5 ottobre. Bellofiore e Garibaldo sono due economisti marxisti. Essi svolgono una critica sistematica delle tesi al tempo sostenute da Alberto Bagnai nel suo libro Il tramonto dell'euro. Tre almeno i profili della critica. Il primo: Bagnai non vede le vere cause della crisi sistemica del capitalismo. Il secondo, e questo tira in ballo tutti i nostalgici dell'Italia democristiana, non appoggia le sue tesi su un'analisi ponderata del capitalismo italiano, dei punti deboli della sua specifica struttura, non vede infine la natura sostanzialmente classista e liberista delle politiche economiche post-belliche italiane. Queste due linee d'attacco ci trovano, come i nostri lettori sanno, sostanzialmente daccordo. La terza critica a Bagnai ci pare invece molto debole e astrattissima. Sulla questione dell'euro Bellofiore e Garibaldo concludono infatti: «La questione autentica non è euro sì euro no, ma
come si devono configurare la lotta di classe e le lotte sociali per
poter riaprire quegli spazi che oggi non possono non apparire, allo
stato delle cose, inesorabilmente chiusi, come in una cappa d’acciaio».
«C’è una linea sottile tra l’avere torto ed essere dei visionari.
Sfortunatamente per vederla si deve essere dei visionari»
(Sheldon Cooper, The Big Bang Theory)
CIÓ CHE BAGNAI DICE DI GIUSTO
Il libro di Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perchè la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur , Roma 2012) è un libro utile sia lo si condivida nelle sue tesi di fondo sia, come nel nostro caso, pur apprezzandone i meriti, si abbiano su punti chiave opinioni diverse.
Il libro è utile in primo luogo perché rappresenta uno sforzo divulgativo di alto livello; ciò consente a molti di potere comprendere il merito di complesse questioni economiche e di potere quindi partecipare a una discussione, sulle sorti dell’Italia, che si vuole ristretta a minoranze tecnocratiche.
In secondo luogo perché è tra i primi, e altrettanto sicuramente lo fa con massima radicalità, che da noi pone la questione della dissoluzione dell’unione monetaria, e propone seccamente l’uscita dall’euro: una posizione che in varia forma ha preso il largo, e oggi molti, in un modo o nell’altro, vi aderiscono, senza avere forse il coraggio dell’estremismo della tesi di Bagnai. Tesi discussa, da almeno due – tre anni, da altri economisti non ortodossi italiani (tra gli altri, Bellofiore, 2010), e comunque ben presente nel dibattito tra gli economisti a livello internazionale. I dubbi sulla sostenibilità dell’euro risalgono per altro alla sua stessa nascita. (Gaffard, 1992; Grahl, 1997; in tempi più recenti Vianello, 2013, e per un inquadramento generale Toporowski 2010 e Wray 2012)
Non era difficile, in verità, predirlo. Durante la fase del cosiddetto SME credibile (dal 1987 agli inizi del 1992), con cambi fissi fra le valute aderenti, situazione allora vista come una sorta di antipasto della moneta unica, le contraddizioni si andarono accumulando sino all’esplosione.
Prima di passare alle nostre osservazioni critiche vanno messi nella
dovuta evidenza i punti importanti che il libro mette in luce.
Dice innanzi tutto una cosa sacrosanta. Ogni economia vive di debito. Può essere il debito che l’imprenditore schumpeteriano ottiene dall’autentico banchiere che scommette su di lui, e che si vede ormai poco in giro. Anche il debito pubblico ha i suoi meriti. Basta vedere come nella crisi, benché tutti parlino male del debito pubblico, anche quando la crisi si dice provenga dalla crisi della finanza pubblica, nell’incertezza la caccia è innanzi tutto ai titoli di debito pubblico. Dopo di che giustamente Bagnai dice, attenzione che il debito privato è più rischioso e pericoloso del debito pubblico, e aggiunge, ancora a ragione, il vero problema è il debito estero.
E’ evidente che se c’è un debito c’è un credito. I bilanci dei macro-operatori – il settore privato, il settore pubblico ed il settore estero – sono connessi tra di loro, e tutti e tre insieme danno un saldo nullo. Se, per esempio, il settore estero fosse in pareggio, e se ci fosse un surplus del settore privato, ci deve essere un corrispondente deficit del settore pubblico. Se l’area dell’eurozona avesse un bilancio con l’estero pari a zero (ed è stato grosso modo così fino a un paio d’anni fa, ora il saldo è in leggero attivo), allora, perché ci sia un avanzo del settore privato, questo richiederebbe un bilancio negativo dell’operatore pubblico. Da questo punto di vista, si deve dire, i movimenti per il non pagamento del debito commettono spesso un errore elementare, si dimenticano che non pagare il debito vuol dire non pagare il creditore, ed è rilevantissimo a questo punto chi sia il creditore, e se sia possibile discriminare i creditori; tra i creditori dello stato vi sono spesso famiglie di classe media, non particolarmente ricche. La crisi dell’Europa, come altrove, non è affatto una crisi del debito pubblico ma è semmai una crisi del debito privato scaricata sulle finanze dei governi.
Il terzo punto importante – ed è questo, a noi pare, il fuoco del discorso di Alberto Bagnai – è l’attenzione prevalente, qualche volta addirittura esclusiva, al bilancio con l’estero, cioè alla bilancia dei pagamenti, ma forse più ancora alla bilancia delle partite correnti, e forse più ancora alla bilancia commerciale.
Indubbiamente, si tratta di un punto di vista importante per capire cosa sta succedendo in Europa, e nell’eurozona. Alcuni di noi – Bellofiore, assieme a Joseph Halevi – lo sostennero nel 2005 per un convegno di economisti italiani eterodossi, i quali ritenevano all’epoca che il problema cruciale fosse il Patto di Stabilità e la proposta da farsi la stabilizzazione del disavanzo dello stato. Noi lo vedevamo piuttosto come un’imposizione di natura prettamente politica, tant’è che fu infranto a ripetizione senza che ne subissero conseguenze paesi come la Germania e la Francia, e ritenevamo che i problemi strutturali richiedessero nel medio-termine di concordare, o imporre, un aumento del rapporto disavanzo/PIL in una logica di piano del lavoro. La questione dei disavanzi di partite correnti è sicuramente cruciale per comprendere come si configurano le relazioni tra nazioni e aree regionali in questo continente. Dopo un paio d’anni il tema degli squilibri commerciali interni all’eurozona è entrato nell’orizzonte degli economisti critici prendendosi la rivincita, perché quegli squilibri sono a questo punto diventati per loro il problema, attribuito per di più sic et simpliciter alla moneta unica; come più avanti argomenteremo meglio, questa tesi, che sembra condivisa da Bagnai, a noi pare una semplificazione eccessiva, come hanno ben messo in evidenza, in un loro recente saggio, Simonazzi (et al. 2013).[1]
Alberto Bagnai nel suo libro disegna molto bene la situazione squilibrata dell’economia europea, per cui c’è un’area, grosso modo il Centro Nord, in attivo sistematico, difeso ferreamente, e c’è l’area dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna e Grecia), il Sud Europa più l’Irlanda, che invece è in passivo. Bagnai quasi identifica la prima area con la Germania, si tratta invece della Germania con i suoi “satelliti”, una cosa un po’ diversa ora che anche quel blocco sta disgregandosi. E’ vero comunque che ereditiamo una divisione dell’Europa in due blocchi, da un lato quelli che esportano più di quanto importano, non solo all’esterno ma anche all’interno dell’area, e dall’altro quelli che importano più di quanto esportano. Tra i satelliti vi erano, almeno fino a poco tempo fa, l’Olanda, il Belgio, cui si aggiungevano la Svizzera e la Danimarca, che però stanno fuori dall’euro, vi erano poi l’Austria, la Finlandia, e ancora la Svezia che è fuori dall’euro. Bagnai chiarisce gli effetti devastanti di questa frattura, come questa divisione in due esistesse prima della nascita dell’euro, come sia stata aggravata dalla moneta unica.
Un quarto punto, infine, è il giusto rilievo dato da Bagnai al divorzio Tesoro-Banca Centrale del 1981, come un vero e proprio spartiacque nella storia italiana recente. Tale decisione – il divieto per la Banca centrale di garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro e il ricorso quindi, senza salvagenti, al mercato finanziario per finanziare lo Stato, con il conseguente aumento vertiginoso dei tassi d’interesse – è, infatti, assimilabile alla controrivoluzione reaganiana e thatcheriana. Un evento catastrofico nelle sue conseguenze, all’origine dell’esplosione del debito pubblico, un segno del cambio di regime, assieme alla sconfitta alla Fiat nel settembre-ottobre 1980, che sanzionò la svolta nei rapporti di forza tra le classi, nel senso che “chiuse” i primi conti di una strategia di normalizzazione iniziata a metà degli anni Settanta, aprendo così la nuova fase.
IL PRIMO GRUPPO DI OBIEZIONI
Le nostre osservazioni critiche riguardano in primo luogo la storia dell’esperienza dell’euro come è ricostruita da Bagnai. Prima è utile ricordare che nell’analisi e nella proposta di Bagnai un concetto cardine, assieme all’indipendenza o meno della Banca Centrale, è la sovranità monetaria ed è per lui il criterio con cui analizzare le diverse fasi della storia economica italiana recente: prima e dopo la perdita della sovranità monetaria, a causa dell’adesione all’euro, e, durante le diverse fasi della partecipazione allo SME.
La differenza di valutazione nasce da una diversa idea dell’unità d’analisi necessaria a comprendere quanto è accaduto. Il discorso di Bagnai è spesso troppo rinchiuso nel contesto dell’eurozona, per di più con una opposizione troppo secca tra la Germania e il resto dei paesi. L’Europa sta nel mondo.
La storia dell’esperienza dell’euro, che va divisa tra il periodo degli albori (1999-2002) e poi la fase di realizzazione (2003 – 2013), appare in questa prospettiva alquanto diversa. Il disegno della moneta unica è un progetto francese, non tedesco. E’ un progetto costruito nel mondo di prima, non la risposta alla caduta del muro. L’idea dietro il trattato di Maastricht la superiorità del capitalismo europeo- continentale contro quello USA, salta in aria tra il 1992 e il 1993 proprio a causa della caduta del muro. Come l’Araba Fenice, è risorta dalle sue ceneri qualche anno dopo per più motivi, tra i quali la relativa debolezza (allora) della Germania e il grande rilancio egemonico del capitalismo USA. [2]
Ciò che bisogna capire è che gli anni Novanta sono un decennio in cui la Germania è rivolta al suo interno, e patisce una qualche debolezza verso l’esterno, e ha dovuto accettare una moneta unica “larga” e non “stretta”, come probabilmente nelle sue intenzioni, cioè comprendente soltanto i suoi satelliti, ed eventualmente la Francia. Costretta a cedere, la Germania ha agito come sempre, dal Trattato di Maastricht alla crisi più recente: “scambiando” ogni passo in avanti verso una unione monetaria più integrata, con la previa imposizione di vincoli stretti sulla finanza pubblica (allora furono, prima i parametri sulla finanza pubblica, poi il Patto di Stabilità, negli anni a noi più vicini il Fiscal Compact). Salvo essere lei stessa, sinora, a infrangerli – non si dimentichi che la stessa ripresa ormai evanescente dell’economia tedesca degli anni più recenti è dovuta in primis a (intelligenti) politiche attive di disavanzo keynesiano in risposta alla crisi del 2008.
Perché andò in questo modo? L’euro riparte perché negli anni Novanta gli Stati Uniti diventano di nuovo un traino dell’economia mondiale, nelle forme contraddittorie della new economy. Sono anni in cui i tassi di interesse, oltre che l’inflazione, declinano, mentre i tassi di crescita degli Stati Uniti forniscono sbocchi alle economie neomercantiliste, come quella tedesca e italiana. In occasione del primo decennio della moneta unica, un attimo prima che la crisi investisse l’Europa, nel 2008, si sono sprecate le iniziative e gli articoli che ne celebravano il successo. Al di là di crederci o non crederci va spiegato per quale motivo la moneta unica è parsa, fino alla crisi, un modello di successo, e per quale ragione l’area europea sia poi sprofondata nella crisi. La nostra tesi, a differenza di quella di Bagnai, è che l’elemento scatenante non sia affatto riconducibile alla bizzarra costruzione dell’euro, per le sue contraddizioni (che ci sono). Non sono stati gli squilibri commerciali, e neanche quelli della finanza pubblica. E’ stata una crisi importata dall’esterno, un rimbalzo violento della crisi globale nata negli Stati Uniti. Una grande crisi del capitalismo. Questo segna una novità enorme. Noi parliamo di una crisi dell’Europa e dell’euro dentro una crisi finale del neoliberismo, cioè dentro una crisi lunga, di quelle che segnano uno spartiacque tra una fase e l’altra del capitalismo: e noi siamo nel bel mezzo della transizione, senza poter intravedere lo sbocco. Ogni parallelo tra un’eventuale uscita dall’euro e svalutazioni precedenti, che è l’argomento centrale di Bagnai sul perché e sul come bisogna uscire dall’euro, è inficiato anche solo per questa considerazione.
La crisi europea non nasce dall’interno, nasce dal crollo del modello di capitalismo anglosassone, il cui centro sono stati gli USA, basato sul consumo a debito e su un certo tipo di finanza. E’ quel modello che ha consentito ai modelli neomercantilisti, che fanno profitti dalle esportazioni nette, di prosperare, trovando sbocchi alle proprie merci. Le due cose vanno in qualche modo legate, e qui il libro ha un buco, non lo fa, ed è un limite non da poco. Non si può replicare che è un’obiezione illegittima, un parlare d’altro. Si parla della cosa stessa.
Infatti, il progetto dell’euro e il suo concreto svolgimento, contraddizioni comprese, sono difficilmente comprensibili senza riferirsi all‘economia reale, all’obiettivo cioè, prima francese, coi campioni settoriali governati politicamente, poi tedesco, con la selezione naturale per via di mercato e di capacità innovativa, di costruzione di un unico capitalismo europeo industriale e manifatturiero che privilegiasse le esportazioni. L’assunto implicito di tale scelta era che la globalizzazione in concreto significasse l’inizio di una guerra commerciale globale per conquistare i nuovi mercati emergenti, nel mentre si doveva consolidare il mercato interno europeo come il “cortile di casa” di questo nuovo capitalismo europeo. Un cortile di casa il cui obiettivo strategico era quello di posporre ogni altra considerazione alla competitività delle sue industrie con una discriminazione interna, verificata sia dalla capacità di ciascuna impresa di occupare il mercato interno che quello globale. In questa prospettiva le bilance commerciali sono sì un indicatore chiave, ma un indicatore, appunto, di una gigantesca e continua ristrutturazione industriale e di ridefinizione del potere di mercato delle singole imprese, non solo in Europa ma a livello globale. In questa prospettiva neomercantilistica e di forzatura sulla competitività si capisce meglio come il destino dell’euro sia fortemente dipendente dall’economia globale, più specificatamente dal livello di sovrapproduzione relativa sia a livello globale sia tra le aree geopolitiche; in questa partita le scelte politiche e istituzionali delle autorità nazionali e sovranazionali hanno un peso rilevante.
Alberto Bagnai propone, con molta coerenza e con molta chiarezza, che è bene uscire dall’euro, senza se e senza ma. Il sottotitolo del suo libro recita: «come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa». Per rispondere alle critiche a questa prospettiva, che non può non dar luogo a una subitanea svalutazione, per valutarne conseguenze e dimensioni, Bagnai ripercorre alcuni degli episodi passati di svalutazione del nostro paese. Lo fa però, di nuovo, quasi come se il quadro storico, il contesto generale e le scelte politiche e istituzionali non contassero. Non è così. La vicenda del cambio del nostro paese è più articolata, e piena di insegnamenti.
E’ utile partire da una crisi in cui la svalutazione non ci fu, la crisi del 1963-1964. Vigeva allora il sistema dei cambi fissi (benché aggiustabili) pattuito a Bretton Woods. Le lotte salariali, conseguenza del pieno impiego nel triangolo industriale seguita agli anni ruggenti del miracolo economico di fine Cinquanta-primissimi Sessanta, rovesciarono in un anno solo il rapporto salario-produttività dal 1950. Eravamo uno stato-nazione indipendente, con sovranità monetaria, e una Banca Centrale non autonoma dal Tesoro, condizioni ottimali nell’ipotesi di Bagnai. Il Governatore della Banca Centrale, malgrado ciò optò per una difesa strenua dei margini di profitto delle imprese per il tramite di una strategia inflazionistica, sostenendola con la tesi che alti profitti significavano alti investimenti, e per questo andavano ristabiliti. L’esito fu un passivo della bilancia commerciale (in verità erano andati in rosso anche i movimenti di capitale, per fughe illegali), che fu assunta come motivazione di una svolta a 180 gradi, verso una deflazione della quantità di moneta, e quindi una caduta degli investimenti, del reddito, dell’occupazione. I capitalisti italiani – questa purtroppo è una storia di lungo periodo e a nostro parere (che qui seguiamo Marcello De Cecco) all’origine delle traversie del nostro paese – hanno avuto un’incapacità di reagire a quel conflitto distributivo in un’ottica di qualche respiro.
A conferma di quanto dice De Cecco, è bene ricordare che, caduto il fascismo, la scuola liberale, sfruttando anche la scelta delle sinistre di lavorare per la ricostruzione del paese senza porre problemi di controllo statale dell’economia, attuò una politica liberista pura, unico paese del dopoguerra, senza porsi un problema di transizione, anzi «volendo consolidare i vecchi rapporti economico-finanziari, all’interno dei gruppi privati e fra tali gruppi e l’apparato statale» [Daneo 1975:155]. L’Italia, infatti, spicca, tra i paesi europei destinatari del piano Marshall, per una politica economica a tal punto di rigorosa cautela da provocare le critiche dell’amministrazione americana dei fondi ERP (European Recovery Program). Insomma, nel mentre in Europa si sviluppava il piano Beveridge, in Inghilterra e il piano Monet in Francia, in Italia si attuava un riaggiustamento selvaggio secondo principi liberisti – un ritirarsi dello Stato – motivato dal fatto che la presenza dello Stato in assenza del controllo poliziesco sui lavoratori ed il sindacato era potenzialmente pericoloso. Si determina così un intreccio perverso tra liberismo, proclamato in chiave di controllo sociale, e politiche di freno alla crescita della base produttiva —nel 1946 la produzione industriale fu pari ad un terzo delle possibilità tecniche [Daneo, 1975: 155]. La situazione divenne a tal punto ingovernabile – una iperinflazione fuori controllo – che nel ’46 si ebbe un parziale sblocco dei licenziamenti ed una tregua salariale che aprì la strada, nel ’47, alla svolta deflattiva: la così detta stabilizzazione che si tradusse in una stagnazione produttiva rotta solo negli anni ’50 [Daneo, 1975].
Ciò che si vuole metter in luce è che l’uscita dal fascismo, riaprendo una sia pur timida, ipercentralizzata e fortemente controllata dalla convenienza politica, dinamica tra capitale e lavoro, spinge i gruppi dirigenti a respingere l’idea, affacciata da Togliatti, di un patto di solidarietà nazionale, cioè di una uscita lunga e regolata dalle distruzioni della guerra – come in Inghilterra e Francia— e dalla ingessatura fascista della società e dell’economia italiana. Liberismo significa liquidare l’ingerenza statale fascista e lasciare che il mercato si autoregoli ma, quando l’ipotesi naufraga nella iperinflazione, allora si dà inizio ad una ristrutturazione finanziata dallo Stato e dai fondi ERP [Daneo , 1975], in una ipotesi di rigorosa cautela, sfruttando la moderazione rivendicativa e salariale offerta per favorire la ripresa. L’idea che la rottura con lo stato fascista significasse introdurre i diritti sociali, in corso di affermazione in Inghilterra, veniva esplicitamente scartata; impressionante in uno scritto di Einaudi (1942), il brano riportata da Daneo (1975: 109):
Alla metà degli anni Sessanta vivemmo dunque una ristrutturazione senza investimenti. La ripresa dell’accumulazione della fine degli anni Sessanta fu dovuta in primo luogo ad un aumento selvaggio dell’intensità di lavoro, ben rappresentato in film come La classe operaia va in Paradiso. E’ da allora che si è imboccata la via della crisi della grande industria, e dello smantellamento di buona parte della nostra base industriale.
Il secondo grande episodio inflazionistico, in condizioni non poco diverse, è quello degli anni Settanta. Il sistema di Bretton Woods collassa tra il 1971 e il 1972, e l’Italia entra nel mondo dei cambi flessibili tra il 1972 e il 1973, dopo una presenza fugace nel serpente monetario. Gli aumenti di salario superiori agli aumenti di produttività furono accompagnati da una serie di svalutazioni tra il 1973 e il 1979. Quello che, con riferimento al 1974-1975, fu chiamato il processo di disinflazione dell’economia mondiale non fu un processo neutrale rispetto alle classi e non può essere letto solo in termini di economia nazionale. Si poteva scegliere tra diverse modalità e si scelse di fare precipitare ciò che in teoria (con i cambi fluttuanti, in particolare) avrebbe dovuto evitare, una prova di forza interna verso il movimento operaio e sindacale. [Biasco, 1979: 120-123]
Alberto Bagnai ne parla, ma a noi pare non ne chiarisca gli aspetti più significativi: importanti, perché il “successo” di quella manovra, se così lo si vuole chiamare, venne dal tipo particolare di svalutazione che fu praticata, e dal particolare contesto internazionale che la rendevano possibile. Il contesto internazionale era quello di un dollaro che tendeva alla svalutazione rispetto al marco. La scelta politica delle autorità di politica economica fu di agganciarci al dollaro, e dunque di svalutarci rispetto al marco, riducendo l’impatto negativo dal lato delle importazioni (dove la valuta significativa era per noi quella statunitense), massimizzando l’impatto positivo sull’esportazione (la nostra area principale di sbocco essendo al contrario l’area del marco). Ciò consentì di dare una mano alle imprese nel conflitto distributivo con i salari. Una svalutazione “differenziata” e non socialmente neutrale.
L’altra cosa di rilievo che ci pare assente nel libro di Alberto Bagnai è che le svalutazioni degli anni Settanta furono svalutazioni eccedenti quella che era stata l’inflazione passata, e la cosa non si ripeté successivamente. Per questa ragione negli anni Settanta le svalutazioni offrivano subito un vantaggio competitivo alle industrie italiane, cosa che non accadde più in seguito. Per Bagnai la possibilità di un rilancio produttivo a seguito di una inflazione guidata, come secondo lui, sarebbe possibile nel caso di un abbandono unilaterale dell’euro da parte dell’Italia, è un dato incontestabile. Non fu così allora.
Le imprese italiane, infatti, cosa fecero nella loro grande maggioranza? Fecero, mutatis mutandis, come negli anni Sessanta rispetto alla manovra prima inflazionistica e poi deflazionistica: accolsero con gratitudine l’aiuto, alzarono i prezzi, e si guardarono bene da un impiego del vantaggio competitivo che così era loro temporaneamente concesso per migliorare in modo strutturale e permanente sui mercati esteri, a differenza di ciò che fece ad esempio la Germania. E’ chiaro che una risposta di lungo periodo al conflitto distributivo sarebbe stata l’aumento della produttività attraverso una strategia di investimenti. Negli anni Settanta l’industria italiana usò invece la svalutazione non per aumentare le quote di mercato, ma per aumentare i prezzi, dissolvendone rapidamente i vantaggi senza lasciare un sedimento positivo permanente.
Nel 1976 ci fu un altro picco di svalutazione. Eravamo anche qui uno stato sovrano, con la propria Banca Centrale, non divorziata dal Tesoro. Non di meno dovemmo ricorrere all’FMI, che ci impose (a noi come alla Gran Bretagna) delle condizioni dure. La storia degli anni successivi fu dovuta anche a ciò, oltre alla circostanza che il Partito Comunista Italiano aderì alla politica di solidarietà nazionale. La svalutazione fu, da molti punti di vista, un’occasione persa. E un episodio della normalizzazione e ristrutturazione del “caso” italiano: per quello disegnata, per quello agita.
Gli anni Ottanta sono tutta un’altra storia, divisa per di più in due fasi, se non tre. Il periodo dal 1980 al 1987 è caratterizzato dal fatto che l’Italia, che è entrata nel Sistema Monetario Europeo, vive sì altre svalutazioni, ma queste ultime sono sempre inferiori all’inflazione passata, non consentono perciò alcun recupero del guadagno competitivo, e non permettono di conseguenza alle imprese di proseguire nella strategia accomodante sul terreno del salario. Secondo autori come Giavazzi e Pagano vi sarebbero dei vantaggi nel “legarsi le mani”. Si può così razionalizzare la scelta di aderire allo SME. La Banca d’Italia, in accordo con il Tesoro, era convinta che impedire svalutazioni “competitive” avrebbe imposto la ristrutturazione del sistema produttivo italiano —il che fu vero, ma in termini di puro adeguamento tecnologico, non di autentica innovazione, come sostiene a ragione Graziani, 2000. E si era per di più convinti, del tutto a torto, come Bagnai dimostra e come tutti dovremmo sapere, che in questo modo si costringeva lo Stato a spendere meno. La spesa sociale corrente iniziava a venire compressa, è vero, ma, al suo posto, cresceva la spesa per interessi, dato il forzato ricorso del governo al finanziamento sul mercato dei titoli, a causa del divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro avvenuta nel 1981, in un decennio di alto costo del denaro. L’aumento del rapporto debito pubblico/PIL è poi da attribuire in larga misura all’andamento del denominatore.
Un’altra cosa che va detta è che in questi anni la situazione del cambio marco-dollaro si è totalmente invertita nella prima metà degli anni Ottanta: è il dollaro che tende a rivalutare, mentre il marco tende corrispettivamente a svalutarsi. La politica della svalutazione differenziata non era più praticabile. C’è un interludio, 1985-87 (un interludio in cui cambia di nuovo la situazione globale sul terreno dei cambi). Dal 1980 al 1985 la lira godeva di una banda di oscillazione più larga di quella concessa agli altri aderenti all’accordo valutario, dal 1985 al 1987 rientra nella fascia ristretta. Si arriva così al periodo dello SME credibile, 1987-1992. Una cosa che va detta, e lo stesso Bagnai a un certo punto del suo libro la ricorda, è che non esiste il mercato libero dei cambi. I cambi sono sempre sporchi, la loro fluttuazione sempre manovrata. Francesco Farina, Adriano Giannola e Ugo Marani all’epoca sostennero, a ragione, che in quel periodo la lira fosse una valuta forte (tanto che premeva sulla fascia superiore, non quella inferiore della banda di oscillazione) perché la Banca Centrale manteneva il tasso d’interesse più alto di quanto sarebbe stato richiesto dalle altre condizioni dell’economia, incluso lo stato della finanza pubblica. [3] La ratio era, ancora una volta, quella di premere sulla ristrutturazione interna delle imprese e sulla compressione del disavanzo pubblico di parte corrente al netto degli interessi. E così dall’inizio degli anni ’90 che noi viviamo in un universo di avanzi primari del settore pubblico che si accumulano, senza sollievo alcuno della situazione.
In queste vicende ebbe un ruolo significativo l’accordo sulla scala mobile del dicembre del 1975 che tutelava il salario lordo della gran parte dei lavoratori al 100%. Ottima cosa, si dirà. Peccato che era entrato in vigore, da pochissimo, un sistema fiscale progressivo, per cui quando aumentavano i redditi monetari (per esempio i salari, causa l’inflazione elevata, a sua volta favorita dalla svalutazione), aumentava il prelievo fiscale, e dunque il salario reale al netto delle tasse cadeva anche se era tutelato al lordo. Quei soldi cosa sono andati a finanziare? Sono andati a finanziare la ristrutturazione dell’impresa privata, dentro il nuovo quadro di rapporti di forza che si andava delineando. A questo era servita la svalutazione di uno stato sovrano monetariamente.
Insomma, la storia della svalutazione, è una storia complicata: sempre segnata dal rapporto capitale-lavoro, dalle vicende dell’industria e delle banche, dalle scelte autonome di politica economica. E quando non c’era l’euro, l’imposizione si chiamava comunque vincolo esterno.
Arriva il 1992. Non fu una catastrofe, ci dice Bagnai. No, la svalutazione del 1992 non fu una catastrofe: se non per un soggetto. Non che si stesse bene prima (il declino dell’autonomia sindacale data dalla seconda metà degli anni Settanta, e aveva vissuto già gravi colpi come la Fiat o il referendum della scala mobile). Ma certo la pietra tombale sulla scala mobile, per quel poco che ne era rimasto, e l’inizio di una lunga lotta di svuotamento della contrattazione nazionale collettiva, hanno nel 1992 un anno di realizzazione e drammatica accelerazione.
Lamberto Dini, allora Direttore Generale della Banca d’Italia, al convegno dell’AIOTE (associazione degli operatori in titoli esteri) nel Giugno del 1993, invitò le imprese «... a trasformare il margine offerto dal più basso valore della lira in un duraturo guadagno di competitività e di quote di mercato, piuttosto che in un effimero recupero di profitti” e definì la manovra come il raggiungimento di “una dinamica del costo unitario del lavoro che seguiti ad essere allineata a quella dei principali paesi concorrenti“, costruendo così i “capisaldi di un circolo virtuoso, che potrà coniugare aggiustamento della bilancia dei pagamenti, rientro dell’ inflazione e stimolo allo sviluppo. Ne conseguirà per l’economia la possibilità di beneficiare anche di una sostenibile tendenza al ribasso dei tassi di interesse reali e di un cambio stabile“. Se l’economia italiana “procederà lungo la strada intrapresa – disse Dini – quella del risanamento della finanza pubblica della moderazione nella dinamica dei redditi, potrà trasformare il trauma della svalutazione in una rinnovata occasione di crescita del prodotto e dell’occupazione». Su questa base fu costruito l’accordo di concertazione del 1993, ma del circolo virtuoso non ci fu traccia e, dopo due anni, fonti sindacali [4] già denunciavano la deriva di quell’accordo nella direzione di una riduzione drastica del peso del monte salari nel reddito nazionale.
“Noi” riacquistammo allora la sovranità monetaria, dice Bagnai. Ma chi è quel “noi”. Il popolo italiano? Lo stato italiano? La svalutazione fece ripartire la piccola impresa (la grande impresa privata entrava in una crisi con pochi margini di respiro, quella pubblica venne di fatto svenduta), e certe regioni del paese. L’inflazione, è vero, non ripartì, perché i salari vennero compressi, complice la concertazione, e perché la torsione verso l’austerità divenne ora sistematica. Il riaggancio all’euro fu comunque dovuto alla ripresa della new economy, alla caduta esogena dei tassi d’interesse, al rallentamento dell’inflazione importata, e così via.
Non sapremmo trovare parole migliori su quella esperienza quelle che pronunciò Augusto Graziani nel 1994 ad un convegno sullo SME – parole che sono di monito a chi veda nell’uscita dall’euro e nella conseguente svalutazione una sorta di “salvezza”:
IL SECONDO GRUPPO DI OBIEZIONI
Il secondo gruppo di obiezioni che facciamo al libro di Bagnai riguarda il ruolo delle tecnocrazie sovranazionali, la BCE in Europa ad esempio, e nazionali, la FED negli USA e quello delle autorità politiche, ad esempio il governo Abe in Giappone. Queste autorità hanno un mandato manifesto, definito per legge, ma anche spesso un’agenda non manifesta, una strategia che discende non solo da una valutazione della realtà ma da un progetto d’intervento trasformativo della realtà.
Proviamo, per esempio, a prendere sul serio Mario Draghi quando dice – in un discorso a Londra del luglio dell’anno scorso – che lui farà whatever it takes per evitare la dissoluzione della moneta unica – al che fa seguire, un po’ come in un film di Scorsese, la battuta “e vi assicuro, sarà abbastanza”. Una cosa a cui nel libro non si presta adeguata attenzione è l’entità del cambiamento istituzionale nell’eurozona, a partire dalla Banca Centrale Europea, almeno dopo Lehman Brothers, cioè dopo il settembre 2008, già con Trichet e poi ancor di più con Draghi.
Gli economisti e gli analisti sociali critici, come noi, sono bravissimi a rivelare la massa di contraddizioni delle istituzioni europee in un momento dato, e a dedurne (prendendo a questo punto quel contesto istituzionale come un dato) le catastrofi prossime venture. Solo che quelle contraddizioni medesime, con le crisi che esse stesse provocano, impongono, come dice Soros con la teoria della riflessività, il cambiamento, e quel cambiamento sospende per un po’ la crisi, e la catastrofe viene rimandata. Non succede per caso, o reattivamente. E’ parte della strategia di Draghi, e non solo.
Il meccanismo che Mario Draghi ha costruito tra luglio e settembre dell’anno passato la Outright Monetary Transaction – la promessa di un acquisto illimitato di titoli di stato sul mercato secondario, condizionata alla richiesta esplicita degli stati e, in buona misura, alla loro accettazione di un controllo esterno sulle loro politiche – non sta in piedi. Infatti, nessuno l’ha chiesta (anche se non crediamo che il punto di Draghi fosse allora chiedere più austerità, semmai mettere in sicurezza quanto già gli stati andavano decidendo: come sempre, un gioco sulle aspettative). Se mai venisse davvero messa in opera, se ne rivelerebbero tutte le pecche e i problemi che essa comporterebbe, [6] come mette in evidenza Stark, uno dei due membri tedeschi dimessisi della BCE a causa della scelta di Draghi. Fino ad adesso è bastato l’annuncio perché la situazione di drammatizzazione sulle sorti dell’euro di un anno fa rientrasse, e gli spread si sgonfiassero rispetto ai livelli di allora. La riflessività degli agenti istituzionali, ma anche privati e le scelte non ortodosse che ne conseguono cambiano la situazione e per esempio può succedere che l’euro, invece di esplodere subito, abbia la possibilità di sopravvivere.
Dal nostro punto di vista questo non rappresenta necessariamente un miglioramento della situazione; Hans-Werner Sinn [7] dice che l’unica strada è “muddling through”, cioè tirare a campare, avrebbe detto Andreotti. Tirare a campare in questa situazione vuol dire condannare milioni di persone a una situazione sociale intollerabile.
Draghi utilizza un approccio che può non piacerci, quello secondo cui in Europa le cose cambiano solo grazie alla crisi, e lo gioca all’interno di un sapiente progetto politico volto a favorire la costituzione di un capitale tendenzialmente unificato su scala europea, che impone regole non soltanto ai lavoratori, ma anche alle varie frazioni della finanza e dell’industria dell’area.
La Merkel si è alleata a Draghi: ha praticamente licenziato, o accettato il licenziamento (che è la stessa cosa), di due membri tedeschi della BCE provenienti dalla Bundesbank, tra cui Stark. Ci sono forze e idee che si stanno dislocando direttamente su un contesto sovranazionale, europeo. Per questo progetto l’euro è essenziale, e verrà difeso con determinazione. Tale difesa interagisce, e interagirà, con i calcoli strategici della FED, così come con la scelta aggressiva del governo Abe, in Giappone, e la scelta di riequilibrio tra mercato interno e strategia esportatrice del governo cinese, mettendo così in moto nuovi circuiti di riflessività. Questi circuiti interagenti devono fare i conti con una situazione inedita della crisi globale, una situazione nella quale ogni attore rilevante, con un ridimensionamento cinese volto al suo sistema economico, sembra volere ripartire dalla produzione manifatturiera come fattore guida di una strategia espansiva di tipo neomercantile.
La sopravvivenza dell’euro nel breve e nel medio termine, in questo quadro, non può che danneggiare il lavoro e le classi popolari. Senza peraltro che vi sia garanzia alcuna che la moneta unica sia davvero in grado di costituirsi su base stabile, fuori dalla tempesta, nel lungo termine. Per quanti siano gli sforzi, l’euro non potrà che rimandare la sua fine, se non cambia pelle e natura, o passare, più che attraverso crisi, attraverso catastrofi (basta ricordarsi come si sono costituite le unioni monetarie dollaro e lira: non ne sappiamo abbastanza, ma sospettiamo che non sia troppo diverso per l’unione monetaria marco).
La tendenza deflazionistica implicita non solo nella struttura istituzionale della moneta unica come fu disegnata al suo parto, ma anche insita nel disegno di Draghi per spingere ristrutturazione del lavoro, regolazione delle frazioni del capitale, transizione da una visione sostanzialmente confederale a una autenticamente federale, non può reggere a meno che lo sviluppo capitalistico non riparta altrove. Non si vede però oggi chi sia l’acquirente finale di una strategia neomercantile, tanto più che gli Stati Uniti vorrebbero essi stessi tornare a far parte degli esportatori netti. Non si vede delinearsi la forma del nuovo capitalismo. E’ un quadro aperto, e fosco.
Ma il “tempo comprato” – qui vale più l’inglese, buying time, che il nostro tempo guadagnato – da Draghi a favore del progetto dell’euro significa due cose importanti.
Ci rammenta che il problema del soggetto su una scala immediatamente europea non può non porsi anche dal lato del lavoro e dei movimenti. Davvero non si capisce perché la sinistra, sia sindacale sia politica, italiana predichi un internazionalismo astratto, parli così tanto di globalizzazione, ma stia chiusa in un recinto di analisi e proposte così strettamente nazionale.
Lo stesso è vero per l’atteggiamento degli economisti e degli analisti sociali critici sull’euro: se si cancella l’unione monetaria all’inizio di un ragionamento, non è strano che alla fine un’unione monetaria non esista più nel proprio discorso, e che non si vedano neanche le forze che la perpetuano. Se la categoria chiave del discorso sulla moneta o l’industria o la banca è la nazione, se si pensa che non sia comunque possibile una transfer union, una banking union e così via, è ovvio che l’euro non può sopravvivere. Draghi tutte queste cose le sa benissimo (la sua tesi di laurea con Federico Caffè era critica del progetto di moneta unica!), tant’è che ha definito la moneta unica come un calabrone: non dovrebbe volare ma vola, ha volato. Se vogliamo che continui a volare – l’ha detto, evidentemente, dal suo lato della barricata – si deve produrre un cambiamento strutturale di portata enorme, perché il capitalismo è cambiato, vive una nuova fase, e questo cambiamento avverrà spinto dalle crisi. Una coscienza della sfida analoga latita dal lato del lavoro, dei soggetti sociali, dei movimenti sociali, come ha osservato recentemente anche Brancaccio (2013), anche se il suo ragionamento continua a restare nell’ambito di una prospettiva ancora una volta sostanzialmente nazionale. Più facile, senz’altro, sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un ritorno all’economia nazionale è di questa natura, ed è sostanzialmente consolatorio.
Se dunque l’euro è difficile che alla lunga possa vivere, così com’è, per le sue contraddizioni interne e se è vero che la determinazione a farlo vivere è nondimeno potente, allora quello che ci attende – per citare una poesia famosa di T.S. Eliot – non è che questo mondo finisca con un bang, cioè con una esplosione, ma con un whimper, con un gemito.
C’era una alternativa alla moneta unica negli anni Novanta? E c’è oggi, nella crisi, qualcosa che non sia il puro semplice ritorno al passato? A metà degli anni Novanta vi era, tra gli economisti, già chi pensava che ci fosse un’alternativa alle monete nazionali, e alla forbice deflazione competitiva (tedesca) versus svalutazioni (italiane), un’alternativa che non fosse la moneta unica. Tutti i limiti dell’euro erano noti ante litteram, basta andarsi a leggere un economista non certo radicalissimo come Jean Luc Gaffard, su Le Monde Diplomatique del 1992.
L’alternativa possibile alla moneta unica è quella che i francesi, che sono bravissimi nelle distinzioni, chiamano moneta comune. La differenza tra moneta unica e moneta comune un qualche interesse ce l’ha. La moneta unica è anche circolante tra i cittadini dell’area. La moneta comune è invece soltanto mezzo di pagamento tra le banche centrali aderenti all’unione. Ogni nazione mantiene la sua moneta, i vari aderenti mantengono cambi fissi ma esistono alla bisogna margini di flessibilità. Se c’è uno squilibrio grave che nel medio periodo non possa essere aggiustato dall’espansione dei paesi in avanzo, viene consentita una svalutazione, mentre intanto la Banca Centrale Europea ha il potere di far credito alle aree in crisi, come anche ai governi. Non è un’idea di un’originalità devastante, è l’applicazione all’Europa di un’idea di Keynes del 1944, è il progetto di una qualche Bretton Woods europea. In questo orizzonte aveva scritto cose di grande interesse una marxista solida come Suzanne de Brunhoff (1997).
La nostra convinzione è che una pura e semplice uscita dall’euro non sia la soluzione, che anzi gli effetti domino possono essere gravi, e la pressione per l’austerità che ne risulterebbe più e non meno elevata. Ma non crediamo che cambi il segno di questa uscita dalla moneta unica la pura difesa del lavoro su scala nazionale, o di un’area particolare d’Europa (detto tra parentesi, le contraddizioni dell’euro si ripeterebbero su una scala minore, come se per esempio si volesse costruire l’Europa del Sud).
Quello di cui vi sarebbe bisogno sono piuttosto lotte coordinate e proposte politiche uniche della sinistra su scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e dei soggetti sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente organizzata e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del disegno della moneta unica, o della transizione alla moneta comune.
L’alternativa vera che abbiamo davanti non ci pare essere quella tra esplosione a breve dell’area dell’euro o ritorno alle valute nazionali in Europa, ma semmai quella tra stagnazione prolungata (funzionale alla ristrutturazione contro il lavoro, contro le donne, contro i soggetti sociali) o lotte transnazionali in grado di imporre un vincolo sociale e un cambio di rotta. La questione autentica non è euro sì euro no, ma come si devono configurare la lotta di classe e le lotte sociali per poter riaprire quegli spazi che oggi non possono non apparire, allo stato delle cose, inesorabilmente chiusi, come in una cappa d’acciaio.
[sottolineature nostre]
Bibliografia
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Bellofiore, R. “Two or three things I know about her”: Europe in the global crisis and heterodox economics. Cambridge Journal of Economics, 2013, vol. 37, n. 3, pp. 497-512
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Biasco, S. 1979. L’inflazione nei paesi capitalistici industrializzati: il ruolo della loro interdipendenza 1968 – 1978. Feltrinelli, Milano
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Daneo, C. 1975, La politica economica della ricostruzione, 1945-1949. Einaudi, Torino
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De Cecco, M. 2012. Global imbalances: past, present and future. Contributions to Political Economy, vol. 31, n.1, pp. 29–50
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Farina, F. 1990, La politica monetaria e valutaria della Banca d’Italia e la crescita del debito pubblico, in Giannola-Marani 1990
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Garibaldo,F., Baglioni, M., Casey, C., Telljohann, V. (a cura di) 2012. Workers, Citizens, Governace. Socio-Cultural Innovation at Work. Peter Lang, Frankfurt
Grahl, J. 1997. After Maastricht: A Guide to European Monetary Union. Lawrence and Wishart, London
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Simonazzi, A, Ginzburg, A., e Nocella, G. 2013. Economic Relations between Germany and Southern Europe. Cambridge Journal of Economics, vol. 37, n. 3, pp. 653-675
Sinn, H. W. 2013. It is wrong to portray Germany as the euro winner. Financial Times, 23 Luglio
Toporowski, J. 2010. Why the World Economy Needs a Financial Crash and Other Critical Essays on Finance and Financial Economics. London, Anthem Press
Vianello, F. 2013. La Moneta Unica Europea. Economia & Lavoro, n. 1, pp. 17-46
Wray, L. R. 2012. Imbalances? What Imbalances? A Dissenting View. Levy Economics Institute of Bard College, WP No. 704
NOTE
1 Si veda anche De Cecco 2012
2 Per uno sviluppo di queste tesi cfr. Riccardo Bellofiore 2013
3 Rimandiamo a Farina 1990, e più in generale al volume di cui quel saggio è parte Giannola-Marani 1990.
4 Si veda Sabattini (1995)
5 Il riferimento è a Graziani (1994)
6 Cfr. De Cecco (2013)
7 Cfr. Sinn (2013)
* Fonte: INCHIESTA
«C’è una linea sottile tra l’avere torto ed essere dei visionari.
Sfortunatamente per vederla si deve essere dei visionari»
(Sheldon Cooper, The Big Bang Theory)
Riccardo Bellofiore |
CIÓ CHE BAGNAI DICE DI GIUSTO
Il libro di Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perchè la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur , Roma 2012) è un libro utile sia lo si condivida nelle sue tesi di fondo sia, come nel nostro caso, pur apprezzandone i meriti, si abbiano su punti chiave opinioni diverse.
Il libro è utile in primo luogo perché rappresenta uno sforzo divulgativo di alto livello; ciò consente a molti di potere comprendere il merito di complesse questioni economiche e di potere quindi partecipare a una discussione, sulle sorti dell’Italia, che si vuole ristretta a minoranze tecnocratiche.
In secondo luogo perché è tra i primi, e altrettanto sicuramente lo fa con massima radicalità, che da noi pone la questione della dissoluzione dell’unione monetaria, e propone seccamente l’uscita dall’euro: una posizione che in varia forma ha preso il largo, e oggi molti, in un modo o nell’altro, vi aderiscono, senza avere forse il coraggio dell’estremismo della tesi di Bagnai. Tesi discussa, da almeno due – tre anni, da altri economisti non ortodossi italiani (tra gli altri, Bellofiore, 2010), e comunque ben presente nel dibattito tra gli economisti a livello internazionale. I dubbi sulla sostenibilità dell’euro risalgono per altro alla sua stessa nascita. (Gaffard, 1992; Grahl, 1997; in tempi più recenti Vianello, 2013, e per un inquadramento generale Toporowski 2010 e Wray 2012)
Non era difficile, in verità, predirlo. Durante la fase del cosiddetto SME credibile (dal 1987 agli inizi del 1992), con cambi fissi fra le valute aderenti, situazione allora vista come una sorta di antipasto della moneta unica, le contraddizioni si andarono accumulando sino all’esplosione.
Francesco Garibaldo |
Dice innanzi tutto una cosa sacrosanta. Ogni economia vive di debito. Può essere il debito che l’imprenditore schumpeteriano ottiene dall’autentico banchiere che scommette su di lui, e che si vede ormai poco in giro. Anche il debito pubblico ha i suoi meriti. Basta vedere come nella crisi, benché tutti parlino male del debito pubblico, anche quando la crisi si dice provenga dalla crisi della finanza pubblica, nell’incertezza la caccia è innanzi tutto ai titoli di debito pubblico. Dopo di che giustamente Bagnai dice, attenzione che il debito privato è più rischioso e pericoloso del debito pubblico, e aggiunge, ancora a ragione, il vero problema è il debito estero.
E’ evidente che se c’è un debito c’è un credito. I bilanci dei macro-operatori – il settore privato, il settore pubblico ed il settore estero – sono connessi tra di loro, e tutti e tre insieme danno un saldo nullo. Se, per esempio, il settore estero fosse in pareggio, e se ci fosse un surplus del settore privato, ci deve essere un corrispondente deficit del settore pubblico. Se l’area dell’eurozona avesse un bilancio con l’estero pari a zero (ed è stato grosso modo così fino a un paio d’anni fa, ora il saldo è in leggero attivo), allora, perché ci sia un avanzo del settore privato, questo richiederebbe un bilancio negativo dell’operatore pubblico. Da questo punto di vista, si deve dire, i movimenti per il non pagamento del debito commettono spesso un errore elementare, si dimenticano che non pagare il debito vuol dire non pagare il creditore, ed è rilevantissimo a questo punto chi sia il creditore, e se sia possibile discriminare i creditori; tra i creditori dello stato vi sono spesso famiglie di classe media, non particolarmente ricche. La crisi dell’Europa, come altrove, non è affatto una crisi del debito pubblico ma è semmai una crisi del debito privato scaricata sulle finanze dei governi.
Il terzo punto importante – ed è questo, a noi pare, il fuoco del discorso di Alberto Bagnai – è l’attenzione prevalente, qualche volta addirittura esclusiva, al bilancio con l’estero, cioè alla bilancia dei pagamenti, ma forse più ancora alla bilancia delle partite correnti, e forse più ancora alla bilancia commerciale.
Indubbiamente, si tratta di un punto di vista importante per capire cosa sta succedendo in Europa, e nell’eurozona. Alcuni di noi – Bellofiore, assieme a Joseph Halevi – lo sostennero nel 2005 per un convegno di economisti italiani eterodossi, i quali ritenevano all’epoca che il problema cruciale fosse il Patto di Stabilità e la proposta da farsi la stabilizzazione del disavanzo dello stato. Noi lo vedevamo piuttosto come un’imposizione di natura prettamente politica, tant’è che fu infranto a ripetizione senza che ne subissero conseguenze paesi come la Germania e la Francia, e ritenevamo che i problemi strutturali richiedessero nel medio-termine di concordare, o imporre, un aumento del rapporto disavanzo/PIL in una logica di piano del lavoro. La questione dei disavanzi di partite correnti è sicuramente cruciale per comprendere come si configurano le relazioni tra nazioni e aree regionali in questo continente. Dopo un paio d’anni il tema degli squilibri commerciali interni all’eurozona è entrato nell’orizzonte degli economisti critici prendendosi la rivincita, perché quegli squilibri sono a questo punto diventati per loro il problema, attribuito per di più sic et simpliciter alla moneta unica; come più avanti argomenteremo meglio, questa tesi, che sembra condivisa da Bagnai, a noi pare una semplificazione eccessiva, come hanno ben messo in evidenza, in un loro recente saggio, Simonazzi (et al. 2013).[1]
Alberto Bagnai nel suo libro disegna molto bene la situazione squilibrata dell’economia europea, per cui c’è un’area, grosso modo il Centro Nord, in attivo sistematico, difeso ferreamente, e c’è l’area dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna e Grecia), il Sud Europa più l’Irlanda, che invece è in passivo. Bagnai quasi identifica la prima area con la Germania, si tratta invece della Germania con i suoi “satelliti”, una cosa un po’ diversa ora che anche quel blocco sta disgregandosi. E’ vero comunque che ereditiamo una divisione dell’Europa in due blocchi, da un lato quelli che esportano più di quanto importano, non solo all’esterno ma anche all’interno dell’area, e dall’altro quelli che importano più di quanto esportano. Tra i satelliti vi erano, almeno fino a poco tempo fa, l’Olanda, il Belgio, cui si aggiungevano la Svizzera e la Danimarca, che però stanno fuori dall’euro, vi erano poi l’Austria, la Finlandia, e ancora la Svezia che è fuori dall’euro. Bagnai chiarisce gli effetti devastanti di questa frattura, come questa divisione in due esistesse prima della nascita dell’euro, come sia stata aggravata dalla moneta unica.
Un quarto punto, infine, è il giusto rilievo dato da Bagnai al divorzio Tesoro-Banca Centrale del 1981, come un vero e proprio spartiacque nella storia italiana recente. Tale decisione – il divieto per la Banca centrale di garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro e il ricorso quindi, senza salvagenti, al mercato finanziario per finanziare lo Stato, con il conseguente aumento vertiginoso dei tassi d’interesse – è, infatti, assimilabile alla controrivoluzione reaganiana e thatcheriana. Un evento catastrofico nelle sue conseguenze, all’origine dell’esplosione del debito pubblico, un segno del cambio di regime, assieme alla sconfitta alla Fiat nel settembre-ottobre 1980, che sanzionò la svolta nei rapporti di forza tra le classi, nel senso che “chiuse” i primi conti di una strategia di normalizzazione iniziata a metà degli anni Settanta, aprendo così la nuova fase.
IL PRIMO GRUPPO DI OBIEZIONI
Le nostre osservazioni critiche riguardano in primo luogo la storia dell’esperienza dell’euro come è ricostruita da Bagnai. Prima è utile ricordare che nell’analisi e nella proposta di Bagnai un concetto cardine, assieme all’indipendenza o meno della Banca Centrale, è la sovranità monetaria ed è per lui il criterio con cui analizzare le diverse fasi della storia economica italiana recente: prima e dopo la perdita della sovranità monetaria, a causa dell’adesione all’euro, e, durante le diverse fasi della partecipazione allo SME.
La differenza di valutazione nasce da una diversa idea dell’unità d’analisi necessaria a comprendere quanto è accaduto. Il discorso di Bagnai è spesso troppo rinchiuso nel contesto dell’eurozona, per di più con una opposizione troppo secca tra la Germania e il resto dei paesi. L’Europa sta nel mondo.
La storia dell’esperienza dell’euro, che va divisa tra il periodo degli albori (1999-2002) e poi la fase di realizzazione (2003 – 2013), appare in questa prospettiva alquanto diversa. Il disegno della moneta unica è un progetto francese, non tedesco. E’ un progetto costruito nel mondo di prima, non la risposta alla caduta del muro. L’idea dietro il trattato di Maastricht la superiorità del capitalismo europeo- continentale contro quello USA, salta in aria tra il 1992 e il 1993 proprio a causa della caduta del muro. Come l’Araba Fenice, è risorta dalle sue ceneri qualche anno dopo per più motivi, tra i quali la relativa debolezza (allora) della Germania e il grande rilancio egemonico del capitalismo USA. [2]
Ciò che bisogna capire è che gli anni Novanta sono un decennio in cui la Germania è rivolta al suo interno, e patisce una qualche debolezza verso l’esterno, e ha dovuto accettare una moneta unica “larga” e non “stretta”, come probabilmente nelle sue intenzioni, cioè comprendente soltanto i suoi satelliti, ed eventualmente la Francia. Costretta a cedere, la Germania ha agito come sempre, dal Trattato di Maastricht alla crisi più recente: “scambiando” ogni passo in avanti verso una unione monetaria più integrata, con la previa imposizione di vincoli stretti sulla finanza pubblica (allora furono, prima i parametri sulla finanza pubblica, poi il Patto di Stabilità, negli anni a noi più vicini il Fiscal Compact). Salvo essere lei stessa, sinora, a infrangerli – non si dimentichi che la stessa ripresa ormai evanescente dell’economia tedesca degli anni più recenti è dovuta in primis a (intelligenti) politiche attive di disavanzo keynesiano in risposta alla crisi del 2008.
Perché andò in questo modo? L’euro riparte perché negli anni Novanta gli Stati Uniti diventano di nuovo un traino dell’economia mondiale, nelle forme contraddittorie della new economy. Sono anni in cui i tassi di interesse, oltre che l’inflazione, declinano, mentre i tassi di crescita degli Stati Uniti forniscono sbocchi alle economie neomercantiliste, come quella tedesca e italiana. In occasione del primo decennio della moneta unica, un attimo prima che la crisi investisse l’Europa, nel 2008, si sono sprecate le iniziative e gli articoli che ne celebravano il successo. Al di là di crederci o non crederci va spiegato per quale motivo la moneta unica è parsa, fino alla crisi, un modello di successo, e per quale ragione l’area europea sia poi sprofondata nella crisi. La nostra tesi, a differenza di quella di Bagnai, è che l’elemento scatenante non sia affatto riconducibile alla bizzarra costruzione dell’euro, per le sue contraddizioni (che ci sono). Non sono stati gli squilibri commerciali, e neanche quelli della finanza pubblica. E’ stata una crisi importata dall’esterno, un rimbalzo violento della crisi globale nata negli Stati Uniti. Una grande crisi del capitalismo. Questo segna una novità enorme. Noi parliamo di una crisi dell’Europa e dell’euro dentro una crisi finale del neoliberismo, cioè dentro una crisi lunga, di quelle che segnano uno spartiacque tra una fase e l’altra del capitalismo: e noi siamo nel bel mezzo della transizione, senza poter intravedere lo sbocco. Ogni parallelo tra un’eventuale uscita dall’euro e svalutazioni precedenti, che è l’argomento centrale di Bagnai sul perché e sul come bisogna uscire dall’euro, è inficiato anche solo per questa considerazione.
La crisi europea non nasce dall’interno, nasce dal crollo del modello di capitalismo anglosassone, il cui centro sono stati gli USA, basato sul consumo a debito e su un certo tipo di finanza. E’ quel modello che ha consentito ai modelli neomercantilisti, che fanno profitti dalle esportazioni nette, di prosperare, trovando sbocchi alle proprie merci. Le due cose vanno in qualche modo legate, e qui il libro ha un buco, non lo fa, ed è un limite non da poco. Non si può replicare che è un’obiezione illegittima, un parlare d’altro. Si parla della cosa stessa.
Infatti, il progetto dell’euro e il suo concreto svolgimento, contraddizioni comprese, sono difficilmente comprensibili senza riferirsi all‘economia reale, all’obiettivo cioè, prima francese, coi campioni settoriali governati politicamente, poi tedesco, con la selezione naturale per via di mercato e di capacità innovativa, di costruzione di un unico capitalismo europeo industriale e manifatturiero che privilegiasse le esportazioni. L’assunto implicito di tale scelta era che la globalizzazione in concreto significasse l’inizio di una guerra commerciale globale per conquistare i nuovi mercati emergenti, nel mentre si doveva consolidare il mercato interno europeo come il “cortile di casa” di questo nuovo capitalismo europeo. Un cortile di casa il cui obiettivo strategico era quello di posporre ogni altra considerazione alla competitività delle sue industrie con una discriminazione interna, verificata sia dalla capacità di ciascuna impresa di occupare il mercato interno che quello globale. In questa prospettiva le bilance commerciali sono sì un indicatore chiave, ma un indicatore, appunto, di una gigantesca e continua ristrutturazione industriale e di ridefinizione del potere di mercato delle singole imprese, non solo in Europa ma a livello globale. In questa prospettiva neomercantilistica e di forzatura sulla competitività si capisce meglio come il destino dell’euro sia fortemente dipendente dall’economia globale, più specificatamente dal livello di sovrapproduzione relativa sia a livello globale sia tra le aree geopolitiche; in questa partita le scelte politiche e istituzionali delle autorità nazionali e sovranazionali hanno un peso rilevante.
Alberto Bagnai propone, con molta coerenza e con molta chiarezza, che è bene uscire dall’euro, senza se e senza ma. Il sottotitolo del suo libro recita: «come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa». Per rispondere alle critiche a questa prospettiva, che non può non dar luogo a una subitanea svalutazione, per valutarne conseguenze e dimensioni, Bagnai ripercorre alcuni degli episodi passati di svalutazione del nostro paese. Lo fa però, di nuovo, quasi come se il quadro storico, il contesto generale e le scelte politiche e istituzionali non contassero. Non è così. La vicenda del cambio del nostro paese è più articolata, e piena di insegnamenti.
E’ utile partire da una crisi in cui la svalutazione non ci fu, la crisi del 1963-1964. Vigeva allora il sistema dei cambi fissi (benché aggiustabili) pattuito a Bretton Woods. Le lotte salariali, conseguenza del pieno impiego nel triangolo industriale seguita agli anni ruggenti del miracolo economico di fine Cinquanta-primissimi Sessanta, rovesciarono in un anno solo il rapporto salario-produttività dal 1950. Eravamo uno stato-nazione indipendente, con sovranità monetaria, e una Banca Centrale non autonoma dal Tesoro, condizioni ottimali nell’ipotesi di Bagnai. Il Governatore della Banca Centrale, malgrado ciò optò per una difesa strenua dei margini di profitto delle imprese per il tramite di una strategia inflazionistica, sostenendola con la tesi che alti profitti significavano alti investimenti, e per questo andavano ristabiliti. L’esito fu un passivo della bilancia commerciale (in verità erano andati in rosso anche i movimenti di capitale, per fughe illegali), che fu assunta come motivazione di una svolta a 180 gradi, verso una deflazione della quantità di moneta, e quindi una caduta degli investimenti, del reddito, dell’occupazione. I capitalisti italiani – questa purtroppo è una storia di lungo periodo e a nostro parere (che qui seguiamo Marcello De Cecco) all’origine delle traversie del nostro paese – hanno avuto un’incapacità di reagire a quel conflitto distributivo in un’ottica di qualche respiro.
A conferma di quanto dice De Cecco, è bene ricordare che, caduto il fascismo, la scuola liberale, sfruttando anche la scelta delle sinistre di lavorare per la ricostruzione del paese senza porre problemi di controllo statale dell’economia, attuò una politica liberista pura, unico paese del dopoguerra, senza porsi un problema di transizione, anzi «volendo consolidare i vecchi rapporti economico-finanziari, all’interno dei gruppi privati e fra tali gruppi e l’apparato statale» [Daneo 1975:155]. L’Italia, infatti, spicca, tra i paesi europei destinatari del piano Marshall, per una politica economica a tal punto di rigorosa cautela da provocare le critiche dell’amministrazione americana dei fondi ERP (European Recovery Program). Insomma, nel mentre in Europa si sviluppava il piano Beveridge, in Inghilterra e il piano Monet in Francia, in Italia si attuava un riaggiustamento selvaggio secondo principi liberisti – un ritirarsi dello Stato – motivato dal fatto che la presenza dello Stato in assenza del controllo poliziesco sui lavoratori ed il sindacato era potenzialmente pericoloso. Si determina così un intreccio perverso tra liberismo, proclamato in chiave di controllo sociale, e politiche di freno alla crescita della base produttiva —nel 1946 la produzione industriale fu pari ad un terzo delle possibilità tecniche [Daneo, 1975: 155]. La situazione divenne a tal punto ingovernabile – una iperinflazione fuori controllo – che nel ’46 si ebbe un parziale sblocco dei licenziamenti ed una tregua salariale che aprì la strada, nel ’47, alla svolta deflattiva: la così detta stabilizzazione che si tradusse in una stagnazione produttiva rotta solo negli anni ’50 [Daneo, 1975].
Ciò che si vuole metter in luce è che l’uscita dal fascismo, riaprendo una sia pur timida, ipercentralizzata e fortemente controllata dalla convenienza politica, dinamica tra capitale e lavoro, spinge i gruppi dirigenti a respingere l’idea, affacciata da Togliatti, di un patto di solidarietà nazionale, cioè di una uscita lunga e regolata dalle distruzioni della guerra – come in Inghilterra e Francia— e dalla ingessatura fascista della società e dell’economia italiana. Liberismo significa liquidare l’ingerenza statale fascista e lasciare che il mercato si autoregoli ma, quando l’ipotesi naufraga nella iperinflazione, allora si dà inizio ad una ristrutturazione finanziata dallo Stato e dai fondi ERP [Daneo , 1975], in una ipotesi di rigorosa cautela, sfruttando la moderazione rivendicativa e salariale offerta per favorire la ripresa. L’idea che la rottura con lo stato fascista significasse introdurre i diritti sociali, in corso di affermazione in Inghilterra, veniva esplicitamente scartata; impressionante in uno scritto di Einaudi (1942), il brano riportata da Daneo (1975: 109):
«anche là dove la macchina comanda, dove la concorrenza impone al massimo la divisione del lavoro, importa porre una diga, molte dighe al dilagare del livellamento (…) ponendo un limite al crescere delle città industriali.(…) Se anche ne andrà di mezzo una parte, forse grande, della moderna legislazione sociale di tutela universale e sulle assicurazioni in caso di malattie, disoccupazione, vecchiaia, invalidità, se anche ne usciranno stremate le organizzazioni coattive in cui oggi i lavoratori sono classificati [i sindacati], poco male. Anzi, molto bene, se così avremo ridato agli uomini il senso della vita morale, della indipendenza materiale e spirituale».iQuesto pensiero einaudiano ricorda niente?
Alla metà degli anni Sessanta vivemmo dunque una ristrutturazione senza investimenti. La ripresa dell’accumulazione della fine degli anni Sessanta fu dovuta in primo luogo ad un aumento selvaggio dell’intensità di lavoro, ben rappresentato in film come La classe operaia va in Paradiso. E’ da allora che si è imboccata la via della crisi della grande industria, e dello smantellamento di buona parte della nostra base industriale.
Il secondo grande episodio inflazionistico, in condizioni non poco diverse, è quello degli anni Settanta. Il sistema di Bretton Woods collassa tra il 1971 e il 1972, e l’Italia entra nel mondo dei cambi flessibili tra il 1972 e il 1973, dopo una presenza fugace nel serpente monetario. Gli aumenti di salario superiori agli aumenti di produttività furono accompagnati da una serie di svalutazioni tra il 1973 e il 1979. Quello che, con riferimento al 1974-1975, fu chiamato il processo di disinflazione dell’economia mondiale non fu un processo neutrale rispetto alle classi e non può essere letto solo in termini di economia nazionale. Si poteva scegliere tra diverse modalità e si scelse di fare precipitare ciò che in teoria (con i cambi fluttuanti, in particolare) avrebbe dovuto evitare, una prova di forza interna verso il movimento operaio e sindacale. [Biasco, 1979: 120-123]
Alberto Bagnai ne parla, ma a noi pare non ne chiarisca gli aspetti più significativi: importanti, perché il “successo” di quella manovra, se così lo si vuole chiamare, venne dal tipo particolare di svalutazione che fu praticata, e dal particolare contesto internazionale che la rendevano possibile. Il contesto internazionale era quello di un dollaro che tendeva alla svalutazione rispetto al marco. La scelta politica delle autorità di politica economica fu di agganciarci al dollaro, e dunque di svalutarci rispetto al marco, riducendo l’impatto negativo dal lato delle importazioni (dove la valuta significativa era per noi quella statunitense), massimizzando l’impatto positivo sull’esportazione (la nostra area principale di sbocco essendo al contrario l’area del marco). Ciò consentì di dare una mano alle imprese nel conflitto distributivo con i salari. Una svalutazione “differenziata” e non socialmente neutrale.
L’altra cosa di rilievo che ci pare assente nel libro di Alberto Bagnai è che le svalutazioni degli anni Settanta furono svalutazioni eccedenti quella che era stata l’inflazione passata, e la cosa non si ripeté successivamente. Per questa ragione negli anni Settanta le svalutazioni offrivano subito un vantaggio competitivo alle industrie italiane, cosa che non accadde più in seguito. Per Bagnai la possibilità di un rilancio produttivo a seguito di una inflazione guidata, come secondo lui, sarebbe possibile nel caso di un abbandono unilaterale dell’euro da parte dell’Italia, è un dato incontestabile. Non fu così allora.
Le imprese italiane, infatti, cosa fecero nella loro grande maggioranza? Fecero, mutatis mutandis, come negli anni Sessanta rispetto alla manovra prima inflazionistica e poi deflazionistica: accolsero con gratitudine l’aiuto, alzarono i prezzi, e si guardarono bene da un impiego del vantaggio competitivo che così era loro temporaneamente concesso per migliorare in modo strutturale e permanente sui mercati esteri, a differenza di ciò che fece ad esempio la Germania. E’ chiaro che una risposta di lungo periodo al conflitto distributivo sarebbe stata l’aumento della produttività attraverso una strategia di investimenti. Negli anni Settanta l’industria italiana usò invece la svalutazione non per aumentare le quote di mercato, ma per aumentare i prezzi, dissolvendone rapidamente i vantaggi senza lasciare un sedimento positivo permanente.
Nel 1976 ci fu un altro picco di svalutazione. Eravamo anche qui uno stato sovrano, con la propria Banca Centrale, non divorziata dal Tesoro. Non di meno dovemmo ricorrere all’FMI, che ci impose (a noi come alla Gran Bretagna) delle condizioni dure. La storia degli anni successivi fu dovuta anche a ciò, oltre alla circostanza che il Partito Comunista Italiano aderì alla politica di solidarietà nazionale. La svalutazione fu, da molti punti di vista, un’occasione persa. E un episodio della normalizzazione e ristrutturazione del “caso” italiano: per quello disegnata, per quello agita.
Gli anni Ottanta sono tutta un’altra storia, divisa per di più in due fasi, se non tre. Il periodo dal 1980 al 1987 è caratterizzato dal fatto che l’Italia, che è entrata nel Sistema Monetario Europeo, vive sì altre svalutazioni, ma queste ultime sono sempre inferiori all’inflazione passata, non consentono perciò alcun recupero del guadagno competitivo, e non permettono di conseguenza alle imprese di proseguire nella strategia accomodante sul terreno del salario. Secondo autori come Giavazzi e Pagano vi sarebbero dei vantaggi nel “legarsi le mani”. Si può così razionalizzare la scelta di aderire allo SME. La Banca d’Italia, in accordo con il Tesoro, era convinta che impedire svalutazioni “competitive” avrebbe imposto la ristrutturazione del sistema produttivo italiano —il che fu vero, ma in termini di puro adeguamento tecnologico, non di autentica innovazione, come sostiene a ragione Graziani, 2000. E si era per di più convinti, del tutto a torto, come Bagnai dimostra e come tutti dovremmo sapere, che in questo modo si costringeva lo Stato a spendere meno. La spesa sociale corrente iniziava a venire compressa, è vero, ma, al suo posto, cresceva la spesa per interessi, dato il forzato ricorso del governo al finanziamento sul mercato dei titoli, a causa del divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro avvenuta nel 1981, in un decennio di alto costo del denaro. L’aumento del rapporto debito pubblico/PIL è poi da attribuire in larga misura all’andamento del denominatore.
Un’altra cosa che va detta è che in questi anni la situazione del cambio marco-dollaro si è totalmente invertita nella prima metà degli anni Ottanta: è il dollaro che tende a rivalutare, mentre il marco tende corrispettivamente a svalutarsi. La politica della svalutazione differenziata non era più praticabile. C’è un interludio, 1985-87 (un interludio in cui cambia di nuovo la situazione globale sul terreno dei cambi). Dal 1980 al 1985 la lira godeva di una banda di oscillazione più larga di quella concessa agli altri aderenti all’accordo valutario, dal 1985 al 1987 rientra nella fascia ristretta. Si arriva così al periodo dello SME credibile, 1987-1992. Una cosa che va detta, e lo stesso Bagnai a un certo punto del suo libro la ricorda, è che non esiste il mercato libero dei cambi. I cambi sono sempre sporchi, la loro fluttuazione sempre manovrata. Francesco Farina, Adriano Giannola e Ugo Marani all’epoca sostennero, a ragione, che in quel periodo la lira fosse una valuta forte (tanto che premeva sulla fascia superiore, non quella inferiore della banda di oscillazione) perché la Banca Centrale manteneva il tasso d’interesse più alto di quanto sarebbe stato richiesto dalle altre condizioni dell’economia, incluso lo stato della finanza pubblica. [3] La ratio era, ancora una volta, quella di premere sulla ristrutturazione interna delle imprese e sulla compressione del disavanzo pubblico di parte corrente al netto degli interessi. E così dall’inizio degli anni ’90 che noi viviamo in un universo di avanzi primari del settore pubblico che si accumulano, senza sollievo alcuno della situazione.
In queste vicende ebbe un ruolo significativo l’accordo sulla scala mobile del dicembre del 1975 che tutelava il salario lordo della gran parte dei lavoratori al 100%. Ottima cosa, si dirà. Peccato che era entrato in vigore, da pochissimo, un sistema fiscale progressivo, per cui quando aumentavano i redditi monetari (per esempio i salari, causa l’inflazione elevata, a sua volta favorita dalla svalutazione), aumentava il prelievo fiscale, e dunque il salario reale al netto delle tasse cadeva anche se era tutelato al lordo. Quei soldi cosa sono andati a finanziare? Sono andati a finanziare la ristrutturazione dell’impresa privata, dentro il nuovo quadro di rapporti di forza che si andava delineando. A questo era servita la svalutazione di uno stato sovrano monetariamente.
Insomma, la storia della svalutazione, è una storia complicata: sempre segnata dal rapporto capitale-lavoro, dalle vicende dell’industria e delle banche, dalle scelte autonome di politica economica. E quando non c’era l’euro, l’imposizione si chiamava comunque vincolo esterno.
Arriva il 1992. Non fu una catastrofe, ci dice Bagnai. No, la svalutazione del 1992 non fu una catastrofe: se non per un soggetto. Non che si stesse bene prima (il declino dell’autonomia sindacale data dalla seconda metà degli anni Settanta, e aveva vissuto già gravi colpi come la Fiat o il referendum della scala mobile). Ma certo la pietra tombale sulla scala mobile, per quel poco che ne era rimasto, e l’inizio di una lunga lotta di svuotamento della contrattazione nazionale collettiva, hanno nel 1992 un anno di realizzazione e drammatica accelerazione.
Lamberto Dini, allora Direttore Generale della Banca d’Italia, al convegno dell’AIOTE (associazione degli operatori in titoli esteri) nel Giugno del 1993, invitò le imprese «... a trasformare il margine offerto dal più basso valore della lira in un duraturo guadagno di competitività e di quote di mercato, piuttosto che in un effimero recupero di profitti” e definì la manovra come il raggiungimento di “una dinamica del costo unitario del lavoro che seguiti ad essere allineata a quella dei principali paesi concorrenti“, costruendo così i “capisaldi di un circolo virtuoso, che potrà coniugare aggiustamento della bilancia dei pagamenti, rientro dell’ inflazione e stimolo allo sviluppo. Ne conseguirà per l’economia la possibilità di beneficiare anche di una sostenibile tendenza al ribasso dei tassi di interesse reali e di un cambio stabile“. Se l’economia italiana “procederà lungo la strada intrapresa – disse Dini – quella del risanamento della finanza pubblica della moderazione nella dinamica dei redditi, potrà trasformare il trauma della svalutazione in una rinnovata occasione di crescita del prodotto e dell’occupazione». Su questa base fu costruito l’accordo di concertazione del 1993, ma del circolo virtuoso non ci fu traccia e, dopo due anni, fonti sindacali [4] già denunciavano la deriva di quell’accordo nella direzione di una riduzione drastica del peso del monte salari nel reddito nazionale.
“Noi” riacquistammo allora la sovranità monetaria, dice Bagnai. Ma chi è quel “noi”. Il popolo italiano? Lo stato italiano? La svalutazione fece ripartire la piccola impresa (la grande impresa privata entrava in una crisi con pochi margini di respiro, quella pubblica venne di fatto svenduta), e certe regioni del paese. L’inflazione, è vero, non ripartì, perché i salari vennero compressi, complice la concertazione, e perché la torsione verso l’austerità divenne ora sistematica. Il riaggancio all’euro fu comunque dovuto alla ripresa della new economy, alla caduta esogena dei tassi d’interesse, al rallentamento dell’inflazione importata, e così via.
Non sapremmo trovare parole migliori su quella esperienza quelle che pronunciò Augusto Graziani nel 1994 ad un convegno sullo SME – parole che sono di monito a chi veda nell’uscita dall’euro e nella conseguente svalutazione una sorta di “salvezza”:
«C’è un altro problema, cioè che questo ritorno a una politica della svalutazione come protezione delle esportazioni e della politica di sviluppo guidata dalle esportazioni è una politica che, da un lato, ha degli effetti diseguali dal punto di vista territoriale sullo sviluppo del nostro paese perché avvantaggia largamente le regioni della piccola e media impresa esportatrici, mentre penalizza tutte le altre regioni che non sono in grado di trarre vantaggio dalla svalutazione. E poi è, ancora una volta, una politica di sostegno all’industria, attraverso la svalutazione e non attraverso l’avanzamento tecnologico».[5]Nel libro di Bagnai, non a caso, vi è un’assenza assoluta di analisi della struttura industriale ed economica europea, prima e dopo l’Unione Europea e la creazione dell’Euro, e delle ragioni geopolitiche, oltre che economiche, del modificarsi dei rapporti interni all’area dei paesi aderenti all’Unione Europea. Analisi, queste, che sono essenziali per spiegare il perché del successo della politica neomercatilista tedesca e la direzione dei processi di ristrutturazione messi in moto dalla nascita dell’Unione Europea e dell’Unione Monetaria Europea [Bellofiore, 2013; Simonazzi, et al, 2013, Bellofiore e Garibaldo, 2011, Garibaldo et al., 2012]. In questa prospettiva analitica gli aspetti qualitativi della produzione e il posizionamento relativo dei settori chiave dei singoli paesi nella divisione del lavoro globale e interna all’Unione Europea acquistano un carattere discriminante nel giudicare i margini odierni di una classica manovra di inflazione/svalutazione; di qui i dubbi espressi da Simonazzi [et al, 2013: 670-673] sul fatto che manovrando solo le leve macroeconomiche senza mettere mano a scelte di politica industriale e di politica sociale e del lavoro si possa uscire dalla drammatica situazione attuale.
IL SECONDO GRUPPO DI OBIEZIONI
Il secondo gruppo di obiezioni che facciamo al libro di Bagnai riguarda il ruolo delle tecnocrazie sovranazionali, la BCE in Europa ad esempio, e nazionali, la FED negli USA e quello delle autorità politiche, ad esempio il governo Abe in Giappone. Queste autorità hanno un mandato manifesto, definito per legge, ma anche spesso un’agenda non manifesta, una strategia che discende non solo da una valutazione della realtà ma da un progetto d’intervento trasformativo della realtà.
Proviamo, per esempio, a prendere sul serio Mario Draghi quando dice – in un discorso a Londra del luglio dell’anno scorso – che lui farà whatever it takes per evitare la dissoluzione della moneta unica – al che fa seguire, un po’ come in un film di Scorsese, la battuta “e vi assicuro, sarà abbastanza”. Una cosa a cui nel libro non si presta adeguata attenzione è l’entità del cambiamento istituzionale nell’eurozona, a partire dalla Banca Centrale Europea, almeno dopo Lehman Brothers, cioè dopo il settembre 2008, già con Trichet e poi ancor di più con Draghi.
Gli economisti e gli analisti sociali critici, come noi, sono bravissimi a rivelare la massa di contraddizioni delle istituzioni europee in un momento dato, e a dedurne (prendendo a questo punto quel contesto istituzionale come un dato) le catastrofi prossime venture. Solo che quelle contraddizioni medesime, con le crisi che esse stesse provocano, impongono, come dice Soros con la teoria della riflessività, il cambiamento, e quel cambiamento sospende per un po’ la crisi, e la catastrofe viene rimandata. Non succede per caso, o reattivamente. E’ parte della strategia di Draghi, e non solo.
Il meccanismo che Mario Draghi ha costruito tra luglio e settembre dell’anno passato la Outright Monetary Transaction – la promessa di un acquisto illimitato di titoli di stato sul mercato secondario, condizionata alla richiesta esplicita degli stati e, in buona misura, alla loro accettazione di un controllo esterno sulle loro politiche – non sta in piedi. Infatti, nessuno l’ha chiesta (anche se non crediamo che il punto di Draghi fosse allora chiedere più austerità, semmai mettere in sicurezza quanto già gli stati andavano decidendo: come sempre, un gioco sulle aspettative). Se mai venisse davvero messa in opera, se ne rivelerebbero tutte le pecche e i problemi che essa comporterebbe, [6] come mette in evidenza Stark, uno dei due membri tedeschi dimessisi della BCE a causa della scelta di Draghi. Fino ad adesso è bastato l’annuncio perché la situazione di drammatizzazione sulle sorti dell’euro di un anno fa rientrasse, e gli spread si sgonfiassero rispetto ai livelli di allora. La riflessività degli agenti istituzionali, ma anche privati e le scelte non ortodosse che ne conseguono cambiano la situazione e per esempio può succedere che l’euro, invece di esplodere subito, abbia la possibilità di sopravvivere.
Dal nostro punto di vista questo non rappresenta necessariamente un miglioramento della situazione; Hans-Werner Sinn [7] dice che l’unica strada è “muddling through”, cioè tirare a campare, avrebbe detto Andreotti. Tirare a campare in questa situazione vuol dire condannare milioni di persone a una situazione sociale intollerabile.
Draghi utilizza un approccio che può non piacerci, quello secondo cui in Europa le cose cambiano solo grazie alla crisi, e lo gioca all’interno di un sapiente progetto politico volto a favorire la costituzione di un capitale tendenzialmente unificato su scala europea, che impone regole non soltanto ai lavoratori, ma anche alle varie frazioni della finanza e dell’industria dell’area.
La Merkel si è alleata a Draghi: ha praticamente licenziato, o accettato il licenziamento (che è la stessa cosa), di due membri tedeschi della BCE provenienti dalla Bundesbank, tra cui Stark. Ci sono forze e idee che si stanno dislocando direttamente su un contesto sovranazionale, europeo. Per questo progetto l’euro è essenziale, e verrà difeso con determinazione. Tale difesa interagisce, e interagirà, con i calcoli strategici della FED, così come con la scelta aggressiva del governo Abe, in Giappone, e la scelta di riequilibrio tra mercato interno e strategia esportatrice del governo cinese, mettendo così in moto nuovi circuiti di riflessività. Questi circuiti interagenti devono fare i conti con una situazione inedita della crisi globale, una situazione nella quale ogni attore rilevante, con un ridimensionamento cinese volto al suo sistema economico, sembra volere ripartire dalla produzione manifatturiera come fattore guida di una strategia espansiva di tipo neomercantile.
La sopravvivenza dell’euro nel breve e nel medio termine, in questo quadro, non può che danneggiare il lavoro e le classi popolari. Senza peraltro che vi sia garanzia alcuna che la moneta unica sia davvero in grado di costituirsi su base stabile, fuori dalla tempesta, nel lungo termine. Per quanti siano gli sforzi, l’euro non potrà che rimandare la sua fine, se non cambia pelle e natura, o passare, più che attraverso crisi, attraverso catastrofi (basta ricordarsi come si sono costituite le unioni monetarie dollaro e lira: non ne sappiamo abbastanza, ma sospettiamo che non sia troppo diverso per l’unione monetaria marco).
La tendenza deflazionistica implicita non solo nella struttura istituzionale della moneta unica come fu disegnata al suo parto, ma anche insita nel disegno di Draghi per spingere ristrutturazione del lavoro, regolazione delle frazioni del capitale, transizione da una visione sostanzialmente confederale a una autenticamente federale, non può reggere a meno che lo sviluppo capitalistico non riparta altrove. Non si vede però oggi chi sia l’acquirente finale di una strategia neomercantile, tanto più che gli Stati Uniti vorrebbero essi stessi tornare a far parte degli esportatori netti. Non si vede delinearsi la forma del nuovo capitalismo. E’ un quadro aperto, e fosco.
Ma il “tempo comprato” – qui vale più l’inglese, buying time, che il nostro tempo guadagnato – da Draghi a favore del progetto dell’euro significa due cose importanti.
Ci rammenta che il problema del soggetto su una scala immediatamente europea non può non porsi anche dal lato del lavoro e dei movimenti. Davvero non si capisce perché la sinistra, sia sindacale sia politica, italiana predichi un internazionalismo astratto, parli così tanto di globalizzazione, ma stia chiusa in un recinto di analisi e proposte così strettamente nazionale.
Lo stesso è vero per l’atteggiamento degli economisti e degli analisti sociali critici sull’euro: se si cancella l’unione monetaria all’inizio di un ragionamento, non è strano che alla fine un’unione monetaria non esista più nel proprio discorso, e che non si vedano neanche le forze che la perpetuano. Se la categoria chiave del discorso sulla moneta o l’industria o la banca è la nazione, se si pensa che non sia comunque possibile una transfer union, una banking union e così via, è ovvio che l’euro non può sopravvivere. Draghi tutte queste cose le sa benissimo (la sua tesi di laurea con Federico Caffè era critica del progetto di moneta unica!), tant’è che ha definito la moneta unica come un calabrone: non dovrebbe volare ma vola, ha volato. Se vogliamo che continui a volare – l’ha detto, evidentemente, dal suo lato della barricata – si deve produrre un cambiamento strutturale di portata enorme, perché il capitalismo è cambiato, vive una nuova fase, e questo cambiamento avverrà spinto dalle crisi. Una coscienza della sfida analoga latita dal lato del lavoro, dei soggetti sociali, dei movimenti sociali, come ha osservato recentemente anche Brancaccio (2013), anche se il suo ragionamento continua a restare nell’ambito di una prospettiva ancora una volta sostanzialmente nazionale. Più facile, senz’altro, sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un ritorno all’economia nazionale è di questa natura, ed è sostanzialmente consolatorio.
Se dunque l’euro è difficile che alla lunga possa vivere, così com’è, per le sue contraddizioni interne e se è vero che la determinazione a farlo vivere è nondimeno potente, allora quello che ci attende – per citare una poesia famosa di T.S. Eliot – non è che questo mondo finisca con un bang, cioè con una esplosione, ma con un whimper, con un gemito.
C’era una alternativa alla moneta unica negli anni Novanta? E c’è oggi, nella crisi, qualcosa che non sia il puro semplice ritorno al passato? A metà degli anni Novanta vi era, tra gli economisti, già chi pensava che ci fosse un’alternativa alle monete nazionali, e alla forbice deflazione competitiva (tedesca) versus svalutazioni (italiane), un’alternativa che non fosse la moneta unica. Tutti i limiti dell’euro erano noti ante litteram, basta andarsi a leggere un economista non certo radicalissimo come Jean Luc Gaffard, su Le Monde Diplomatique del 1992.
L’alternativa possibile alla moneta unica è quella che i francesi, che sono bravissimi nelle distinzioni, chiamano moneta comune. La differenza tra moneta unica e moneta comune un qualche interesse ce l’ha. La moneta unica è anche circolante tra i cittadini dell’area. La moneta comune è invece soltanto mezzo di pagamento tra le banche centrali aderenti all’unione. Ogni nazione mantiene la sua moneta, i vari aderenti mantengono cambi fissi ma esistono alla bisogna margini di flessibilità. Se c’è uno squilibrio grave che nel medio periodo non possa essere aggiustato dall’espansione dei paesi in avanzo, viene consentita una svalutazione, mentre intanto la Banca Centrale Europea ha il potere di far credito alle aree in crisi, come anche ai governi. Non è un’idea di un’originalità devastante, è l’applicazione all’Europa di un’idea di Keynes del 1944, è il progetto di una qualche Bretton Woods europea. In questo orizzonte aveva scritto cose di grande interesse una marxista solida come Suzanne de Brunhoff (1997).
La nostra convinzione è che una pura e semplice uscita dall’euro non sia la soluzione, che anzi gli effetti domino possono essere gravi, e la pressione per l’austerità che ne risulterebbe più e non meno elevata. Ma non crediamo che cambi il segno di questa uscita dalla moneta unica la pura difesa del lavoro su scala nazionale, o di un’area particolare d’Europa (detto tra parentesi, le contraddizioni dell’euro si ripeterebbero su una scala minore, come se per esempio si volesse costruire l’Europa del Sud).
Quello di cui vi sarebbe bisogno sono piuttosto lotte coordinate e proposte politiche uniche della sinistra su scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e dei soggetti sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente organizzata e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del disegno della moneta unica, o della transizione alla moneta comune.
L’alternativa vera che abbiamo davanti non ci pare essere quella tra esplosione a breve dell’area dell’euro o ritorno alle valute nazionali in Europa, ma semmai quella tra stagnazione prolungata (funzionale alla ristrutturazione contro il lavoro, contro le donne, contro i soggetti sociali) o lotte transnazionali in grado di imporre un vincolo sociale e un cambio di rotta. La questione autentica non è euro sì euro no, ma come si devono configurare la lotta di classe e le lotte sociali per poter riaprire quegli spazi che oggi non possono non apparire, allo stato delle cose, inesorabilmente chiusi, come in una cappa d’acciaio.
[sottolineature nostre]
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NOTE
1 Si veda anche De Cecco 2012
2 Per uno sviluppo di queste tesi cfr. Riccardo Bellofiore 2013
3 Rimandiamo a Farina 1990, e più in generale al volume di cui quel saggio è parte Giannola-Marani 1990.
4 Si veda Sabattini (1995)
5 Il riferimento è a Graziani (1994)
6 Cfr. De Cecco (2013)
7 Cfr. Sinn (2013)
* Fonte: INCHIESTA
28 commenti:
Condivido le conclusioni di Bellofiore e Garibaldo.
Non si può attendere di uscire dall'Euro per cercare di ricomporre gli interessi egoistici di categorie e gruppi sociali, intorno ad un nuovo progetto di sviluppo del Paese che sia sostenibile e inclusivo! (l'attesa potrebbe essere piuttosto lunga ...)
Non si può ritrovare un percorso di giustizia sociale e benessere comune, solo manovrando leve macroeconomiche contro quei "nemici esterni" che ce ne avrebbero privato!
Euro o no, è necessario assumere fin da subito scelte coraggiore di politica dei redditi e di politica industriale. Individuare modalità, anche innovative, per valorizzare i lavoratori e le risorse materiali che oggi il mercato non riesce più a mobilitare. Provare a concepire, in prospettiva, un'ideale di benessere fondato sulla condivisione dei beni comuni, anzichè solo sull'acquisto di merci e servizi.
Si potrà anche finire fuori dall'Euro. Ma sapete bene che ciò non potrà avvenire ad esito di un processo democratico di formazione di una volontà maggioritaria nel Paese e nel Parlamento...
Quindi basta dividersi e perdersi nella teoria, perchè così si fa il gioco dell'avversario!
Un cordiale saluto.
http://marionetteallariscossa.blogspot.it/
"Ogni nazione mantiene la sua moneta, i vari aderenti mantengono cambi fissi ma esistono alla bisogna margini di flessibilità. Se c’è uno squilibrio grave che nel medio periodo non possa essere aggiustato dall’espansione dei paesi in avanzo, viene consentita una svalutazione, mentre intanto la Banca Centrale Europea ha il potere di far credito alle aree in crisi, come anche ai governi. Non è un’idea di un’originalità devastante ..."
Non sarà devastante l'originalità, ma saranno devastanti gli effetti per Germania, Austria, ed eurocrati al seguito.
Come dice sempre il buon Bruno Amoroso, già oggi in Europa ci sono non una, ma undici monete diverse, ed i paesi "indipendenti" che hanno preferito la loro stanno infinitamente meglio dei PIIGS.
Se è vero che si può imparare dagli errori, ed anzi è l'unico modo per migliorare e progredire, il nostro Paese è il maggior "capitalista di errori" dell'area euro, cioè ha margini di manovra enormi, ben superiori al paese d'origine di un Bolloré, tanto per fare un esempio "a caso".
In questo contributo ne sono elencati alcuni di questi errori, che tali sono dal punto di vista del popolo italiano in generale, non certo della sua corrottissima classe dirigente, che non stona però più di tanto nel panorama europeo.
Alberto Conti
Linko un articolo che potrei re-intitolare "CIO' CHE NON CAPISCONO BELLOFIORE E GARIBALDO E IN GENERALE GLI SCHIAVISTI SINISTRATI ALTROUNIONISTI, ALTROEUROPEISTI E ALTROMONDOBENICOMUNISTI".
Se proprio si vuole sostenere la schiavitù, almeno si scelga la parte del padrone!
La sinistra italiana moderna, che ha paura di ogni cedimento "a destra" (vede la destra ovunque; direi che ne ha proprio l'angoscia), è ormai sostenitrice dello schiavismo. Soltanto che sostiene lo schiavismo nell'interesse degli operai, perché se venisse meno l'UE che li schiavizza, emergerebbero gli stati nazionali (brutti e cattivi), la Costituzione della repubblica italiana (che è "la Costituzione" e basta per la sinistra, sia mai dovesse interrogarsi su cosa sia una Repubblica e cosa sia l'Italia) e tutte quelle forze notoriamente fasciste, razziste, nazionaliste e imperialiste che la Costituzione sprigionerebbe.
Sono contrario ai campi di rieducazione, essendo un convinto democratico, quindi devo limitarmi a disprezzare. Anche perché ho capito che si tratta di una sinistra che nega che l'URSS, la Cina, Cuba, i miliardi di stalinisti vissuti sulla terra,Togliatti, Terracini, Lombardi, Giolitti, siano stati comunisti o socialisti o di sinistra. Insomma si tratta di una sinistra di fanatici, che ha un vocabolario suo proprio e che giudica tutto in base a questo assurdo vocabolario.
Non è una tragedia, è una commedia.
E' inutile augurarle la morte.
E' morta.
http://www.appelloalpopolo.it/?p=9604
Stefano D'Andrea
Insomma, sembrerebbe che i massoni del GOD siano stati loro a consigliare Silvio di votare la fiducia all'ultimo momento.
I fratelli si aspettano che Letta non potrà far altro che aggravare paurosamente la situazione sputtanando con le sue stesse mani sé stesso e la cricca che lo ha messo al governo. A quel punto interverrebbe un Silvio a trazione masso-democratica che in campagna elettorale batterebbe sulle malefatte dei tecnocrati europei con la loro moneta unica, facendo un favore al GOD e riscattando sé stesso vincendo le elezioni.
Sembrerebbe, leggendo qui...
http://www.grandeoriente-democratico.com/GOD_esprime_paradossale_soddisfazione_per_la_rinnovata_fiducia_al_governo_del_Para_Massone_Enrico_Letta.html
e qui...
http://www.democraziaradicalpopolare.it/Democrazia_Radical_Popolare_riprende_la_sua_opera_politica_metapartitica_ufficiale.html
Caro D'Andrea,
Eh no! Lei non se la può mica cavare così a buon mercato!!!!!
Ammesso e non concesso che la sua critica a certa sinistra radicale sia corretta, ovvero che oggi si debba adottare una politica stato-nazionalista (e non internazionalista); a me sembra che Ella sia tenuto a dare una risposta congrua gli argomenti portati da Garibaldo e Bellofiore su cosa effettivamente fu la prima Repubblica democristiana e la vera essenza antioperaia e capitalistico-liberista della politica economica post-bellica.
Infatti lei, se ho ben capito spulciando il suo sito, non solo difende la Costituzione, ma perora la restaurazione dell'ordine sociale che c'era almeno fino al bivio che condurrà all'euro. A spanne, quindi, fino agli inizi degli anni '80.
Lei rivendica insomma non solo il (discutibile ai miei occhi) ripristino della sovranità nazionale, ma la superiorità ma pure la bontà del sistema economico e politico della Prima repubblica.
Un giudizio di valore che il saggio di Garibaldo e Bellofiore demoliscono con argomenti rigorosi e, per quanto mi riguarda, inoppugnabili.
E Le che fa?
Invece di entrare nel merito con argomenti seri evoca i campi di rieducazione.
Ma le sembra questo il modo di condurre una dibattito scientifico?
1) non condivido coi marxisti l'analisi secondo la quale la situazione in atto sia quella di un neoliberismo dominante (e quindi che la crisi sia del neoliberismo). vera nel dopoguerra, ma a partire da fine anni 60 le classi dominanti hanno dovuto cominciare ad aprire la saccoccia: le condizioni dei lavoratori migliorarono enormemente, il welfare dilagò, lo stato gestì la metà del prodotto, ed è ancora così. dagli anni 80 è diminuito l'intervento statale nell'industria, ma altrove è aumentato (welfare-pensioni). mancano molti capisaldi (abbassamento tasse e spesa pubblica) per poter definire la situazione "liberista". quindi bisogna scindere la SITUAZIONE (che liberista non è) dai proclami programmatici che riflettono la volontà dei liberisti di raggiungere una situazione diversa in futuro.
2) nella 1a parte ho apprezzato " i movimenti per il non pagamento del debito commettono spesso un errore elementare". a partire da fine anni 60 la maggior parte dei proletari si sono trasformati in piccoli proprietari, piccoli borghesi, titolari di case, c/c bancari, titoli di stato. quanti di voi "proletari rivoluzionari" che leggete non è proprietario di una casa o un c/c o un titolo di stato o non lo sarà in futuro via eredità? sappiate che misure tipo imposte patrimoniali, rifiuto del debito, sequestro c/c vanno nel deretano del 99.8% della popolazione. per cui io sono:
- contrario a tali misure da un punto di vista di classe
- contrario ai sensi della convenienza politica.
se vi piacciono ste misure tanto vale legalizzare le rapine.
3) alla fine l'articolo in chi lo legge produce un effetto simile a quelli di brancaccio, "tanto vale restare nell'euro" e quindi appoggiare la posizione del pd, questa sì potentemente neoliberista.
a meno che non si appartenga al "tanto peggio tanto meglio" sognando la rivoluzione tra 40 anni (20 anni di fame + 20 anni di dittatura fascista)... peccato che io e la gente vogliamo vivere bene oggi e non fra 40 anni (forse).
per cui, anche se non condivido alcuni dettagli, preferisco la linea-bagnai, inclusa l'accettazione di alleanze tattiche inusitate.
antonio.
Mi sembra interessante la risposta di Porcaro a questo articolo di Bellofiore e Garibaldo.
Viene messo in luce che:
1) "Possiamo parzialmente concordare sul fatto che non sia alle viste alcun crollo imminente dell’euro. [..] Nella situazione attuale, e a meno di particolari shock economici, la fine dell’euro può essere provocata solo da una ribellione sociale dei popoli europei e da una direzione politica che sappia indicare con chiarezza sia gli obiettivi che le forme dell’azione." Cosa della quale, aggiungerei io, non si vedono sufficienti segni. Ma la speranza è l'ultima a morire e gli shock economici possono sempre arrivare (forse).
2) "E si faccia comunque presto, perché altre minacce incombono, forse peggiori dello stesso euro. [..] L’esistenza di un’area europea come spazio già predisposto al libero afflusso dei capitali è lo scivolo che ci porta dritti alla TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), e non è escluso che l’insistenza di Draghi a tenere in piedi l’euro ricorrendo addirittura a misure “non convenzionali” sia dovuta anche al desiderio di non far fallire questo grande progetto". E qui è da notare il fatto che stiano facendo di tutto per far durare il governo fino al 2015, se non sbaglio è la ipotetica data di attivazione del TTIP. Quindi l'avversario principale resta pur sempre l'impero.
Su D'Andrea non perda la calma, cos'ha da dire sul povero Fidel?
E @Conti ma lei davvero crede che fuori dall'Euro si stia benissimo? Si sta bene in Inghilterra? in Ungheria? in Svezia?!? Una delle gravi colpe degli anti€ sic et simpliciter è stata proprio quella di far credere che "tutto quanto" dipenda dalla moneta. La moneta è un mattone messo dal capitalismo, come il distacco delle banche centrali (non importa se nazionali o meno, d'Andrea) dal controllo politico, la liberalizzazione dei capitali ecc. Tutte cose che c'erano prima dell'Euro e che ci sono nei paesi che non hanno l'Euro. E che non mancano di dispiegare i loro effetti terribili. Persino Bagnai ha capito questa cosa, poi siccome è quello che è, finisce col dimenticarla opportunamente quando parla con Gasparri e La Russa
bvzm1
Quasi dimenticavo. Toh D'andrea, l'avevo già postato su "comedonchisciotte" ma forse non l'aveva visto. Rifletta su destra e sinistra.
http://www.frontnational.com/2013/06/nouveau-tract-ni-droite-ni-gauche-front-national/
Qui le regalo anche un'altra cosa
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6524
bvzm1
Cercherò di rispondere questa notte ad Eugenio (sono fuori tutto il giorno), che ha posto questioni importanti in modo preciso.
Agli altri risponderò in seguito, perché mi chiedono di leggere alcuni articoli.
Stefano D'Andrea
Prima di tutto, vi avviso che mi rifiuto nella maniera più categorica di schierarmi in una delle due tifoserie che già bei commenti finora postati si confrontano.
Ciò premesso, dirò che apprezzo le analisi iniziali che io stesso già da tempo segnalo, prendendomi le più strampalate accuse, una per tutte che la fonte della crisi non può esserte accantonata pretendendo di potere assumere decisioni così fondamentali quali i rapporti con euro e UE prescindendo dall'entrare nel merito di quelle dinamiche di crisi.
Di conseguenza, non posso che convenire sulla maggior parte delle critiche rivolte a Bagnai, soprattutto in ordine a quelle che appaiono con grande evidenza alcune sue estreme semplificazioni.
Tanta più è stata la mia delusione nel constatare nella parre finale dell'articolo che questi autori semplicemente una che sia una proposta non ce l'hanno. Tale infatti non può essere considerata la proposta dell'unificazione delle lotte operaie, che finora non è avvenuta. Ora, ognuno ha diritto di sperare che nell'aldilà ci attenda il paradiso, ma nel contesto di una discussione politica, si pretende una certa capacità di argomentare e di meglio specificare le proprie tesi.
Insomma, anche costoro sembrano iscriversi alle sinistre pro-euro, confermando così la presenza dei due soliti schieramenti che non mi vedranno mai tra le loro file.
La cosa però è tanto più grave perchè leggendo l'articolo con la dovuta attenzione, mi sembrava che gli autori potessero convergere sulla mia tesi, visto che fino ad allora il loro argomentare seguiva gli stessi sentieri di quello mio.
Ed ecco la svolta, gli autori convengono che si è formato un partito europeo con a capo la Merkel e Draghi, e che costoro hanno deciso di coinvolgere l'europa fino ai capelli nella lotta globale con una sua distinta posizione. Non solo, essi converngono che questa posizione si tradurrà in lacrime e sangue all'interno dell'europa.
Se questa scelta è sciagurata, allora tutti ed anche i nostri autori dovrebbero convenire sul fatto che essa non dovrebbe essere assunta, che insomma l'errore in una lotta globale non sta nella specifica posizione che assumi, ma nello stesso fatto di accettare di combatterla.
Sono convinto come anche alcuni di questa redazione, almeno così ho capito, che il sistema bancario globale stia per crollare.
Ciò ci dovrebbe portare a concludere che è la globalizzazione in quanto tale a dovere essere combattuta. Se quindi la scelta fondamentale è rifiutare questo processo di globalizzazione distruttiva in corso, poco m'importa essere accusato di nazionalismo, per il semplice fatto che il richiamarsi a un livello nazionale deriva in definitiva dall'impossibilità di coinvolgere l'intera europa in questo rifiuto della globalizzazione.
L'invocazione della nazione che molti credono comporti un processo di sciovinizzazione, è soltanto il richiamo a un livello di sovranità, quella nazionale che, basandosi su una costituzione democratica, è pubblica, può coinvolgere tutti i cittadini, mentre l'europa così come è stata costruita è costitutivamente un'istituzione non democratica e fondamentalmente pronta ad essere piegata ad usi privati o coimunque di parte.
Riassumendo, voglio ribadire le mie obiezioni a Bagnai ed a quelli che la pensano come lui, dobbiamo fare la lotta alla globalizzazione e l'uscita dall'euro e dalla UE sono solo tappe, aspetti parziali, di una scelta ben più forte ed importante quella contro la globalizzazione. In assenza di questa scelta fondamentale, l'uscita dall'euro appare o un palese errorre o tuttalpiù un pannicello caldo, che rischia come dicono gli autori di farci ricadere in periodi ed in politiche verso cui certo nessuno di noi prova nostalgia.
Nel contempo, non posso che esprimere la mia più cpmpleta delusione nel vedere come due valenti economisti, nel momento di trarre le conseguenze delle loro stesse analisi, si ritraggono apparentemente impauriti dalle scelte che sarebbero coerenti con le lor0o opinioni.
Mah, io condivido molti dubbi su Bagnai, uno di questi può essere il fatto che insistere sul processo "liberista" iniziato alla fine degli anni 70 possa in qualche modo rivalutare gli anni precedenti come anni d'oro e di un capitalismo buono.
Alla luce di tutto però mi sembrano più controproducenti le posizioni de Bellofiore e Garibaldo, non a caso subito fatte proprie dal "buon" Emilio L.
Penso che anche loro abbiano chiaro che alla base di ogni cambiamento vi debba essere un controllo politico sul capitalismo, controllo che per il nostro bene deve essere fatto da gruppi sociali più vicini a noi.
Non so se questo sia possibile senza una presa di posizione netta contro euro e UE
Pigghi
Gentile Eugenio,
Affermo che si debba attuare una politica "stato-nazionalista". Ma la chiamo ritorno alla costituzione e attuazione progressiva della medesima (questa formula sintetizza ilprogramma del PCI fino a quando è stato un partito grande, anzi grandioso, che ha dato all'Italia, agli Italiani, e ai ceti popolari, ossia fino a Berlinguer, escluso: i suoi lasciti sono stati la fuffa dell'eurocomunismo e la scelta di campo per la NATO). Ciò è possibile SOLTANTO se lo stato nazionale torna ad avere pieni poteri.
Ma non solo do un altro nome alla politica necessaria (potrebbe trattarsi semplicemente di questione terminologica se non fosse che a sinistra ogni volta che si parla di stato nazionale si tira fuori il "nazionalismo"), nego risolutamente che essa si contrapponga all'internazionalismo.
Inter-nazionalismo è rapporto paritetico tra nazioni (e fratellanza in particolare con gli stati socialisti o socialdemocratici o comunque fondati su regole che limitano in vario modo il potere del capitale). Quindi intanto è rapporto TRA NAZIONI. Senza stati nazione non ha alcun senso una aspirazione internazionalistica. mMuovo dalla presa d'atto che non soltanto il socialismo astratto o utopico che riusciamo a pensare ma anche una semplice democrazia socialista o socialdemocrazia implicano pieni poteri dello stato nazione. Lo stato nazione non porta con sé necessariamente la socialdemocrazia ma la socialdemocrazia e ancor di più ogni forma avanzata ipotetica o utopica di socialismo implicano lo stato nazione.
La sinistra contemporanea, essendo contro lo stato nazione è antisocialista, antisocialdemocratica, classista (nel senso che è a favore del capitale, ne sia o meno consapevole), anti-internazionalista. Essa infatti è globalista. Chi è globalista è per forza liberista. E preferisco il liberismo di Antonio Martino, che avverso ma almeno ne capisco il senso, al liberismo di chi si dice comunista e poi vede la destra ovunque. Si tratta di gente che ormai ha la mente offuscata.
(continua)
Stefano D'Andrea
Quanto alle mie idee le ho spiegate tante volte; così come ho spiegato tante volte perché senza distruggere Maastricht, non può esserci che il globalismo-liberismo-capitalismo assoluto (sono la stessa cosa). Rinvio ai documenti dell'ARS (in particolare quelli sulla repressione finanziaria e sul lavoro), nonché ad alcuni miei scritti sui "vincoli alla circolazione dei capitali" (ce ne sono 5 su appello al popolo e si trovano comunque con google; uno è anche su sinistra in rete).
D'Altra parte le mie idee non sono poi così diverse da quelle che sosteneva il senatore di rofondazione Vinci nel 1993, quando fece la dichiarazione contro il trattato di Maastricht. Che significa essere contro Maastricht se non volersi liberare da tutti i vincoli che ha imposto agli stati membri? Chi è contro Maastricht e contro tutti i vincoli e ha paura di dire che dobbiamo uscire dalla UE perché altrimenti c'è lo stato nazione brutto e cattivo non meriterebbe nemmeno di partecipare a una qualsiasi discussione: non sa quel che dice (e purtroppo nella sinistra radicale se ne trova a bizzeffe di gente così). C'è scritto nell'articolo di Bellofiore e Garibaldo che bisogna uscire dal Maastricht ossia, oggi, recedere dai trattati europei? No. E allora siamo in presenza di una posizione moderata, che non meriterebbe nemmeno di essere considerata da chi sostiene di appartenere alla sinistra radicale e di essere comunista.
Gli anni che vanno dal 1947 al 1981 vengono definiti "trentennio glorioso". Faccia una ricerca con google e troverà i nomi dei migliori economisti della sinistra radicale e comunista che utilizzano questa formula. Dunque quale è il problema? Perché la chiama Repubblica democristiana se durante gli anni 50-60 il 90% delle leggi vennero approvate all'unanimità (studio di Pizzorno)? E il sistema sanitario nazionale? E la riforma Vanoni? E l'aliquota massima dell'irpef al 73%? E l'impossibilità per il capitale straniero di acquistare imprese italiane? E la riforma agraria (io ho studiato perché a due miei nonni diedero due ettari, il cui rendimento aggiunsero allo stipendio da operaio di mio nonno; e così fecero studiare quattro figli - i miei nonni avevano 9 anni di scuola in due). E l'abolizione della mezzadria? E la repressione finanziaria, grazie alla quale lo stato pagò sempre interessi reali negativi rendendo irrilevante e anzi inesistente il problema del debito pubblico, e potendo non tassare illavoro come è costretto a fare ora? E la scala mobile sempre mantenuta? E il piano casa di Fanfani che diete agli italiani 300.000 abitazioni riscattate con poche lire? E le pensioni buone, che a un certo punto furono raggiunte? E la grande mobilità sociale che credo non abbia mai avuto pari nel mondo(anche gli altri due nonni fecero studiare entrambi i figli)?
E l'equo canone? E la stabilità del rapporto di lavoro? E lo statuto dei lavoratori? Le sembra poco? Le sembra "merda", come l'ha definita Moreno qualche giorno fa? Pensi pure che sia merda e (s)qualifichi quello che fu il frutto di una POLITICA DI UNITA' NAZIONALE (al di là delle declamazioni alle quali magari lei dette fede) come Repubblica democristiana. Però io so che per ricostituire quella merda servono almeno 15 anni e menti fini e coraggio e uomini e organizzazioni che non ci sono (e ormai penso veramente che la sinistra radicale, salvo pochissimi - Porcaro e qualche altro - sia un ostacolo che fa allungare quel tempo e non serva a nulla, salvo a trattenere con sé gente che potrebbe militare egregiamente nel movimento sovranista e costituzionale). Perché infatti non abbiamo nemmeno più una legge bancaria formidabile che c'era e non abbiamo neppure l'IRI e non abbiamo neppure poteri doganali che allora utilizzammo poco, perché credevamo (a ragione) che non servissero, e che tuttavia avevamo e che avremmo potuto utilizzare se li avessimo reputati utili, come sarebbero utili ora.
Stefano D'Andrea
A leggere D'Andrea sembra che l'internazionalismo marxista sia un'agglomerato di nazionalismi.. Divertente...
E' un peccato essere costretti a replicare brevemente alla generosità di D'Andrea, che va ringraziato per la passione che ci mette. Tutto rischia di essere ricondotto a battute e me ne scuso, ma non sempre si hanno ore davanti. Questo per dire, ma D'Andrea lei dice sul serio o sta scherzando? Crede che senza l'Unione Sovietica, la pressione della masse che si avvicinavano sempre più pericolosamente al PCI (che era già moderato...), il movimento contadino, il '68 e insomma tutta una serie di cose che la DC fu COSTRETTA a subire si sarebbero realizzate quel minimo di riforme che adesso le sembrano la rivoluzione in marcia? Ogni tanto viene il sospetto che lei sia molto giovane, perché come fa a non ricordare che c'è stata una guerra civile fredda in Italia? Stragi, sindacalisti ammazzati, (tutta, TUTTA responsabilità della DC) terrorismo e lei vorrebbe credere che ci sia stata la "politica nazionale"?!? Francamente cascano le braccia. E forse non è neanche troppo il caso di continuare vedo che lei opportunamente non parla del Front National o delle altre considerazioni su destra e sinistra. Ma qui ormai siamo al punto che chi fa discorsi "nazisti" (non mi riferisco necessariamente a lei) finisce col dire che gli altri sono ... nazisti. Meno male che almeno siete innocui
bvzm 1
Sì ma D'Andrea lotta per aggregare un consenso trasversale; voi siete rimasti quattro gatti che si fanno le pippe sulla filosofia, l'economia e tutti i massimi sistemi in generale.
Non condivido al 100% le idee dell'ARS, anzi nemmeno al 50% ma se saranno solo loro a muoversi dovrò sostenerli.
Nel frattempo continuate a spippettarvi a vicenda.
Trovo allucinante che di fronte alla gravità della crisi economica in cui versa il Paese, ed alla gravità della crisi geopolitica che ci para davanti lo spettro reale di una terza guerra mondiale, che la tecnologia militare fa diventare un olocausto globale certo e senza alcuna possibilità di sopravvivenza della specie umana con le sue diverse civiltà, così come le conosciamo oggi, e infine al "problemino" inedito da sempre dei raggiunti (e superati) limiti dello sviluppo sul pianeta Terra, ci sia ancora qualcuno che non sa uscire dalla trappola dell'ideologia d'altri tempi, vista ancora come "il sol dell'avvenir".
Le ideologie, tutte, sono frutto d'intelligenza, e l'intelligenza è lo strumento di adattamento dell'uomo alle variazioni delle condizioni ambientali. Bloccare l'intelligenza su risultati passati, frutto di condizioni ambientali differenti e non più ripetibili (basti pensare alla differenza tra abitare il pianeta in un miliardo d'individui con tecnologie rudimentali, rispetto ad abitarlo in 7 miliardi con tecnologie dalla potenza trasformativa moltiplicata cento) significa semplicemente arrendersi all'estinzione. E' come se la tigre del Bengala affrontasse i suoi attuali problemi d'adattamento sognando i perduti denti a sciabola. Per fortuna le leggi della biologia e della fisica non vanno in tal senso, mentre qui invece le si vorrebbero ignorare, fondando giudizi ideologicizzati su tale ignoranza (mi ricorda molto i tolemaici ai tempi di Galileo).
Venendo al concreto, c'è un problema locale e contingente, traducibile brutalmente nel fatto acclarato che il nostro Paese attraverso il processo politico che è sfociato nella moneta unica, non solo è caduto nella trappola di un neoliberismo sfrenato che tende ad una restaurazione medioevale (di stampo ideologico anglosassone), ma l'ha anche presa nel culo dai due big europei Germania e Francia, che a loro volta non hanno in mente altro che farsi le scarpe a vicenda.
Zoomando un'altra volta all'indietro, per riallargare l'orizzonte, si evidenzia un problema di annientamento dell'identità e degli interessi di massa locali stritolati dalle logiche globaliste di cui sopra, che fanno leva su "nuove" differenziazioni di classe esasperando la separazione piramidale tra pochi (relativamente) ricchi e il resto di impoveriti.
In quest'ottica grandangolare ben venga perciò il "vecchio" nazionalismo, o "amor di patria", o "benecomunismo", ecc. ecc. In una parola volersi bene per voler bene alla vita e al mondo.
A. Conti
I LIVELLI DEL DISCORSO
(1) Se non rompiamo la sinistra (non considero il Pd sinistra),se non facciamo venire allo scoperto quell'ampia e diffusa sinistra sociale anti-eurista (oggi non rappresentata politicamente), l'uscita da destra dall'euro sarà inevitabile, e i costi enormi dell'implosione della moneta unica la stracciona borghesia italiana li farà pagare al popolo lavoratore e anzitutto ai salariati.
Chi gira attorno a questo problema o è stolto o ci marcia.
(2) Lo slogan più deviante degli ultimi tempi è quello coniato da Bagnai, secondo cui «La scelta giusta sarà fatta dalle persone sbagliate». E' un modo per arrendersi se non per perorare l'uscita da destra. Qui non si tratta di persone ma di classi sociali e dei loro interessi. Le "classi sbagliate" non possono che adottare politiche sbagliate. A meno che non si creda alla narrazione interclaissta e corporativa per cui... "siamo tutti slla stessa barca".
(3) E' un fatto che la sinistra anticapitalista fu la sola ad opporsi prima al tempo, sia all'Unione, che allo Sme e poi a Maastricht. E' vero che negli ultimi vent'anni i gruppi dirigenti hanno ammainato quelle bandiere per abbracciare un astratto e insulso internazionalismo, ma sostenere che ciò significhi che questa sinistra abbia con ciò adottato il "globalismo" e il "liberismo" è un insulto all'intelligenza. Chi non sa distinguere il liberismo da concezioni dottrinarie d'estrema sinistra, è prigionero a sua volta del formalismo più astratto, ovvero non sa leggere i diversi intressi di classe e sociali che stan dietro all'internazionalismo di matrice marxista dal liberismo imperialista.
(4) E' questa totale disintanza dagli interessi di classe del lavoro salariato, questo sotteso amore per il capitale, che soggiace alla mistica dela Costituzione, confondendo deliberatamente la Costituzione formale da quella materiale (giuridicismo). Il "trentennio glorioso"... ma non scherziamo! Chi lo dice accetta la narrazione classista e ideologica su cui si è retto per quarant'anni il regime democristiano. Statuto dei lavoratori? Ma si sa che lo stesso PCI votò contro? Come era all'opposizione del centro-sinistra? E comunque tutte le riforme degli anni '70, non vennero per la generosità della classe dominante e del suo regime, ma grazie a accanite ed anche sanguinose lotte operaie e sociali.
(5) Quindi uscire dall'euro assolutamente sì, ma non sotto la guida dei dominanti. Un fronte popolare sovranista? certo! Ma in un fronte, tanto più se ampio, il problema è che ne ha la direzione, chi ne costitusice la forza sociale e di classe trainante.
C'è chi vuole mettere il proletariato al carro della borghesia, noi no.
Morale della favola: se non avremo a breve in campo una sinistra sociale e politica antieurista, non solo avremo un'uscita pilotata dai liberisti (che si alleeranno coi lepenisti all'amatriciana), avremo una catastrofe. Chi attacca a sinistra alla cieca fa dunque obiettivamente il gioco della destra capitalista.
(6) Di qui la discussione e la polemica tra la forze sovraniste, che non è battibecco, ma dibattito serissimo.
Per cui: bando ai settarismi, ai personalismi, come ad ogni dilettantismo teorico.
Moreno Pasquinelli
Si Moreno, io sono d'accordo praticamente su tutto. Ma non riuscirò mai a comprendere come voi non vi rendiate conto che avete un briciolo di responsabilità in tutto questo. "Sovranisti" ci siete anche voi e per quanto vi affanniate a fare mille distinguo, per quanto vi rifugiate dietro l'idea della "fase" (sinistramente simile a quella di D'Andrea) non potrete evitare di scadere in una qualche forma di interclassismo. Meno rozza certo, ma, per usare un'espressione sin troppo abusata, fate gli apprendisti stregoni e il risultato non può che essere la glorificazione del trentennio democristiano (e l'idea che le conquiste potessero essere possibili senza il fottuto terrore dei cosacchi in Piazza San Pietro)
bvzm1
gentile D'Andrea,
la ringrazio per la sua risposta. Molto chiara. Mi conferma che Lei è un paladino non solo della Costituzione, cosa sulla quale mi potrebbe trovare d'accordo, ma del regime politico (democristiano), non solo quindi dell'esperienza fallita del centro-sinistra. A giustificazione deve stravolgere la realtà storica, per cui arruola il Partito comunista italiano come sodale di quel regime. Mentre tutta l'opposizione del PCI si basava sull'accusa che la Dc tradiva nei fatti e nello spirito quella stessa Costituzione che lei mitizza.
Vorrei infine ricordarle che il Pci, contrario Amendola (padre guarda caso del Giorgio Napolitano) si oppose strenuamente, dopo la tragica esperienza del Governo Tambroni coi fascisti (a proposito di DC!) anche al nascente centro-sinistra, denunciandolo come governo del grande capitale monopolistico (privato e di Stato).
Per cui, anche volendo sorvolare sulla plausibilità dell'operazione Sua, essa non può essere altrimenti definita che come RESTAURAZIONE.
Non alla tradizione del partito comunista quindi mi sembra Lei si riallacci, ma a quella della democrazia cristiana, magari alla sua ala cattolica più progressista, ma sempre Dc era.
Genytile Eugenio, berlusconiani e ajntiberlusconiani a parole se le sono suonate di santa ragione in questi anni. Ma hanno seguito una linea (maledetta) comune: liberista, globalista, adulatrice della concorrenza.
Le persone ingenue si sono fatte ingannare e hanno creduto che i due poli si combattessero. Io, avendo capito dal 2000 che si trattava del "partito unico delle due coalizioni" e che la differenza tra centrosinistra e centrodestra era inferiore a quella tra fanfaniani e dorotei non votai più.
Ebbene, il PCI declamo' di essere escluso dal governo che aveva scelto la strada reazionaria (ma nel 1951 ci fu la riforma agraria e nel 1964 fu abolita la mezzadria; insomma piano piano le cose si facevano), però voto' almeno il 90% delle leggi tra il 1950 e il 1960, secondo Pizzorno ( questo fatto, ipotizzando che Pizzorno abbia ragione, le imporrà di ricostruire la storia e di prendere atto che lei, come molti altri, la ricostruisce soltanto sulla base del profilo esteriore-mediatico-declamistico-ideologico? o non le interessa mettere in dubbio la sua ricostruzione sulla base di una notizia che se vera dovrebbe sconvolgerla?). Perché in pubblico si litigava ma in privato la classe dirigente nazionale concordava una linea comune (lo ha ricordato ultimamente anche Guarino) accettabile anche per l'opposizione, anche se non era la linea comune sperata durante il governo iniziale del quale i comunisti furono parte.
Nessuno ha negato che ciò che avvenne in quegli anni fu anche merito del PCI e del PSI, poi dei movimenti sociali degli anni settanta e del quadro internazionale. Siete voi che, qualificando quella repubblica come "democristiana" utilizzate una qualifica che contrasta con le vostre esatte affermazioni sui meriti di altri partiti, dei movimenti sociali e sui condizionamenti derivanti dalla situazione internazionale. Ma allora, se la pensate così, perché non la smettete, incoerentemente, di chiamare quella repubblica democristiana?
bmv1 ha una incredibile capacità di attribuire a me sempre ciò che non dico. Non ho detto che la asserita (viene da ridere) sinistra radicale sia nazista. Ho detto che accetta presupposti dentro i quali ci può essere soltanto il liberismo. Insomma non ho detto che è nazista e non ho detto, a rigore, nemmeno che è liberista. Ho detto che è stupida, che si è bevuta il cervello.
Moreno, che io ricordi, il PCI si astenne sullo statuto dei lavoratori, non votò contro. Comunque poi lo ha sempre difeso e considerato una conquista.
Il gioco del PCI era proprio questo: voleva sempre di più. Con questa posizione conquistava il consenso. Era una posizione ragionevole e sensata. Direi ovvia e naturale in quel contesto. Ma non era estraneo (e man mano che passava il tempo era sempre meno estraneo) alla dialettica del potere. I capi dei diversi partiti si consultavano. Esternamente c'era la conventio ad escludendum, con i vincoli che importava. Ma la situazione internazionale, il moderatismo diffuso nella DC (non tutti cercavano lo scontro), e l'anima popolare e sociale della DC, sempre in maggioranza relativa in quel partito, crearono di fatto una parziale conventio ad includendum. Insomma non c'era solo il ricatto dei movimenti sociali e il rischio da vitare della vittoria comunista, che portava ad ovvie concessioni; c'era anche l'accordo di fondo su quelle concessioni. Salvo sempre il ruolo esterno nel quale il PCI era sempre scontento e voleva sempre di più. Il teatro della politica è sempre esistito e sempre esisterà. In ogni tempo.
Stefano D'Andrea
BAGNAI DOCET
«...come da me previsto in questo articolo a te certamente noto, ovviamente la destra è arrivata prima di voi. Mentre il vostro segretario, continua a ragliare in giro per il mondo che io sono un liberista e che l'euro protegge i lavoratori (vediti il mio intervento sul Fatto Quotidiano di oggi), importanti leader della destra, da quella presentabile a quella veramente zozza e fascista, cercano me, l'unico economista che abbia parlato di lotta di classe sul Manifesto negli ultimi tre anni (!), mi ascoltano con attenzione, e si preparano a farvi il culo.....
http://goofynomics.blogspot.it/2013/10/ultime-da-zombia.html»
Scusa D'Andrea mi sembrava di aver messo che non parlavo necessariamente di te.
Detto questo la tua interpretazione di Pizzorno è curiosa, perché per quello che mi ricordo io il politologo in questione non è che abbia un giudizio positivissimo di quest'attività. Ma tu sei un giurista, mi pare di aver capito, e come tutti i giuristi (generalizzazione un po' stupida, ma si fa per capirsi) finisci col guardare gli atti formali senza capire né che cosa significavano in quel contesto né in che modo c'erano arrivati. Chi li subiva tatticamente e chi li appoggiava per convinzione. Però qui mi pare, perdonami, che ciurli nel manico perché tutto si potrà dire di te tranne che sei scemo e quindi questa distinzione non la fai in modo strumentale. Come strumentalmente non discuti il fatto di chi sono quelli che si dicono né di destra né di sinistra o il significato che può avere questa frase. Detto questo, ma ci tornerò, fatti un giro sui siti e vedi quali sono le idee degli antiEu: in generale (altra generalizzazione, ci saranno le eccezioni figurati) è tutta gente che a Lampedusa sarebbe andata volentieri: ad ucciderli con le loro mani. Bei compagni di viaggio ci avete.
bvzm1
Gli antiEU sono in parte -non direi in prevalenza (escluderei tutti gli MMT e gli ME-MMT, tutti i Bagnaiani, tutti i lettori di Orizzonti48, il gruppo raccolto intorno a Reimpresa italia, quelli di Ross@, almeno quelli che sono coerentemente contro l'UE, MPL, tutti i simpatizzanti pentastellati sovranisti che mi è capitato di conoscere, gli iscritti all'ARS e certamente tanti altri.
Che ci siano gli anti UE che hanno le tue idee lo so. In Grecia i partiti più sovranisti sono il KKE e Alba dorata.
Se in Italia siamo ancora pochi e stiamo svolgendo un lavoro che è anche culturale, oltre che politico, è proprio perché la sedicente sinistra radicale ha dimenticato o messo nel cassetto la critica a Maastricht (e quindi anche all'euro, che Maastricht preparava). Se fosse stata davvero contraria, perché avesse compresso tutto ciò che Maastricht implicava, la sinistra radicale in questi 20 anni avrebbe dedicato alla critica della UE il 90% dei suoi discorsi (e oggi avrebbe avuto un partito del 10% al quale probabilmente sarei stato iscritto). Invece ne ha fatto un tema come tanti e ha scelto di andare al governo con gli unionisti e di attuare Maastricht per ci cinque anni di governo.
Quindi, ciò che osservi, che corrisponde sostanzialmente al vero, non dimostra nulla, se non le gravi colpe, carenze, la confusione e la mancanza di lungimiranza degli intellettuali della sinistra radicale italiana e dei dirigenti. Che è proprio lamia tesi.
Stefano D'Andrea
NOTA A MARGINE
La Redazione di sollevazione consiglia l'ascolto di questa breve prolusione poiché ne condivide lo spirito.
Confiteor Ciociarus
la "questione ciociara" era sul post di porcaro...
antonio.
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