberamente scelti, può consentirci di definire correttamente i passi intermedi e gli accorgimenti tattici eventualmente necessari al raggiungimento dell’obiettivo. Obiettivo che può essere efficacemente perseguito solo comprendendone tutte le implicazioni, tutte le conseguenze, tutte le possibili e diverse modalità di realizzazione. Dall’euro si può infatti uscire da destra o da sinistra.
L’uscita da destra consiste essenzialmente nel ricorso sistematico alla svalutazione come surrogato della crescita della domanda interna e dell’innovazione tecnologica. Comporta una significativa diminuzione dei salari, un’ulteriore svalorizzazione delle imprese italiane e quindi la prosecuzione della svendita del nostro patrimonio produttivo. Il tutto nel contesto di un’accentuata subordinazione agli Usa e al libero scambio (di cui la Transtlantic Trade and Investment Partnership è l’approdo finale): una subordinazione maggiore di quella già ampiamente consentita dalla stessa Unione europea. L’uscita a sinistra implica invece, oltre ad un uso oculato della svalutazione, un forte controllo dei movimenti del capitale, l’indicizzazione dei salari ed il controllo di alcuni prezzi, la nazionalizzazione delle banche, la ripresa di un intervento pubblico e di una politica industriale sottoposti al controllo democratico da parte dei lavoratori e della società civile. Implica la dichiarazione di bancarotta delle classi dirigenti che hanno ideato ed attuato le privatizzazioni e la contrazione della sfera pubblica a vantaggio di un’imprenditoria parassitaria ed inefficiente. Ed implica un mutamento di portata storica nella collocazione internazionale del Paese: non più provincia subalterna nello spazio nord atlantico di libero scambio, ma protagonista di una politica di cooperazione coi Pesi dell’Europa del sud, con l’area mediterranea e con i Brics, ossia con tutte quelle realtà politico-economiche che, come noi, hanno bisogno di controllare i movimenti del capitale e di non esserne passivi spettatori.
Ovviamente tutto ciò necessita, per realizzarsi, di un forte consenso di massa, e può essere attuato o dall’ascesa di un governo popolare o dall’affermazione di una corposa opposizione che vada a sommarsi ai forti movimenti di protesta già presenti nel continente. Se è vero che oggi questo consenso non esiste ancora (anche se la disaffezione verso l’Unione europea cresce di giorno in giorno, ed anche se i leader populisti stanno da tempo tastando il terreno dell’exit) è altrettanto vero che ogni accentuazione della crisi genera rapidi spostamenti nelle opinioni e nei rapporti di forza, soprattutto se alla percezione degli effetti nefasti delle politiche comunitarie si aggiunge l’azione di forze politiche capaci di unire nettezza di scelte strategiche e duttilità di scelte tattiche.
Le proposte politiche devono dunque essere modulate in funzione dell’evoluzione delle congiunture concrete. Non si può quindi proporre oggi l’uscita immediata ed unilaterale, anche se bisogna essere consapevoli del fatto che una soluzione traumatica resta comunque l’evento più probabile. Ma nemmeno è possibile proporre false soluzioni che, come l’idea di una moneta comune, si basano pur sempre sulla finzione che i rapporti fra gli Stati del continente siano rapporti paritari, e sottopongono la (parziale) riconquista della sovranità monetaria alla continua negoziazione con Stati assai più forti del nostro. Si deve piuttosto – per tener conto delle diffuse paure che l’idea della rottura dell’Unione ancora evoca, senza per questo dimenticare la vera posta in gioco – avanzare l’idea di una uscita consensuale dei Paesi del sud dall’euro, che non implichi necessariamente l’uscita dal mercato comune e la rinuncia ad ogni forma di coordinamento delle politiche economiche delle diverse nazioni continentali. E si deve diffondere l’idea non già della rinuncia all’unità politica del continente, ma della ricostruzione di un’effettiva unità in forma confederale, sulla base dell’autonomia e della pari dignità fra tutte le nazioni.
All’interno di questa prospettiva è certamente possibile formulare proposte intermedie e lanciare campagne di fase (come quella contro il Fiscal Compact), e sostanziarle eventualmente con ipotesi e pratiche di disobbedienza ai Trattati e di parziale recupero della sovranità monetaria. Ma ogni scelta tattica può comunque avere successo solo se si è consapevoli del fatto che, data la rigidità degli assetti europei, anche cambiamenti di portata ridotta possono accelerare bruscamente la crisi dell’euro e della stessa Unione. E solo se la politica del partito, e dell’inevitabile coalizione di forze democratiche unite dalla rivendicazione della sovranità popolare (e quindi nazionale), è chiaramente orientata ad estendere la propria influenza oltre gli abituali e ristretti confini della sinistra, insinuandosi nel blocco sociale della destra e rompendolo. Ciò è possibile se si avanzano proposte che, avendo chiaramente identificato l’avversario nei grandi gruppi industriali e finanziari, allentino la stretta che sta soffocando la pletora di “evasori per necessità” e reperiscano le risorse per la ripresa, almeno in un primo momento, attraverso la lotta all’elusione fiscale, la tassazione dei grandi patrimoni, e soprattutto attraverso la nazionalizzazione del credito e la trasformazione della Banca d’Italia (nonché della Cassa Deposti e Prestiti) in un centro propulsivo dell’economia.
L’uscita dall’euro si presenta quindi come lo spazio concreto nel quale un rinnovato discorso di sinistra può divenire realmente egemone, e nel quale l’attuazione di obiettivi semi-socialisti, base per ulteriori futuri avanzamenti, può scendere dal cielo dei nostri sogni, e presentarsi come terrena risposta alle necessità più urgenti ed alle esigenze vitali del Paese.”
Boghetta Ugo
Capelli Giovanna
Commodari Pino
Emprin Erminia
Greco Dino
Mantovani Ramon
Nicotra Alfio
Patta Nello
Piobbichi Francesco
Stufara Damiano
Sgherri Monica»
«Al CPN che ha varato i documenti finali del congresso sono stati presentati, a nome di alcuni compagne e compagni, due emendamenti aventi l'obiettivo di porre alla discussione il tema dell'euro. Alcuni hanno sottoscritto convinti, altri affinché il partito affronti comunque una questione che è all'ordine del giorno in tutta Europa. Il primo emendamento illustra gli effetti devastanti che la moneta unica ha sull'Europa, l'Italia, i paesi dell'Europa del sud, i lavoratori. Il secondo propone il tema dell'uscita a sinistra dall'euro con tutte le problematiche che ne seguono. Proposta, questa, alternativa alla centralità contenuta nel documento sulla disobbedienza ai Trattati. Proposta, quest'ultima, che in varie forme accomuna anche gli altri documenti.
L'obiettivo è che il Partito faccia sua questa proposta, nuova e dirompente.
Questo approccio acquista ancor maggior rilievo dopo la vittoria della Merkel che di fatto “stabilizza” il processo di ristrutturazione capitalista e che in Italia si consolida con la tenuta del governo Letta-Alfano. In questo quadro si assiste oggi nel nostro paese ad uno scontro aperto tra chi difende la Costituzione nata dalla Resistenza e chi vuole sottometterla alla Lex Mercatoria che impone l'Europa. Con una chiave di lettura di questo tipo acquista concretezza e respiro anche la campagna per la difesa della Costituzione che si avvia con la manifestazione del 12 ottobre. La problematica contenuta negli emendamenti è in discussione anche in alcune forze che sostengono la manifestazione del 18 e 19 ottobre.
E’ importante capire che gli emendamenti non si limitano a dire “no euro”. Essi piuttosto prendono atto della mutata situazione internazionale (crisi della globalizzazione e del ruolo dei Brics) già ben indicata nel primo documento, e la vedono come occasione per uscire dalla subordinazione atlantica del nostro Paese, subordinazione che oggi si esprime anche attraverso l’euro e che è la base granitica dell’impossibilità di ogni politica favorevole ai lavoratori. Essi quindi cercano di unire questione di classe e questione nazionale e di allargare così lo spazio di un’azione di sinistra fondato sulla rottura dell’alleanza tra lavoro organizzato e grande capitale “europeista”.
Non tenendo conto di questa dimensione dei problemi, tutti e tre i documenti congressuali rischiano di ripetere formule politiche già sperimentate e già fallite che: non parlano all'esterno, non danno profilo e identità all'interno. Rimarremmo in un vuoto di proposta politica.
Senza un programma chiaro, senza avversari chiari, non solo le nostre parole d'ordine saranno recepite come inefficaci, ma rischiano di essere incomprensibili al vissuto quotidiano di milioni di persone che vivono il morso della crisi.
Senza una proposta forte non si costruiscono relazioni. Ed il primo obiettivo non è il consenso ma suscitare interesse, intrigare, rendere la nostra discussione utile non solo a noi ma a tutte le forze che si muovono nella contestazione ai processi di austerità.
Questi emendamenti, dunque, rappresentano un nuovo e diverso approccio analitico, una nuova proposta finalizzata a ricostruire uno spazio politico nel quale ricomporre un nuovo blocco storico.
Per loro natura gli emendamenti sono sintetici rispetto a una materia di tale vastità ma obbligano ad approfondire la discussione.
La proposta, infatti, apre nuovi e diversi filoni di analisi, di ricerca ed elaborazione:
- il blocco sociale e storico da aggregare per un uscita a sinistra dall'euro;
- l'uscita dalla crisi verso il Socialismo del XXI secolo, questione che altrimenti rimane una vaga quando inefficace ed inutile declamazione;
- l'approfondimento del tema di quale Europa e/o spazio euro-Mediterraneo;
- il soggetto politico unitario da costruire in questo percorso storico ed il conseguente ruolo dei comunisti vien posto con i piedi per terra, uscendo dalla sommatoria di ceti e temi.
La necessità della rottura con l'Euro che proponiamo in queste tesi è una proposta politica che in varie maniere ed in vari modi attraversa oggi l'intero campo della Sinistra Europea, assumerla come primo punto di un programma politico di fase può essere l'elemento centrale per rilanciare l'azione del movimento che abolisce lo stato di cose esistenti.
* membri del Cpn di Rifondazione Comunista
EMENDAMENTI AL DOCUMENTO 1 “RICOSTRUIRE LA SINISTRA”
1. Al paragrafo 4, “L’Europa da cambiare”, dopo la riga 20 “…e di quali sono i suoi meccanismi reali di governo.”, aggiungere:
“L’euro è la più completa e la più perniciosa espressione del carattere neoliberista ed antipopolare dell’Unione europea. Infatti, in quanto moneta eguale per economie notevolmente diseguali, ed in quanto moneta votata ad una granitica stabilità e contraria ad ogni fisiologica svalutazione, esso riproduce ed approfondisce automaticamente gli squilibri commerciali fra i diversi Paesi, e favorisce l’indebitamento degli uni e l’arricchimento degli altri. A prescindere dalle politiche di volta in volta adottate dall’Unione, il meccanismo dell’euro impone quindi, con la forza apparentemente oggettiva e naturale delle leggi economiche, la subordinazione dei Paesi del sud e la centralizzazione dei capitali nel centro-nord del continente; inoltre, non consentendo la svalutazione del denaro, esso impone la continua svalutazione del salario, e la connessa restrizione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. Per tali vie le divaricazioni territoriali e le divaricazioni di classe si alimentano a vicenda: un mercato del lavoro duale (oltre a minare alla radice la possibilità di una lotta unitaria dei lavoratori europei) deprime in particolare i salari del sud; a sua volta la depressione dei salari aggiunge il calo della domanda interna al deficit di esportazioni, e contribuisce all’arretramento dei Paesi meridionali, destinati, in tempi più o meno rapidi, ad un inevitabile declino.
Per tutti questi motivi ogni trasformazione delle politiche e degli stessi Trattati costitutivi dell’Unione che non elimini il sistema della moneta unica costruendo, nel rapporto tra aree economiche più omogenee, elementi significativi di sovranità monetaria e la possibilità di momentanee svalutazioni, è destinata a mostrarsi presto o tardi inefficace.
E’ certamente vero che l’euro non è la causa unica degli squilibri europei, e che esso è l’espressione dei rapporti sociali e delle relazioni fra Stati sulla cui base l’Unione europea si è fondata. Così come è vero che le difficoltà dell’economa italiana dipendono in gran parte dalle inefficienze del capitalismo privato, dalla precarizzazione del lavoro, dalla latenza di ogni serio intervento pubblico. Ma è altrettanto vero che, come insegna Marx, il denaro non è semplicemente l’espressione di determinati rapporti sociali, ma anche forma decisiva del funzionamento di questi stessi rapporti, cosicché se non si modificano forma e funzione del denaro, nemmeno i rapporti che lo sottendono possono essere realmente modificati. E se è vero che la sovranità monetaria e la svalutazione non risolvono, da sole, le difficoltà dei Paesi del sud e dei lavoratori, è altrettanto vero che, in un mondo in cui le svalutazioni competitive sono praticate ormai da tutte le economie (inclusa quella tedesca che grazie all’euro gode di una sorta di svalutazione strutturale permanente) esse sono condizione necessaria, pur se insufficiente, della ripresa economica e di ogni efficace politica industriale.”
Segue: “Il punto fondamentale di analisi che ne consegue…ecc.”
Boghetta Ugo
Arnaboldi Patrizia
Capelli Giovanna
Commodari Pino
Emprin Erminia
Greco Dino
Mantovani Ramon
Nicotra Alfio
Patta Nello
Piobbichi Francesco
Stufara Damiano
Sgherri Monica
2. Il paragrafo 5, “Disobbedire all’Unione Europea”, è integralmente sostituito dal seguente:
“5. Uscire a sinistra dall’euro.
Come abbiamo visto, sia dal punto di vista delle esigenze dei lavoratori che da quello delle esigenze generali del Paese, l’uscita dall’euro è inevitabile. E lo è ancor di più se si considera il fatto che, nella situazione attuale, nessuno dei gruppi dominanti del capitalismo europeo, ed in particolare di quello tedesco, mostra di voler abbandonare la linea del deflazionismo e del mercantilismo. L’emergere, altamente improbabile, di una tendenza riformista nel capitalismo tedesco, potrebbe peraltro verificarsi solo di fronte alla chiara percezione della scelta dell’uscita da parte dell’Italia e degli altri Paesi del sud. La semplice minaccia dell’uscita, quando è accompagnata – come oggi avviene – dalla persistente idea che l’euro sia comunque la scelta ottimale, e quando è presentata solo come extrema ratio, non può spaventare nessuno. Oppure, se presa sul serio, ci esporrebbe solo ai problemi derivanti dall’uscita (speculazione, fuga dei capitali, ecc.) senza consentirci di utilizzarne gli effetti positivi.
Soltanto la piena consapevolezza della necessità storica dell’uscita dall’euro, come passaggio necessario alla costruzione di un’autonomia nazionale e quindi di nuovi rapporti internazionali liberamente scelti, può consentirci di definire correttamente i passi intermedi e gli accorgimenti tattici eventualmente necessari al raggiungimento dell’obiettivo. Obiettivo che può essere efficacemente perseguito solo comprendendone tutte le implicazioni, tutte le conseguenze, tutte le possibili e diverse modalità di realizzazione. Dall’euro si può infatti uscire da destra o da sinistra.
L’uscita da destra consiste essenzialmente nel ricorso sistematico alla svalutazione come surrogato della crescita della domanda interna e dell’innovazione tecnologica. Comporta una significativa diminuzione dei salari, un’ulteriore svalorizzazione delle imprese italiane e quindi la prosecuzione della svendita del nostro patrimonio produttivo. Il tutto nel contesto di un’accentuata subordinazione agli Usa e al libero scambio (di cui la Transtlantic Trade and Investment Partnership è l’approdo finale): una subordinazione maggiore di quella già ampiamente consentita dalla stessa Unione europea. L’uscita a sinistra implica invece, oltre ad un uso oculato della svalutazione, un forte controllo dei movimenti del capitale, l’indicizzazione dei salari ed il controllo di alcuni prezzi, la nazionalizzazione delle banche, la ripresa di un intervento pubblico e di una politica industriale sottoposti al controllo democratico da parte dei lavoratori e della società civile. Implica la dichiarazione di bancarotta delle classi dirigenti che hanno ideato ed attuato le privatizzazioni e la contrazione della sfera pubblica a vantaggio di un’imprenditoria parassitaria ed inefficiente. Ed implica un mutamento di portata storica nella collocazione internazionale del Paese: non più provincia subalterna nello spazio nord atlantico di libero scambio, ma protagonista di una politica di cooperazione coi Pesi dell’Europa del sud, con l’area mediterranea e con i Brics, ossia con tutte quelle realtà politico-economiche che, come noi, hanno bisogno di controllare i movimenti del capitale e di non esserne passivi spettatori.
Ovviamente tutto ciò necessita, per realizzarsi, di un forte consenso di massa, e può essere attuato o dall’ascesa di un governo popolare o dall’affermazione di una corposa opposizione che vada a sommarsi ai forti movimenti di protesta già presenti nel continente. Se è vero che oggi questo consenso non esiste ancora (anche se la disaffezione verso l’Unione europea cresce di giorno in giorno, ed anche se i leader populisti stanno da tempo tastando il terreno dell’exit) è altrettanto vero che ogni accentuazione della crisi genera rapidi spostamenti nelle opinioni e nei rapporti di forza, soprattutto se alla percezione degli effetti nefasti delle politiche comunitarie si aggiunge l’azione di forze politiche capaci di unire nettezza di scelte strategiche e duttilità di scelte tattiche.
Le proposte politiche devono dunque essere modulate in funzione dell’evoluzione delle congiunture concrete. Non si può quindi proporre oggi l’uscita immediata ed unilaterale, anche se bisogna essere consapevoli del fatto che una soluzione traumatica resta comunque l’evento più probabile. Ma nemmeno è possibile proporre false soluzioni che, come l’idea di una moneta comune, si basano pur sempre sulla finzione che i rapporti fra gli Stati del continente siano rapporti paritari, e sottopongono la (parziale) riconquista della sovranità monetaria alla continua negoziazione con Stati assai più forti del nostro. Si deve piuttosto – per tener conto delle diffuse paure che l’idea della rottura dell’Unione ancora evoca, senza per questo dimenticare la vera posta in gioco – avanzare l’idea di una uscita consensuale dei Paesi del sud dall’euro, che non implichi necessariamente l’uscita dal mercato comune e la rinuncia ad ogni forma di coordinamento delle politiche economiche delle diverse nazioni continentali. E si deve diffondere l’idea non già della rinuncia all’unità politica del continente, ma della ricostruzione di un’effettiva unità in forma confederale, sulla base dell’autonomia e della pari dignità fra tutte le nazioni.
All’interno di questa prospettiva è certamente possibile formulare proposte intermedie e lanciare campagne di fase (come quella contro il Fiscal Compact), e sostanziarle eventualmente con ipotesi e pratiche di disobbedienza ai Trattati e di parziale recupero della sovranità monetaria. Ma ogni scelta tattica può comunque avere successo solo se si è consapevoli del fatto che, data la rigidità degli assetti europei, anche cambiamenti di portata ridotta possono accelerare bruscamente la crisi dell’euro e della stessa Unione. E solo se la politica del partito, e dell’inevitabile coalizione di forze democratiche unite dalla rivendicazione della sovranità popolare (e quindi nazionale), è chiaramente orientata ad estendere la propria influenza oltre gli abituali e ristretti confini della sinistra, insinuandosi nel blocco sociale della destra e rompendolo. Ciò è possibile se si avanzano proposte che, avendo chiaramente identificato l’avversario nei grandi gruppi industriali e finanziari, allentino la stretta che sta soffocando la pletora di “evasori per necessità” e reperiscano le risorse per la ripresa, almeno in un primo momento, attraverso la lotta all’elusione fiscale, la tassazione dei grandi patrimoni, e soprattutto attraverso la nazionalizzazione del credito e la trasformazione della Banca d’Italia (nonché della Cassa Deposti e Prestiti) in un centro propulsivo dell’economia.
L’uscita dall’euro si presenta quindi come lo spazio concreto nel quale un rinnovato discorso di sinistra può divenire realmente egemone, e nel quale l’attuazione di obiettivi semi-socialisti, base per ulteriori futuri avanzamenti, può scendere dal cielo dei nostri sogni, e presentarsi come terrena risposta alle necessità più urgenti ed alle esigenze vitali del Paese.”
Boghetta Ugo
Capelli Giovanna
Commodari Pino
Emprin Erminia
Greco Dino
Mantovani Ramon
Nicotra Alfio
Patta Nello
Piobbichi Francesco
Stufara Damiano
Sgherri Monica»
3 commenti:
Il fatto che tali emendamenti vengono proposti alla mozione 1, quella di Ferrero e di chi ha portato il partito alla catastrofe, e non alla mozione 2, che quindi gli emendatori non voteranno, indica che comunque essa nasce nel solco del riformismo rifondarolo e non in quello di chi vuole una svolta radicale e rivoluzionaria nel partito.
Demetrio
La sinistra è stata dichiarata ufficialmente antisionista nel 1988. E che non sia stata una boutade è provato da tutto il casino in cui sono rimaste travolte l'URSS e molte sinistre dell'Occidente europeo, Italia compresa.
Con quel po' po' di marasma che sconvolge "scientemente" l'economia in che modo si può pensare che il progetto di ricostruzione della Sinistra possa andare in porto?
Premesso che la sinistra avrebbe dovuto assumere questa posizione PRIMA dal momento che gli intenti mascherati sotto la retorica europeista erano prevedibili, i tanti anni di assolutamente ingiustificabile ritardo sono dovuti a incapacità o alla connivenza con le oligarchie che vuole farci credere di combattere?
La risposta è ininfluente dal momento che che in entrambi i casi, rifondazione (e tutta la sinistra) sono inadeguate e non degne di fiducia.
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