13 ottobre. È appena uscito il libro di Ernesto Screpanti L’imperialismo globale e la grande crisi. Lodevolmente, è stato pubblicato in edizione online scaricabile gratis. È un tentativo di spostare avanti, adeguandolo ai tempi, il dibattito sull’imperialismo.
La globalizzazione sta realizzando una nuova forma di dominio imperiale nella quale il grande capitale multinazionale, attraverso il mercato, priva di sovranità e di autonomia politica le organizzazioni locali, i sindacati, i partiti e le istituzioni deliberative. La grande crisi del 2007-13 ha fatto esplodere le contraddizioni tra stato e capitale. Nello stesso tempo sta accelerando il processo di affermazione dell’imperialismo globale. Si configura come una crisi di transizione fra il sistema tardo-novecentesco delle relazioni e dei pagamenti internazionali e un nuovo sistema basato sul multilateralismo, su un Super-Sovereign Currency Standard e su una forma del tutto inedita del potere mondiale del capitale.
Ho rivolto delle domande a Ernesto Screpanti per chiarire alcune questioni cruciali e per portare alla luce il senso in cui la sua analisi, che si presenta come altamente innovativa pur entro la tradizione marxista, ci permette di capire l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica.
D) La differenza tra le tue tesi e quelle di Lenin sono legate a una nuova fase dell’accumulazione del capitale o si tratta di una diversa impostazione teorica nell’affrontare la questione?
R) Dai tempi di Lenin è cambiata non solo la fase dell’accumulazione, ma anche la forma del capitalismo. L’analisi di Lenin era adeguata per il capitalismo trustificato dell’era degli imperi coloniali. Il capitale di ogni nazione cresceva coi profitti monopolistici entro un mercato parzialmente protetto, e spingeva lo stato a espandere il mercato nazionale con l’impero. Oggi il grande capitale ha travalicato i confini degli imperi e si accumula su scala mondiale senza riguardo agli interessi nazionali di questo o quel paese, neanche quelli in cui risiedono le case madri delle imprese multinazionali. Degli imperi nazionali costituirebbero delle limitazioni geografiche all’espansione commerciale e all’accumulazione. Per questo il grande capitale di oggi è libero-scambista. La sua ideologia è quella della globalizzazione come processo di abbattimento delle barriere protezionistiche, mentre quella del capitale dei tempi di Lenin era il nazionalismo protezionistico. La mia impostazione metodologica è la stessa di Marx, e parte dalla tesi che la tendenza del capitale a proiettarsi sui mercati mondiali è una proprietà intrinseca dell’accumulazione capitalistica e non dipende da un difetto distributivo, come invece argomentava Hobson, il quale individuava la radice dell’imperialismo nella cattiva distribuzione del reddito e nella conseguente tendenza al sottoconsumo. Lenin, pur riprendendo molte tesi di Hobson, non dà importanza al sottoconsumo e, sulla scorta di Hilferding, sviluppa un’analisi più generale. Certamente è più marxista dell’economista laburista inglese: non pensa che l’imperialismo possa essere combattuto con una politica riformista di redistribuzione del reddito. La mia analisi non è in contrasto con quella di Lenin. È una generalizzazione della teoria dell’imperialismo e un adeguamento alla fase attuale dell’accumulazione.
D) Volendo fissare a scala storica il rapporto dei due conflitti mondiali con l’accumulazione capitalistica, questa era in espansione o in depressione quando esplosero i due conflitti?
R) La prima guerra mondiale scoppiò al culmine di un’onda lunga di crescita della produzione e del commercio internazionale. Scoppiò perché gli imperi coloniali avevano raggiunto il massimo di espansione geografica ed erano arrivati a un punto di conflittualità tale che solo una guerra poteva ridisegnarne i confini e i rapporti di potere. Tra le due guerre ci fu invece un periodo di depressione, di forte protezionismo, di svalutazioni e deflazioni competitive, specialmente dopo la crisi del ’29. Il sistema dei pagamenti internazionali vigente prima della prima guerra mondiale era entrato in crisi, il Gold Standard creava più problemi di quanti ne risolveva, la Gran Bretagna aveva perso l’egemonia economica e la capacità di regolare l’economia mondiale con la sua politica monetaria, ma gli Stati Uniti non erano ancora pronti a subentrare. Quindi il sistema dei pagamenti internazionali entrò nel caos, e ciò acutizzò alcune contraddizioni inter-imperiali. Il Giappone era uscito dalla crisi del ‘29 adottando forti politiche di riarmo e avanzava ambizioni imperiali sul Pacifico che gli americani non potevano tollerare. In Europa la Germania era uscita dalla crisi prima degli altri paesi, e anch’essa con delle politiche di riarmo. L’Unione Sovietica non aveva risentito della crisi e cresceva a ritmi sostenuti, suscitando grandi preoccupazioni in tutte le grandi potenze imperialiste. In altri termini il superamento della crisi del ’29 aveva consentito alla Germania, al Giappone, all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti di crescere in potenza economica, e aveva declassato le potenze inglese e francese. D’altronde la prima guerra mondiale non aveva risolto i conflitti inter-imperiali europei, né aveva fatto emergere una super-potenza capace di sostituirsi alla Gran Bretagna. Così i conflitti sono riesplosi. Insomma la seconda guerra mondiale si configura come una ripresa della prima, tanto che alcuni parlano di “guerra dei trent’anni”.
D) Potresti chiarire meglio la tesi secondo cui un paese di giovane capitalismo ma di grandi dimensioni, come per esempio la Cina, soffre meno l’influsso depressivo della globalizzazione e del dominio delle multinazionali rispetto a paesi minori come per esempio la Siria, la Tunisia o l’Egitto?
R) La Cina, dopo un periodo di accumulazione primitiva durato quasi mezzo secolo, si è aperta agli scambi internazionali e ha potuto far trainare la sua crescita dalle esportazioni. Ha usufruito di vantaggi competitivi connessi al basso costo del lavoro e alle deboli politiche ambientali. Tuttavia non ha adottato l’ideologia neoliberista. Il governo ancora dirige l’economia nazionale: con le politiche monetarie (L’80% del sistema bancario cinese è controllato pubblicamente); con le politiche fiscali (ad esempio ha risentito poco della crisi dei subprime perché ha adottato politiche fiscali espansive, compensando la diminuzione delle esportazioni con un aumento dei consumi pubblici); con le politiche industriali, che mirano ad attrarre investimenti esteri mentre favoriscono al formazione di grandi agglomerati industriali nazionali, e che sostengono gli investimenti pubblici e privati nella ricerca scientifica e tecnologica; con le politiche commerciali verso il Sud del mondo, in cui i cinesi propongono ai singoli paesi accordi bilaterali di baratto che non sono in linea con l’ideologia libero-scambista del WTO. Tuttavia il fattore più importante del successo cinese è che le politiche governative si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale, i cui investimenti diretti esteri in Cina e le cui esportazioni di merci dalla Cina sono incoraggiati e favoriti. Tutti i paesi emergenti godono di questi vantaggi, ma quelli piccoli che hanno liberalizzato completamente i movimenti di capitale, e che dipendono dagli investimenti esteri speculativi, sono più vulnerabili alle crisi finanziarie, e i loro governi hanno meno margini di autonomia politica.
D) Sembra di capire che una tua tesi, in sintonia con Marx, è che l’imperialismo abbia creato nei paesi di giovane capitalismo solo il proletariato, che il movimento dei capitali nel suo insieme non abbia consentito il formarsi di più classi sociali al di sopra del proletariato, ovvero di una vera e propria borghesia indigena. Da alcuni dati empirici, relativi a Cina, India, Brasile, ma anche Siria, Libia, Tunisia, Algeria e cosi via, sembrerebbe che le cose non stanno così. Puoi chiarire meglio l’argomento?
R) La globalizzazione fa aumentare la disuguaglianza economica in tutto il mondo, fa diminuire la quota salari sul reddito nazionale e aumentare la concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani dei grandi capitalisti finanziari e industriali. Tuttavia, per quanto riguarda le classi medie, ha effetti diversi nei diversi paesi. In quelli avanzati, in cui l’accumulazione rallenta, le classi medie s’impoveriscono e, in seguito alla crisi 2007-13, larghi strati di piccola borghesia si stanno proletarizzando. In quelli emergenti invece, a causa del forte sviluppo economico, le classi medie tendono a crescere sia in ricchezza che in numerosità.
D) Alexander Gerschenkron, in Il problema storico dell’arretratezza economica, formula questo tipo di interrogativo: “è stato il capitalismo a ‘creare’ lo spirito del capitalismo o è stato lo spirito capitalista a ‘creare’ il capitalismo? Puoi fornire una tua risposta?
R) Sono propenso a credere che, nonostante alcune ideologie religiose (come il calvinismo) abbiano favorito la formazione del capitalismo moderno, tuttavia è lo sviluppo materiale del capitalismo che ha fatto emergere le ideologie che lo sostengono. E le ideologie possono essere le più diverse. Anche il cattolicesimo può essere adattato per servire l’accumulazione del capitale, come dimostra il successo del capitalismo italiano dei secoli XIII-XV e i miracoli economici italiano e francese del secondo dopoguerra. Anche lo stalinismo ha potuto essere utilizzato per sostenere l’accumulazione del capitale (nei sistemi a capitalismo di stato).
D) Secondo un concetto di Vico, ripreso da Lafargue in Il determinismo economico di Marx, esiste una legge fondamentale dello sviluppo delle società secondo cui tutti i popoli raggiungono le stesse tappe storiche, qualunque siano le loro origini etniche e il loro habitat geografico. Possiamo affermare a questo stadio di sviluppo dei rapporti sociali a livello mondiale che il capitalismo si è ormai imposto in tutto il pianeta con le sue leggi in maniera irreversibile?
R) Non tutte le nazioni raggiungono il capitalismo con le stesse tappe e con le stesse modalità. Basti confrontare la Gran Bretagna e la Russia. Ma è vero che tutte hanno ormai raggiunto o stanno per raggiungere la fase di piena affermazione del capitalismo. Storicamente si è verificato un processo di convergenza al capitalismo attraverso diverse fasi, diverse istituzioni, diverse ideologie, diverse politiche. Il capitalismo del grande capitale multinazionale oggi domina incontrastato tutto il globo, che tende a rendere sempre più omogeneo in termini di struttura produttiva, di composizione sociale e di egemonia ideologica. E’ irreversibile? Certamente lo è rispetto alle forme economiche precedenti. Ma non c’è ragione di credere che sia eterno.
D) Il cuore del libro mi pare risiedere nella tesi sull’impersonalità dei capitali, sulle leggi naturali che ne regolano il funzionamento del moto, sull’accettazione di queste da parte del personale burocratico, amministrativo, politico e cosi via. Ma i luoghi fisici potranno essere soltanto le sedi delle multinazionali e dei grandi istituti finanziari?
R) Quando parlo di “Leggi naturali” ci metto sempre le virgolette. Sono “naturali” nel senso che non risultano da un piano centrale, né dai complotti di alcuni circoli esclusivi (Trilaterale, Bildenberg ecc.). Benché ci siano indubbiamente alcuni centri di potere che cercano di dirigere l’orchestra, nessuno è in grado di dominarla. Le leggi “naturali” che regolano i mercati internazionali sono la risultante inintenzionale delle azioni intenzionali di miriadi di agenti decisionali (i manager delle grandi multinazionali in primis, ma anche le lobby, i dirigenti degli organismi economici internazionali, i governatori di alcune banche centrali, i capi di alcuni governi). Gli agenti decisionali sono così tanti e così “piccoli” rispetto al concerto complessivo, che nessuno di essi (e nessuna loro coalizione) riesce a dettar legge a tutto il sistema. Le leggi che lo regolano tuttavia sono coerenti, per il semplice fatto che (quasi) tutti gli agenti perseguono, direttamente o indirettamente, lo stesso obiettivo: l’accumulazione del capitale. Né si deve credere che la crescita delle dimensioni delle imprese e la loro tendenza a creare potere oligopolistico possa portare prima o poi alla formazione di pochi grandi centri decisionali cartellizzati, come riteneva Kautsky. Le multinazionali crescono di scala ma anche di numero. Nel 1976 ce n’erano circa 11.000. Nel 2010 sono diventate 103.788. La forma di mercato prevalente nel capitalismo contemporaneo non è il monopolio, bensì la concorrenza oligopolistica.
D) Ad un certo punto affermi che “La legge del valore è una legge fondamentale del capitalismo. E’ essa che determina il suo ‘equilibrio sociale’”. Puoi chiarire meglio cosa intendi per “equilibrio sociale”?
R) Il concetto di “equilibrio sociale” è di Marx. Io mi limito a riprenderlo e applicarlo all’analisi del capitalismo contemporaneo. Marx con quel concetto vuol dire che attraverso la concorrenza di mercato il capitale riesce ad allocare il lavoro in modo efficiente, cioè in modo da massimizzare il profitto estraendo dal lavoro il massimo di produttività e pagando il minimo di salario. È un equilibrio di riproduzione, nel senso che vengono eliminate dalla concorrenza le imprese inefficienti e quindi gli usi scarsamente produttivi del lavoro e nel senso che la risultante distribuzione del reddito assicura la riproduzione del capitale su scala allargata. È un equilibrio sociale capitalistico in quanto determina un rapporto di classe compatibile con il perseguimento della valorizzazione e dell’accumulazione del capitale.
D) “Ebbene – scrivi a pagina 124 - nell’imperialismo globale contemporaneo non si può certo dire che s’è raggiunta la pace mondiale o che si stia realizzando anche solo una vaga tendenza a raggiungerla. Tuttavia ha preso corpo una certa predisposizione collaborativa dei principali stati. Tale predisposizione si manifesta sia nella tendenza a organizzare operazioni militari concertate nei tentativi di aprire i paesi recalcitranti alla penetrazione del capitale, sia negli sforzi più o meno velleitari dei vari G2, G7, G10, G20 volti a predisporre delle politiche economiche concordate. In molti casi entrambe le tendenze sono incoraggiate dal grande capitale. Possono essere favorite dall’azione di potenti lobby capitalistiche nazionali. La cosa interessante è che nel sistema capitalistico globale queste lobby, che siano americane, europee o giapponesi, si lavorano le classi politiche nell’interesse di tutto il capitale multinazionale.” Emergerebbe in questo modo una sorta di equilibrio di “paura” da parte delle varie componenti lobbystiche che tendono all’accordo contro i paesi più deboli piuttosto che sfidare il concorrente per sbranare il dominato? Insomma gli imperialisti più forti si sono indeboliti e quelli meno forti si sono rafforzati al punto da tenersi in “pauroso”equilibrio come gli ultimi accadimenti per la Siria dimostrerebbero?
R) I conflitti politici sono determinati innanzitutto dalle ambizioni geopolitiche delle grandi potenze, le quali esprimono gli interessi di potere delle classi politiche che governano gli stati. Non dipendono direttamente dagli interessi del capitale. Questi ultimi si fanno sentire attraverso l’azione delle lobby, le quali però non sempre riescono a determinare direttamente l’azione degli stati. Tuttavia accade che, alla lunga, il conseguimento degli obiettivi politici delle grandi potenze viene piegato, attraverso il mercato, a servire gli interessi del grande capitale globale. Oggi viviamo in un’epoca in cui l’unilateralismo americano segna il passo, incalzato com’è dalla crescita della potenza economica dei paesi emergenti. I recenti avvenimenti della guerra in Siria si capiscono in quest’ottica. I russi appoggiano Assad soprattutto per conservare le proprie basi militari nel Mediterraneo. Gli americani vorrebbero intervenire in Siria sia per contrastare i russi sia per favorire la politica di Israele, che vorrebbe cronicizzare la guerra civile in Siria in modo da indebolire il suo principale nemico. Gli interessi del capitale russo non sono in cima alle preferenze di Putin, così come quelli del capitale americano non sono in cima alle preferenze di Obama. Non sappiamo come andrà a finire, ma non si può escludere che gli accordi delle grandi potenze portino all’apertura dei mercati e dei porti siriani alla penetrazione del grande capitale americano, russo, cinese, europeo ecc. In tal caso gli interessi politici delle grandi potenze sarebbero stati piegati a servire gli interessi economici del capitale multinazionale.
D) A pagina 136 poni in evidenza il ridursi dello stato a mera funzione di poliziotto per il mantenimento dell’ordine sociale e addirittura a una aperta contraddizione tra le multinazionali e gli apparati burocratici e politici – dunque anche partiti e sindacati – dello stato nazionale. La domanda è d’obbligo: ma esisterebbe una linea di tendenza verso il superamento degli stati nazionali, una sorta di estinzione di confini geografici per arrivare a istituzioni internazionali derivanti e perciò immediatamente controllati dalle multinazionali, insomma il rapporto esistente a livello nazionale si accrescerebbe a livello internazionale polverizzando in questo modo il ruolo delle burocrazie nazionali degli stati?
R) Il potere che il capitale esercita sugli stati deriva dalla capacità degli investimenti diretti esteri e di portafoglio di muoversi liberamente nei mercati mondiali. Gli stati, così come i sindacati e le grandi organizzazioni politiche nazionali, sono messi sotto ricatto: o si abbassa il costo del lavoro, la pressione fiscale sulle imprese, il costo sostenuto dalle imprese per la tutela ambientale e la difesa dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, oppure il capitale delocalizza. Ciò genera crisi fiscale dello stato, riduzione dello stato sociale e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Lo stato perde la capacità di agire come “capitalista collettivo nazionale”, cioè di creare un blocco sociale che coinvolga tutte le classi nella difesa degli interessi “nazionali”. Le politiche fiscali degli stati sono sottoposte a vincoli così stretti che i governi possono decidere solo come distribuire i tagli di benessere sociale. In queste condizioni s’inaspriscono le spinte alla conflittualità e i governi nazionali sono indotti a svolgere il ruolo di repressione e controllo del conflitto, cioè ad assumere esclusivamente la funzione di “gendarme sociale”. Il grande capitale multinazionale mira a una governance globale senza sovrano, cioè un governo del mondo assicurato dai mercati, non dai parlamenti. L’ideologia neoliberista dello “stato minimo” si è infine concretizzata in un sistema in cui non esiste uno stato globale, mentre gli stati nazionali sono ridotti a svolgere solo una funzione di disciplanamento della classe operaia e di repressione poliziesca interna. Per questo non esiste alcuna tendenza al superamento degli stati nazionali e alla formazione di organismi di governo sopranazionali. Le multinazionali non sanno che farsene dell’ONU. Né hanno bisogno di forze armate dell’ONU. Le azioni di polizia locale sono assicurate dagli stati nazionali. Quelle di apertura dei “paesi canaglia” alla penetrazione del capitale sono svolte dalle forze armate degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Lo “sceriffo globale” produce un bene pubblico nell’interesse di tutto il capitale mondiale, meglio di quanto possa fare l’ONU, e per il semplice fatto che le forze armate americane non sono controllate da un parlamento mondiale.
D) Le cause fondamentali della crisi attengono all’economia reale – scrivi a pag. 145. Stante dunque la legge del valore, siamo in presenza di una sempre più accentuata caduta tendenziale del saggio di profitto a livello globale?
R) Non so se oggi il saggio di profitto globale stia cadendo. È difficile misurarlo. Come calcoliamo il valore del capitale e dei profitti cinesi, russi, indonesiani? Come li omogenizziamo al livello mondiale? In Dollari, in Parità di Potere d’Acquisto, in valute nazionali? E nei profitti includiamo anche le rendite finanziarie e speculative incassate dalle multinazionali, i guadagni di capitale incassati dai manager con le stock option, le entrate pubbliche fornite dalle imprese statali? E ci mettiamo anche i profitti delle banche, dei fondi speculativi, delle assicurazioni, dei conduit? E gli stipendi dei grandi manager li consideriamo profitti o reddito da lavoro dipendente? E i portafogli finanziari degli speculatori, delle banche e delle imprese industriali li consideriamo capitale? E il valore del capitale e delle attività che lo rappresentano lo calcoliamo ai costi storici, al valore nominale o al valore di mercato? La scelta che si fa riguardo al modo di trattare tutte queste variabili influenza il tasso di profitto rilevato, per cui chi vuole dimostrare che è caduto potrebbe riuscirci, ma anche chi vuole dimostrare che è aumentato. Quello che si sa per certo comunque è che la quota salari sul reddito nazionale sta diminuendo in quasi tutti i paesi del mondo, avanzati, emergenti e in via di sviluppo. D’altra parte la ricerca empirica ha dimostrato che anche la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sta aumentando, così come sta aumentando la concentrazione della ricchezza nelle mani dei capitalisti e degli speculatori. Dubito che questa tendenza implichi la caduta del saggio di profitto. La legge del valore di per sé non può far diminuire il tasso di profitto, perché serve la valorizzazione del capitale. E’ probabile che il saggio di profitto sia diminuito negli ultimi decenni in alcuni paesi avanzati, ma questa non è la causa della globalizzazione, invece ne è la conseguenza. Non sembra comunque che il saggio di profitto stia diminuendo a livello globale.
D) Nella conclusione del V capitolo, a pag. 169, affermi: “Oggi i governi dei paesi avanzati sembrano incapaci di capire e fronteggiare il problema andando alle radici, e quindi di risolverlo”. Spontanea la domanda: possono governi diversi fronteggiare e risolvere problemi strutturali dell’economia reale? Se si, in che modo?
R) La parola da sottolineare in quella frase è sembrano. Nel libro spiego che in realtà dietro l’incapacità di risolvere la crisi in Europa c’è una precisa volontà di usarla per fare le cosiddette “riforme strutturali”, cioè tagli al costo del lavoro, privatizzazioni di imprese pubbliche e di risorse comuni ecc. Ma facciamo l’ipotesi che i governi volessero veramente risolvere la crisi migliorando le condizioni di vita dei popoli e dei lavoratori. Potrebbero farlo? La mia tesi è che nei paesi piccoli, come l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, il Giappone, non possono farlo. Prendiamo il Giappone, in cui Il governo Abe sta cercando di rilanciare l’economia con una politica fiscale e monetaria di tipo keynesiano. Ebbene la stessa politica prevede un attacco pesante ai salari, con l’inflazione scatenata dalla svalutazione dello Yen e con forti aumenti delle imposte indirette. È inevitabile, se le merci giapponesi devono diventare competitive con quelle cinesi. Alla fine si scoprirà che quella politica avrà fatto aumentare un po’ il tasso di crescita del PIL, ma avrà fatto diminuire ulteriormente la quota salari sul reddito nazionale. Né si può escludere, come sostengono alcuni, che porti prima o poi allo scatenamento di una grave crisi. Nei grandi paesi emergenti invece i governi hanno maggiori spazi di manovra perché quelle economie si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale e possono godere dei vantaggi del basso costo del lavoro e dell’attrattività per gli investimenti diretti esteri. In Cina infatti il governo ha reagito alle crisi dei subprime e dell’euro adottando delle politiche keynesiane che hanno in parte sostituito le esportazioni con i consumi interni, soprattutto pubblici. Anche per la Cina tuttavia c’è il rischio dello scoppio di una grande crisi (forse per l’esplosione di una maxi-bolla immobiliare). Gli Stati Uniti hanno reagito alla crisi dei subprime con timide politiche fiscali espansive e audaci politiche monetarie. C’è la ripresa del PIL, ma anche una tendenza alla crisi fiscale dello stato, oltre al gonfiamento di bolle speculative che creano instabilità mondiale. Vedremo come andrà a finire. La mia previsione è che la ripresa americana sarà debole e di breve durata. E veniamo all’Europa. Forse questa è l’unica economia in cui una politica keynesiana espansiva potrebbe avere successo. Ma sottolineo forse. Se la Germania espandesse fortemente la sua spesa pubblica, portando l’economia alla piena occupazione e la bilancia commerciale in deficit, cioè assumendo il ruolo di locomotiva, tutte le economie del continente si rimetterebbero in moto. La bilancia commerciale europea tenderebbe al disavanzo cronico, ma questo non sarebbe un grosso problema, visto che l’euro verrebbe usato come moneta di riserva internazionale a fianco del dollaro. L’euro stesso avrebbe una tendenza alla svalutazione, che potrebbe essere controllata dalla BCE in modo da renderla non dirompente. La svalutazione stessa sosterrebbe le esportazioni e quindi la crescita del PIL. Perché l’Europa potrebbe avere questo privilegio politico mentre gli Stati Uniti lo stanno perdendo? Perché l’economia europea resta la più grande del mondo dal punto di vista commerciale. Oggi, se la Germania fosse capace di sostituirsi agli Stati Uniti nel rapporto privilegiato con la Cina, potrebbe svolgere insieme a questo paese il ruolo di motore dell’accumulazione mondiale. Ma allora perché le classi dirigenti tedesche non si muovono in questa direzione? Perché sono stupide? No. Perché in questa fase vogliono sfruttare la depressione e la crisi per fare le “riforme strutturali” in tutta Europa.
D) Accumulazione e forza dell’imperialismo. Nel VI capitolo, a pag. 183, affronti la tendenza all’indebolimento del signoraggio degli Usa, ovvero alla messa in discussione delle tre funzioni storiche su cui quel paese ha dominato per molti anni: banchiere, motore dell’accumulazione e sceriffo. Potresti precisare il rapporto crescente o decrescente degli investimenti Usa negli armamenti in rapporto alla propria decrescita dell’accumulazione? Secondo l’Engels dell’Antidhuring la forza di uno stato, di una nazione, è l’espressione concentrata della forza dell’economia a un certo stadio di sviluppo. Ne dovrebbe conseguire, con la decrescita dell’accumulazione, una decrescita degli investimenti negli armamenti, se è vero che ‘la moneta non figlia valore’ per dirla con Rosa Luxemburg, così come emerge a pag. 202 circa l’uso smodato della pompa monetaria. A che punto è dunque quel tipo di rapporto?
R) Gli Stati Uniti stanno perdendo egemonia, e per il semplice fatto che la loro economia ha cessato di essere la più forte del mondo. Sul commercio internazionale pesano il 10%, quando nel 1948 pesavano il 25%. Sul PIL mondiale pesano il 19%, e nel 2010 sono sati superati dalla Cina (22%). Il dollaro è in un lungo trend di svalutazione rispetto allo yuan e all’euro. Le spese militari sono massicce. Nel 2008 costituivano il 17,1% della spesa pubblica, la quota più alta di tutti i capitoli di spesa, (le spese in istruzione costituivano il 3,2%). Il PIL non cresce abbastanza, poiché i salari e i consumi ristagnano, mentre le imprese tendono a delocalizzare gli investimenti. Quindi gli Stati Uniti, se vogliono continuare a fare lo sceriffo globale, dovranno aumentare il peso delle spese militari sul Prodotto Nazionale. Cosa che però farebbe aggravare i problemi di bilancio e la tendenza alla crisi fiscale dello stato. La bolla immobiliare d’inizio decennio ha consentito di sostenere lo sviluppo, ma ha generato un grave deficit della bilancia commerciale e quindi una forte crescita dell’indebitamento estero, e poi ha portato alla grande crisi. Insomma gli Stati Uniti stanno vivendo in una contraddizione insanabile. Se restano al servizio del capitale multinazionale, continuando a svolgere la funzione di sceriffo globale, aumentano il debito pubblico, il debito privato (delle imprese e delle famiglie) e il debito estero, sprofondano nella crisi fiscale, e il dollaro perde valore e prestigio. Se vogliono evitare tutti questi problemi devono rinunciare all’egemonia. Il governo non può più svolgere la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Tendenzialmente non potrà neanche svolgere bene la funzione di banchiere mondiale, visto che in tale veste genera più crisi che sviluppo. E comunque il mantenimento del signoraggio del dollaro dipende sempre più dalla benevolenza della Cina e di altri grandi paesi emergenti, che acquisiscono nei confronti degli USA un crescente potere di ricatto monetario.
D) Punto complicato, circa l’oggettiva collusione di rapporto tra Usa e Cina, ove sostieni che la Cina ha alimentato la bolla statunitense. Ora se lo scoppio della bolla ha significato l’evaporazione di valore precedentemente accumulato – in Cina, con lo sfruttamento del proletariato indigeno di quel paese – quali potranno essere le conseguenze rispetto all’accumulazione in termini di valore, il non ritorno di quei prestiti sia in Cina che negli Usa stessi?
R) Per il momento sembra che la Cina non voglia rovesciare il tavolo. Sta consentendo una sistematica rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro, così favorendo la ripresa delle esportazioni e della produzione americane. Accetta di perdere valore delle proprie riserve, e continua a finanziare l’economia americana seppure a ritmi meno sostenuti che nel passato. Nello stesso tempo, senza troppo rumore, si sta sostituendo agli Stati Uniti come potenza dominante in Asia, Africa e America Latina. Inoltre sta rinsaldando i propri legami diplomatici con la Russia e la Germania. Sul piano monetario non ha fatto mistero della propria intenzione di superare il Dollar Standard, ad esempio con la trasformazione del Fondo Monetario Internazionale in una vera banca centrale mondiale che emetta una moneta (diritti speciali di prelievo) che gradualmente sostituirà il dollaro. Peraltro sta espandendo enormemente i propri investimenti diretti esteri, i quali nel 2030 (secondo una previsione della Banca Mondiale) saranno il 30% di quelli globali! Insomma la Cina sta lavorando ai fianchi. Quando arriverà l’uppercut, gli Stati Uniti perderanno il signoraggio del dollaro e la Cina rileverà (forse insieme all’Europa) la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Comunque anche la Cina ha i suoi problemi. La grande crisi 2007-13 non ha generato una recessione nella sua economia, ma ha fatto diminuire il tasso di crescita del PIL dal 12% al 7,5%. Nel 2013 sarà probabilmente ancora più basso. Si tenga presente che la Banca Centrale cinese ha calcolato che un tasso di crescita di almeno l’8% è necessario per la stabilità sociale interna. Al disotto di quel tasso la disoccupazione aumenta in modo preoccupante. La conflittualità operaia è endemica e crescente. Nel 2010 è partita un’ondata di scioperi senza precedenti che è continuata fino a tutto il 2012. E sono azioni industriali spontanee e di massa che scavalcano il sindacato ufficiale e che tendono ad assumere contorni illegali ed effetti politici dirompenti. Questo è il tallone d’Achille della Cina: una classe operaia supersfruttata (dalle imprese multinazionali, ma anche da quelle nazionali e da quelle statali). Gli operai vengono disorganizzati dal sindacato ufficiale e quindi devono esprime le loro rivendicazioni sfidando l’ordine costituito. Non è da escludere che il disegno neo-imperiale e mercantilista della Cina venga messo in crisi da una nuova “rivoluzione culturale”.
D) Veniamo alla madre di tutte le questioni, ovvero se questa crisi ha come sbocco possibile o addirittura obbligato una guerra mondiale come lo furono la Prima e la Seconda. “…Nel nord del mondo – scrivi a pag. 226 – la disoccupazione è continuata ad aumentare. Se nel 2013 gli speculatori realizzeranno che, trascinata verso il basso da Eurolandia o dal Giappone o addirittura la Cina, l’economia dei paesi avanzati continuerà a ristagnare, è possibile che si verifichi a breve una nuova ondata di crash finanziari. Allora tutti i nodi dei contrasti economici mondiali verranno al pettine repentinamente e il riaggiustamento dei rapporti di forza tra blocchi politici continentali potrebbe essere brusco. Si tratta di rivalità inter-imperiali insanabili, di quelle che sboccano in grosse conflagrazioni belliche come prima e seconda guerra mondiale? Non credo. Oggi esiste il grande capitale globale. S’incarna in imprese multinazionali che hanno il mondo intero come campo d’azione. E tali imprese, che siano americane, europee, giapponesi, cinesi, hanno tutte un interesse comune all’abbattimento delle frontiere nazionali, cioè alla liberalizzazione dei mercati”. Si tratta di una tesi abbastanza ardita, perché assegnerebbe al meccanismo oggettivo del moto capitalistico l’attenuazione della concorrenza fra nazioni, il che potrebbe anche starci; ma la concorrenza fra le merci, e dunque fra gli stessi gruppi dell’oppressione del capitalismo globale, in base a quale principio ridurrebbe fino ad annientarli i motivi della guerra?
R) Oggi le spinte alla guerra tra grandi potenze provengono più dalle ambizioni geopolitiche degli stati che dagli interessi del capitale multinazionale. La crisi ha accentuato la conflittualità tra stati. Una guerra mondiale è già in atto, ma è una guerra valutaria: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone hanno usato svalutazioni competitive (L’Europa ha adottato politiche di deprezzamento reale) con cui hanno cercato di scaricare sui paesi emergenti l’onere del rilancio della domanda mondiale. Ma non ha funzionato, in quanto ha scatenato delle crisi valutarie in molti di quei paesi (specialmente India, Brasile, Indonesia) spingendoli al rallentamento della crescita. Tanto che la Federal Reserve ha dovuto rivedere i suoi programmi di “assottigliamento” delle politiche di moneta facile. Una guerra mondiale vera e propria mi sembra altamente improbabile. Più facile una qualche guerra per interposta persona in Medio Oriente, oppure la continuazione di una guerra economica di tipo mercantilista, combattuta col protezionismo e le svalutazioni e le deflazioni competitive. Il capitale globalizzato non gradisce questo tipo di guerra, perché riduce gli scambi internazionali e quindi i profitti. Per lo stesso motivo non gradirebbe una devastante guerra mondiale distruttiva. Il capitale multinazionale non si identifica con gli interessi delle classi politiche nazionali. Non è la competizione tra nazioni che gl’interessa, ma la concorrenza oligopolistica tra le imprese sui mercati delle merci e del controllo societario, e la concorrenza a cui i mercati sottopongono gli stati. Questo tipo di guerra non si fa coi carri armati e i bombardamenti “chirurgici”, bensì con le innovazioni, la pubblicità, il marketing, il potere di mercato, la corruzione dei politici ecc. Gli stati servono, certamente, ma più per abbassare il costo del lavoro e assicurare la disciplina sociale che per erigere e allargare le barriere e i confini degli imperi nazionali.
D) In ultimo, nelle conclusioni, delinei una linea di tendenza verso una chiusura della forbice tra la condizione del proletariato delle metropoli e quello dei paesi emergenti o di giovane capitalismo, e l’estinzione dell’aristocrazia operaia, fino a ipotizzare quasi una tendenza verso un’oggettiva unità internazionale del proletariato gravida di possibili sbocchi rivoluzionari. Detto altrimenti: il capitalismo come Sistema Sociale e moto-modo di produzione si avvierebbe per sue stesse cause e leggi di funzionamento ad una sorta di crisi generale obbligando in questo modo il proletariato in quanto riflesso agente ad una azione rivoluzionaria dagli esiti tutt’altro che capitalistici?
R) La contraddizione fondamentale del capitalismo è quella di classe. La globalizzazione la sta esasperando, in quanto tende a redistribuire reddito dai salari ai profitti e ad aumentare la povertà relativa del proletariato. Nello stesso tempo sta livellando su scala mondiale le condizioni di lavoro e i salari (diretti, indiretti e differiti). Sta creando un proletariato mondiale sempre più omogeneo in termini di livelli di sfruttamento e di destituzione politica. Non solo, ma sta evirando le organizzazioni sindacali e riformiste del movimento operaio nei paesi avanzati, perché riduce la massa di valore che può essere usata per sostenere politiche d’integrazione operaia nei blocchi sociali capitalisti. E mentre si riducono fortemente gli spazi di manovra per le politiche riformiste nazionali, la conflittualità sociale aumenta in tutto il mondo. Non è detto che non possa sboccare in una grande ondata insurrezionale mondiale.
La globalizzazione sta realizzando una nuova forma di dominio imperiale nella quale il grande capitale multinazionale, attraverso il mercato, priva di sovranità e di autonomia politica le organizzazioni locali, i sindacati, i partiti e le istituzioni deliberative. La grande crisi del 2007-13 ha fatto esplodere le contraddizioni tra stato e capitale. Nello stesso tempo sta accelerando il processo di affermazione dell’imperialismo globale. Si configura come una crisi di transizione fra il sistema tardo-novecentesco delle relazioni e dei pagamenti internazionali e un nuovo sistema basato sul multilateralismo, su un Super-Sovereign Currency Standard e su una forma del tutto inedita del potere mondiale del capitale.
Ho rivolto delle domande a Ernesto Screpanti per chiarire alcune questioni cruciali e per portare alla luce il senso in cui la sua analisi, che si presenta come altamente innovativa pur entro la tradizione marxista, ci permette di capire l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica.
D) La differenza tra le tue tesi e quelle di Lenin sono legate a una nuova fase dell’accumulazione del capitale o si tratta di una diversa impostazione teorica nell’affrontare la questione?
R) Dai tempi di Lenin è cambiata non solo la fase dell’accumulazione, ma anche la forma del capitalismo. L’analisi di Lenin era adeguata per il capitalismo trustificato dell’era degli imperi coloniali. Il capitale di ogni nazione cresceva coi profitti monopolistici entro un mercato parzialmente protetto, e spingeva lo stato a espandere il mercato nazionale con l’impero. Oggi il grande capitale ha travalicato i confini degli imperi e si accumula su scala mondiale senza riguardo agli interessi nazionali di questo o quel paese, neanche quelli in cui risiedono le case madri delle imprese multinazionali. Degli imperi nazionali costituirebbero delle limitazioni geografiche all’espansione commerciale e all’accumulazione. Per questo il grande capitale di oggi è libero-scambista. La sua ideologia è quella della globalizzazione come processo di abbattimento delle barriere protezionistiche, mentre quella del capitale dei tempi di Lenin era il nazionalismo protezionistico. La mia impostazione metodologica è la stessa di Marx, e parte dalla tesi che la tendenza del capitale a proiettarsi sui mercati mondiali è una proprietà intrinseca dell’accumulazione capitalistica e non dipende da un difetto distributivo, come invece argomentava Hobson, il quale individuava la radice dell’imperialismo nella cattiva distribuzione del reddito e nella conseguente tendenza al sottoconsumo. Lenin, pur riprendendo molte tesi di Hobson, non dà importanza al sottoconsumo e, sulla scorta di Hilferding, sviluppa un’analisi più generale. Certamente è più marxista dell’economista laburista inglese: non pensa che l’imperialismo possa essere combattuto con una politica riformista di redistribuzione del reddito. La mia analisi non è in contrasto con quella di Lenin. È una generalizzazione della teoria dell’imperialismo e un adeguamento alla fase attuale dell’accumulazione.
D) Volendo fissare a scala storica il rapporto dei due conflitti mondiali con l’accumulazione capitalistica, questa era in espansione o in depressione quando esplosero i due conflitti?
R) La prima guerra mondiale scoppiò al culmine di un’onda lunga di crescita della produzione e del commercio internazionale. Scoppiò perché gli imperi coloniali avevano raggiunto il massimo di espansione geografica ed erano arrivati a un punto di conflittualità tale che solo una guerra poteva ridisegnarne i confini e i rapporti di potere. Tra le due guerre ci fu invece un periodo di depressione, di forte protezionismo, di svalutazioni e deflazioni competitive, specialmente dopo la crisi del ’29. Il sistema dei pagamenti internazionali vigente prima della prima guerra mondiale era entrato in crisi, il Gold Standard creava più problemi di quanti ne risolveva, la Gran Bretagna aveva perso l’egemonia economica e la capacità di regolare l’economia mondiale con la sua politica monetaria, ma gli Stati Uniti non erano ancora pronti a subentrare. Quindi il sistema dei pagamenti internazionali entrò nel caos, e ciò acutizzò alcune contraddizioni inter-imperiali. Il Giappone era uscito dalla crisi del ‘29 adottando forti politiche di riarmo e avanzava ambizioni imperiali sul Pacifico che gli americani non potevano tollerare. In Europa la Germania era uscita dalla crisi prima degli altri paesi, e anch’essa con delle politiche di riarmo. L’Unione Sovietica non aveva risentito della crisi e cresceva a ritmi sostenuti, suscitando grandi preoccupazioni in tutte le grandi potenze imperialiste. In altri termini il superamento della crisi del ’29 aveva consentito alla Germania, al Giappone, all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti di crescere in potenza economica, e aveva declassato le potenze inglese e francese. D’altronde la prima guerra mondiale non aveva risolto i conflitti inter-imperiali europei, né aveva fatto emergere una super-potenza capace di sostituirsi alla Gran Bretagna. Così i conflitti sono riesplosi. Insomma la seconda guerra mondiale si configura come una ripresa della prima, tanto che alcuni parlano di “guerra dei trent’anni”.
D) Potresti chiarire meglio la tesi secondo cui un paese di giovane capitalismo ma di grandi dimensioni, come per esempio la Cina, soffre meno l’influsso depressivo della globalizzazione e del dominio delle multinazionali rispetto a paesi minori come per esempio la Siria, la Tunisia o l’Egitto?
R) La Cina, dopo un periodo di accumulazione primitiva durato quasi mezzo secolo, si è aperta agli scambi internazionali e ha potuto far trainare la sua crescita dalle esportazioni. Ha usufruito di vantaggi competitivi connessi al basso costo del lavoro e alle deboli politiche ambientali. Tuttavia non ha adottato l’ideologia neoliberista. Il governo ancora dirige l’economia nazionale: con le politiche monetarie (L’80% del sistema bancario cinese è controllato pubblicamente); con le politiche fiscali (ad esempio ha risentito poco della crisi dei subprime perché ha adottato politiche fiscali espansive, compensando la diminuzione delle esportazioni con un aumento dei consumi pubblici); con le politiche industriali, che mirano ad attrarre investimenti esteri mentre favoriscono al formazione di grandi agglomerati industriali nazionali, e che sostengono gli investimenti pubblici e privati nella ricerca scientifica e tecnologica; con le politiche commerciali verso il Sud del mondo, in cui i cinesi propongono ai singoli paesi accordi bilaterali di baratto che non sono in linea con l’ideologia libero-scambista del WTO. Tuttavia il fattore più importante del successo cinese è che le politiche governative si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale, i cui investimenti diretti esteri in Cina e le cui esportazioni di merci dalla Cina sono incoraggiati e favoriti. Tutti i paesi emergenti godono di questi vantaggi, ma quelli piccoli che hanno liberalizzato completamente i movimenti di capitale, e che dipendono dagli investimenti esteri speculativi, sono più vulnerabili alle crisi finanziarie, e i loro governi hanno meno margini di autonomia politica.
D) Sembra di capire che una tua tesi, in sintonia con Marx, è che l’imperialismo abbia creato nei paesi di giovane capitalismo solo il proletariato, che il movimento dei capitali nel suo insieme non abbia consentito il formarsi di più classi sociali al di sopra del proletariato, ovvero di una vera e propria borghesia indigena. Da alcuni dati empirici, relativi a Cina, India, Brasile, ma anche Siria, Libia, Tunisia, Algeria e cosi via, sembrerebbe che le cose non stanno così. Puoi chiarire meglio l’argomento?
R) La globalizzazione fa aumentare la disuguaglianza economica in tutto il mondo, fa diminuire la quota salari sul reddito nazionale e aumentare la concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani dei grandi capitalisti finanziari e industriali. Tuttavia, per quanto riguarda le classi medie, ha effetti diversi nei diversi paesi. In quelli avanzati, in cui l’accumulazione rallenta, le classi medie s’impoveriscono e, in seguito alla crisi 2007-13, larghi strati di piccola borghesia si stanno proletarizzando. In quelli emergenti invece, a causa del forte sviluppo economico, le classi medie tendono a crescere sia in ricchezza che in numerosità.
D) Alexander Gerschenkron, in Il problema storico dell’arretratezza economica, formula questo tipo di interrogativo: “è stato il capitalismo a ‘creare’ lo spirito del capitalismo o è stato lo spirito capitalista a ‘creare’ il capitalismo? Puoi fornire una tua risposta?
R) Sono propenso a credere che, nonostante alcune ideologie religiose (come il calvinismo) abbiano favorito la formazione del capitalismo moderno, tuttavia è lo sviluppo materiale del capitalismo che ha fatto emergere le ideologie che lo sostengono. E le ideologie possono essere le più diverse. Anche il cattolicesimo può essere adattato per servire l’accumulazione del capitale, come dimostra il successo del capitalismo italiano dei secoli XIII-XV e i miracoli economici italiano e francese del secondo dopoguerra. Anche lo stalinismo ha potuto essere utilizzato per sostenere l’accumulazione del capitale (nei sistemi a capitalismo di stato).
D) Secondo un concetto di Vico, ripreso da Lafargue in Il determinismo economico di Marx, esiste una legge fondamentale dello sviluppo delle società secondo cui tutti i popoli raggiungono le stesse tappe storiche, qualunque siano le loro origini etniche e il loro habitat geografico. Possiamo affermare a questo stadio di sviluppo dei rapporti sociali a livello mondiale che il capitalismo si è ormai imposto in tutto il pianeta con le sue leggi in maniera irreversibile?
R) Non tutte le nazioni raggiungono il capitalismo con le stesse tappe e con le stesse modalità. Basti confrontare la Gran Bretagna e la Russia. Ma è vero che tutte hanno ormai raggiunto o stanno per raggiungere la fase di piena affermazione del capitalismo. Storicamente si è verificato un processo di convergenza al capitalismo attraverso diverse fasi, diverse istituzioni, diverse ideologie, diverse politiche. Il capitalismo del grande capitale multinazionale oggi domina incontrastato tutto il globo, che tende a rendere sempre più omogeneo in termini di struttura produttiva, di composizione sociale e di egemonia ideologica. E’ irreversibile? Certamente lo è rispetto alle forme economiche precedenti. Ma non c’è ragione di credere che sia eterno.
D) Il cuore del libro mi pare risiedere nella tesi sull’impersonalità dei capitali, sulle leggi naturali che ne regolano il funzionamento del moto, sull’accettazione di queste da parte del personale burocratico, amministrativo, politico e cosi via. Ma i luoghi fisici potranno essere soltanto le sedi delle multinazionali e dei grandi istituti finanziari?
R) Quando parlo di “Leggi naturali” ci metto sempre le virgolette. Sono “naturali” nel senso che non risultano da un piano centrale, né dai complotti di alcuni circoli esclusivi (Trilaterale, Bildenberg ecc.). Benché ci siano indubbiamente alcuni centri di potere che cercano di dirigere l’orchestra, nessuno è in grado di dominarla. Le leggi “naturali” che regolano i mercati internazionali sono la risultante inintenzionale delle azioni intenzionali di miriadi di agenti decisionali (i manager delle grandi multinazionali in primis, ma anche le lobby, i dirigenti degli organismi economici internazionali, i governatori di alcune banche centrali, i capi di alcuni governi). Gli agenti decisionali sono così tanti e così “piccoli” rispetto al concerto complessivo, che nessuno di essi (e nessuna loro coalizione) riesce a dettar legge a tutto il sistema. Le leggi che lo regolano tuttavia sono coerenti, per il semplice fatto che (quasi) tutti gli agenti perseguono, direttamente o indirettamente, lo stesso obiettivo: l’accumulazione del capitale. Né si deve credere che la crescita delle dimensioni delle imprese e la loro tendenza a creare potere oligopolistico possa portare prima o poi alla formazione di pochi grandi centri decisionali cartellizzati, come riteneva Kautsky. Le multinazionali crescono di scala ma anche di numero. Nel 1976 ce n’erano circa 11.000. Nel 2010 sono diventate 103.788. La forma di mercato prevalente nel capitalismo contemporaneo non è il monopolio, bensì la concorrenza oligopolistica.
D) Ad un certo punto affermi che “La legge del valore è una legge fondamentale del capitalismo. E’ essa che determina il suo ‘equilibrio sociale’”. Puoi chiarire meglio cosa intendi per “equilibrio sociale”?
R) Il concetto di “equilibrio sociale” è di Marx. Io mi limito a riprenderlo e applicarlo all’analisi del capitalismo contemporaneo. Marx con quel concetto vuol dire che attraverso la concorrenza di mercato il capitale riesce ad allocare il lavoro in modo efficiente, cioè in modo da massimizzare il profitto estraendo dal lavoro il massimo di produttività e pagando il minimo di salario. È un equilibrio di riproduzione, nel senso che vengono eliminate dalla concorrenza le imprese inefficienti e quindi gli usi scarsamente produttivi del lavoro e nel senso che la risultante distribuzione del reddito assicura la riproduzione del capitale su scala allargata. È un equilibrio sociale capitalistico in quanto determina un rapporto di classe compatibile con il perseguimento della valorizzazione e dell’accumulazione del capitale.
D) “Ebbene – scrivi a pagina 124 - nell’imperialismo globale contemporaneo non si può certo dire che s’è raggiunta la pace mondiale o che si stia realizzando anche solo una vaga tendenza a raggiungerla. Tuttavia ha preso corpo una certa predisposizione collaborativa dei principali stati. Tale predisposizione si manifesta sia nella tendenza a organizzare operazioni militari concertate nei tentativi di aprire i paesi recalcitranti alla penetrazione del capitale, sia negli sforzi più o meno velleitari dei vari G2, G7, G10, G20 volti a predisporre delle politiche economiche concordate. In molti casi entrambe le tendenze sono incoraggiate dal grande capitale. Possono essere favorite dall’azione di potenti lobby capitalistiche nazionali. La cosa interessante è che nel sistema capitalistico globale queste lobby, che siano americane, europee o giapponesi, si lavorano le classi politiche nell’interesse di tutto il capitale multinazionale.” Emergerebbe in questo modo una sorta di equilibrio di “paura” da parte delle varie componenti lobbystiche che tendono all’accordo contro i paesi più deboli piuttosto che sfidare il concorrente per sbranare il dominato? Insomma gli imperialisti più forti si sono indeboliti e quelli meno forti si sono rafforzati al punto da tenersi in “pauroso”equilibrio come gli ultimi accadimenti per la Siria dimostrerebbero?
R) I conflitti politici sono determinati innanzitutto dalle ambizioni geopolitiche delle grandi potenze, le quali esprimono gli interessi di potere delle classi politiche che governano gli stati. Non dipendono direttamente dagli interessi del capitale. Questi ultimi si fanno sentire attraverso l’azione delle lobby, le quali però non sempre riescono a determinare direttamente l’azione degli stati. Tuttavia accade che, alla lunga, il conseguimento degli obiettivi politici delle grandi potenze viene piegato, attraverso il mercato, a servire gli interessi del grande capitale globale. Oggi viviamo in un’epoca in cui l’unilateralismo americano segna il passo, incalzato com’è dalla crescita della potenza economica dei paesi emergenti. I recenti avvenimenti della guerra in Siria si capiscono in quest’ottica. I russi appoggiano Assad soprattutto per conservare le proprie basi militari nel Mediterraneo. Gli americani vorrebbero intervenire in Siria sia per contrastare i russi sia per favorire la politica di Israele, che vorrebbe cronicizzare la guerra civile in Siria in modo da indebolire il suo principale nemico. Gli interessi del capitale russo non sono in cima alle preferenze di Putin, così come quelli del capitale americano non sono in cima alle preferenze di Obama. Non sappiamo come andrà a finire, ma non si può escludere che gli accordi delle grandi potenze portino all’apertura dei mercati e dei porti siriani alla penetrazione del grande capitale americano, russo, cinese, europeo ecc. In tal caso gli interessi politici delle grandi potenze sarebbero stati piegati a servire gli interessi economici del capitale multinazionale.
D) A pagina 136 poni in evidenza il ridursi dello stato a mera funzione di poliziotto per il mantenimento dell’ordine sociale e addirittura a una aperta contraddizione tra le multinazionali e gli apparati burocratici e politici – dunque anche partiti e sindacati – dello stato nazionale. La domanda è d’obbligo: ma esisterebbe una linea di tendenza verso il superamento degli stati nazionali, una sorta di estinzione di confini geografici per arrivare a istituzioni internazionali derivanti e perciò immediatamente controllati dalle multinazionali, insomma il rapporto esistente a livello nazionale si accrescerebbe a livello internazionale polverizzando in questo modo il ruolo delle burocrazie nazionali degli stati?
R) Il potere che il capitale esercita sugli stati deriva dalla capacità degli investimenti diretti esteri e di portafoglio di muoversi liberamente nei mercati mondiali. Gli stati, così come i sindacati e le grandi organizzazioni politiche nazionali, sono messi sotto ricatto: o si abbassa il costo del lavoro, la pressione fiscale sulle imprese, il costo sostenuto dalle imprese per la tutela ambientale e la difesa dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, oppure il capitale delocalizza. Ciò genera crisi fiscale dello stato, riduzione dello stato sociale e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Lo stato perde la capacità di agire come “capitalista collettivo nazionale”, cioè di creare un blocco sociale che coinvolga tutte le classi nella difesa degli interessi “nazionali”. Le politiche fiscali degli stati sono sottoposte a vincoli così stretti che i governi possono decidere solo come distribuire i tagli di benessere sociale. In queste condizioni s’inaspriscono le spinte alla conflittualità e i governi nazionali sono indotti a svolgere il ruolo di repressione e controllo del conflitto, cioè ad assumere esclusivamente la funzione di “gendarme sociale”. Il grande capitale multinazionale mira a una governance globale senza sovrano, cioè un governo del mondo assicurato dai mercati, non dai parlamenti. L’ideologia neoliberista dello “stato minimo” si è infine concretizzata in un sistema in cui non esiste uno stato globale, mentre gli stati nazionali sono ridotti a svolgere solo una funzione di disciplanamento della classe operaia e di repressione poliziesca interna. Per questo non esiste alcuna tendenza al superamento degli stati nazionali e alla formazione di organismi di governo sopranazionali. Le multinazionali non sanno che farsene dell’ONU. Né hanno bisogno di forze armate dell’ONU. Le azioni di polizia locale sono assicurate dagli stati nazionali. Quelle di apertura dei “paesi canaglia” alla penetrazione del capitale sono svolte dalle forze armate degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Lo “sceriffo globale” produce un bene pubblico nell’interesse di tutto il capitale mondiale, meglio di quanto possa fare l’ONU, e per il semplice fatto che le forze armate americane non sono controllate da un parlamento mondiale.
D) Le cause fondamentali della crisi attengono all’economia reale – scrivi a pag. 145. Stante dunque la legge del valore, siamo in presenza di una sempre più accentuata caduta tendenziale del saggio di profitto a livello globale?
R) Non so se oggi il saggio di profitto globale stia cadendo. È difficile misurarlo. Come calcoliamo il valore del capitale e dei profitti cinesi, russi, indonesiani? Come li omogenizziamo al livello mondiale? In Dollari, in Parità di Potere d’Acquisto, in valute nazionali? E nei profitti includiamo anche le rendite finanziarie e speculative incassate dalle multinazionali, i guadagni di capitale incassati dai manager con le stock option, le entrate pubbliche fornite dalle imprese statali? E ci mettiamo anche i profitti delle banche, dei fondi speculativi, delle assicurazioni, dei conduit? E gli stipendi dei grandi manager li consideriamo profitti o reddito da lavoro dipendente? E i portafogli finanziari degli speculatori, delle banche e delle imprese industriali li consideriamo capitale? E il valore del capitale e delle attività che lo rappresentano lo calcoliamo ai costi storici, al valore nominale o al valore di mercato? La scelta che si fa riguardo al modo di trattare tutte queste variabili influenza il tasso di profitto rilevato, per cui chi vuole dimostrare che è caduto potrebbe riuscirci, ma anche chi vuole dimostrare che è aumentato. Quello che si sa per certo comunque è che la quota salari sul reddito nazionale sta diminuendo in quasi tutti i paesi del mondo, avanzati, emergenti e in via di sviluppo. D’altra parte la ricerca empirica ha dimostrato che anche la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sta aumentando, così come sta aumentando la concentrazione della ricchezza nelle mani dei capitalisti e degli speculatori. Dubito che questa tendenza implichi la caduta del saggio di profitto. La legge del valore di per sé non può far diminuire il tasso di profitto, perché serve la valorizzazione del capitale. E’ probabile che il saggio di profitto sia diminuito negli ultimi decenni in alcuni paesi avanzati, ma questa non è la causa della globalizzazione, invece ne è la conseguenza. Non sembra comunque che il saggio di profitto stia diminuendo a livello globale.
D) Nella conclusione del V capitolo, a pag. 169, affermi: “Oggi i governi dei paesi avanzati sembrano incapaci di capire e fronteggiare il problema andando alle radici, e quindi di risolverlo”. Spontanea la domanda: possono governi diversi fronteggiare e risolvere problemi strutturali dell’economia reale? Se si, in che modo?
R) La parola da sottolineare in quella frase è sembrano. Nel libro spiego che in realtà dietro l’incapacità di risolvere la crisi in Europa c’è una precisa volontà di usarla per fare le cosiddette “riforme strutturali”, cioè tagli al costo del lavoro, privatizzazioni di imprese pubbliche e di risorse comuni ecc. Ma facciamo l’ipotesi che i governi volessero veramente risolvere la crisi migliorando le condizioni di vita dei popoli e dei lavoratori. Potrebbero farlo? La mia tesi è che nei paesi piccoli, come l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, il Giappone, non possono farlo. Prendiamo il Giappone, in cui Il governo Abe sta cercando di rilanciare l’economia con una politica fiscale e monetaria di tipo keynesiano. Ebbene la stessa politica prevede un attacco pesante ai salari, con l’inflazione scatenata dalla svalutazione dello Yen e con forti aumenti delle imposte indirette. È inevitabile, se le merci giapponesi devono diventare competitive con quelle cinesi. Alla fine si scoprirà che quella politica avrà fatto aumentare un po’ il tasso di crescita del PIL, ma avrà fatto diminuire ulteriormente la quota salari sul reddito nazionale. Né si può escludere, come sostengono alcuni, che porti prima o poi allo scatenamento di una grave crisi. Nei grandi paesi emergenti invece i governi hanno maggiori spazi di manovra perché quelle economie si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale e possono godere dei vantaggi del basso costo del lavoro e dell’attrattività per gli investimenti diretti esteri. In Cina infatti il governo ha reagito alle crisi dei subprime e dell’euro adottando delle politiche keynesiane che hanno in parte sostituito le esportazioni con i consumi interni, soprattutto pubblici. Anche per la Cina tuttavia c’è il rischio dello scoppio di una grande crisi (forse per l’esplosione di una maxi-bolla immobiliare). Gli Stati Uniti hanno reagito alla crisi dei subprime con timide politiche fiscali espansive e audaci politiche monetarie. C’è la ripresa del PIL, ma anche una tendenza alla crisi fiscale dello stato, oltre al gonfiamento di bolle speculative che creano instabilità mondiale. Vedremo come andrà a finire. La mia previsione è che la ripresa americana sarà debole e di breve durata. E veniamo all’Europa. Forse questa è l’unica economia in cui una politica keynesiana espansiva potrebbe avere successo. Ma sottolineo forse. Se la Germania espandesse fortemente la sua spesa pubblica, portando l’economia alla piena occupazione e la bilancia commerciale in deficit, cioè assumendo il ruolo di locomotiva, tutte le economie del continente si rimetterebbero in moto. La bilancia commerciale europea tenderebbe al disavanzo cronico, ma questo non sarebbe un grosso problema, visto che l’euro verrebbe usato come moneta di riserva internazionale a fianco del dollaro. L’euro stesso avrebbe una tendenza alla svalutazione, che potrebbe essere controllata dalla BCE in modo da renderla non dirompente. La svalutazione stessa sosterrebbe le esportazioni e quindi la crescita del PIL. Perché l’Europa potrebbe avere questo privilegio politico mentre gli Stati Uniti lo stanno perdendo? Perché l’economia europea resta la più grande del mondo dal punto di vista commerciale. Oggi, se la Germania fosse capace di sostituirsi agli Stati Uniti nel rapporto privilegiato con la Cina, potrebbe svolgere insieme a questo paese il ruolo di motore dell’accumulazione mondiale. Ma allora perché le classi dirigenti tedesche non si muovono in questa direzione? Perché sono stupide? No. Perché in questa fase vogliono sfruttare la depressione e la crisi per fare le “riforme strutturali” in tutta Europa.
D) Accumulazione e forza dell’imperialismo. Nel VI capitolo, a pag. 183, affronti la tendenza all’indebolimento del signoraggio degli Usa, ovvero alla messa in discussione delle tre funzioni storiche su cui quel paese ha dominato per molti anni: banchiere, motore dell’accumulazione e sceriffo. Potresti precisare il rapporto crescente o decrescente degli investimenti Usa negli armamenti in rapporto alla propria decrescita dell’accumulazione? Secondo l’Engels dell’Antidhuring la forza di uno stato, di una nazione, è l’espressione concentrata della forza dell’economia a un certo stadio di sviluppo. Ne dovrebbe conseguire, con la decrescita dell’accumulazione, una decrescita degli investimenti negli armamenti, se è vero che ‘la moneta non figlia valore’ per dirla con Rosa Luxemburg, così come emerge a pag. 202 circa l’uso smodato della pompa monetaria. A che punto è dunque quel tipo di rapporto?
R) Gli Stati Uniti stanno perdendo egemonia, e per il semplice fatto che la loro economia ha cessato di essere la più forte del mondo. Sul commercio internazionale pesano il 10%, quando nel 1948 pesavano il 25%. Sul PIL mondiale pesano il 19%, e nel 2010 sono sati superati dalla Cina (22%). Il dollaro è in un lungo trend di svalutazione rispetto allo yuan e all’euro. Le spese militari sono massicce. Nel 2008 costituivano il 17,1% della spesa pubblica, la quota più alta di tutti i capitoli di spesa, (le spese in istruzione costituivano il 3,2%). Il PIL non cresce abbastanza, poiché i salari e i consumi ristagnano, mentre le imprese tendono a delocalizzare gli investimenti. Quindi gli Stati Uniti, se vogliono continuare a fare lo sceriffo globale, dovranno aumentare il peso delle spese militari sul Prodotto Nazionale. Cosa che però farebbe aggravare i problemi di bilancio e la tendenza alla crisi fiscale dello stato. La bolla immobiliare d’inizio decennio ha consentito di sostenere lo sviluppo, ma ha generato un grave deficit della bilancia commerciale e quindi una forte crescita dell’indebitamento estero, e poi ha portato alla grande crisi. Insomma gli Stati Uniti stanno vivendo in una contraddizione insanabile. Se restano al servizio del capitale multinazionale, continuando a svolgere la funzione di sceriffo globale, aumentano il debito pubblico, il debito privato (delle imprese e delle famiglie) e il debito estero, sprofondano nella crisi fiscale, e il dollaro perde valore e prestigio. Se vogliono evitare tutti questi problemi devono rinunciare all’egemonia. Il governo non può più svolgere la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Tendenzialmente non potrà neanche svolgere bene la funzione di banchiere mondiale, visto che in tale veste genera più crisi che sviluppo. E comunque il mantenimento del signoraggio del dollaro dipende sempre più dalla benevolenza della Cina e di altri grandi paesi emergenti, che acquisiscono nei confronti degli USA un crescente potere di ricatto monetario.
D) Punto complicato, circa l’oggettiva collusione di rapporto tra Usa e Cina, ove sostieni che la Cina ha alimentato la bolla statunitense. Ora se lo scoppio della bolla ha significato l’evaporazione di valore precedentemente accumulato – in Cina, con lo sfruttamento del proletariato indigeno di quel paese – quali potranno essere le conseguenze rispetto all’accumulazione in termini di valore, il non ritorno di quei prestiti sia in Cina che negli Usa stessi?
R) Per il momento sembra che la Cina non voglia rovesciare il tavolo. Sta consentendo una sistematica rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro, così favorendo la ripresa delle esportazioni e della produzione americane. Accetta di perdere valore delle proprie riserve, e continua a finanziare l’economia americana seppure a ritmi meno sostenuti che nel passato. Nello stesso tempo, senza troppo rumore, si sta sostituendo agli Stati Uniti come potenza dominante in Asia, Africa e America Latina. Inoltre sta rinsaldando i propri legami diplomatici con la Russia e la Germania. Sul piano monetario non ha fatto mistero della propria intenzione di superare il Dollar Standard, ad esempio con la trasformazione del Fondo Monetario Internazionale in una vera banca centrale mondiale che emetta una moneta (diritti speciali di prelievo) che gradualmente sostituirà il dollaro. Peraltro sta espandendo enormemente i propri investimenti diretti esteri, i quali nel 2030 (secondo una previsione della Banca Mondiale) saranno il 30% di quelli globali! Insomma la Cina sta lavorando ai fianchi. Quando arriverà l’uppercut, gli Stati Uniti perderanno il signoraggio del dollaro e la Cina rileverà (forse insieme all’Europa) la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Comunque anche la Cina ha i suoi problemi. La grande crisi 2007-13 non ha generato una recessione nella sua economia, ma ha fatto diminuire il tasso di crescita del PIL dal 12% al 7,5%. Nel 2013 sarà probabilmente ancora più basso. Si tenga presente che la Banca Centrale cinese ha calcolato che un tasso di crescita di almeno l’8% è necessario per la stabilità sociale interna. Al disotto di quel tasso la disoccupazione aumenta in modo preoccupante. La conflittualità operaia è endemica e crescente. Nel 2010 è partita un’ondata di scioperi senza precedenti che è continuata fino a tutto il 2012. E sono azioni industriali spontanee e di massa che scavalcano il sindacato ufficiale e che tendono ad assumere contorni illegali ed effetti politici dirompenti. Questo è il tallone d’Achille della Cina: una classe operaia supersfruttata (dalle imprese multinazionali, ma anche da quelle nazionali e da quelle statali). Gli operai vengono disorganizzati dal sindacato ufficiale e quindi devono esprime le loro rivendicazioni sfidando l’ordine costituito. Non è da escludere che il disegno neo-imperiale e mercantilista della Cina venga messo in crisi da una nuova “rivoluzione culturale”.
D) Veniamo alla madre di tutte le questioni, ovvero se questa crisi ha come sbocco possibile o addirittura obbligato una guerra mondiale come lo furono la Prima e la Seconda. “…Nel nord del mondo – scrivi a pag. 226 – la disoccupazione è continuata ad aumentare. Se nel 2013 gli speculatori realizzeranno che, trascinata verso il basso da Eurolandia o dal Giappone o addirittura la Cina, l’economia dei paesi avanzati continuerà a ristagnare, è possibile che si verifichi a breve una nuova ondata di crash finanziari. Allora tutti i nodi dei contrasti economici mondiali verranno al pettine repentinamente e il riaggiustamento dei rapporti di forza tra blocchi politici continentali potrebbe essere brusco. Si tratta di rivalità inter-imperiali insanabili, di quelle che sboccano in grosse conflagrazioni belliche come prima e seconda guerra mondiale? Non credo. Oggi esiste il grande capitale globale. S’incarna in imprese multinazionali che hanno il mondo intero come campo d’azione. E tali imprese, che siano americane, europee, giapponesi, cinesi, hanno tutte un interesse comune all’abbattimento delle frontiere nazionali, cioè alla liberalizzazione dei mercati”. Si tratta di una tesi abbastanza ardita, perché assegnerebbe al meccanismo oggettivo del moto capitalistico l’attenuazione della concorrenza fra nazioni, il che potrebbe anche starci; ma la concorrenza fra le merci, e dunque fra gli stessi gruppi dell’oppressione del capitalismo globale, in base a quale principio ridurrebbe fino ad annientarli i motivi della guerra?
R) Oggi le spinte alla guerra tra grandi potenze provengono più dalle ambizioni geopolitiche degli stati che dagli interessi del capitale multinazionale. La crisi ha accentuato la conflittualità tra stati. Una guerra mondiale è già in atto, ma è una guerra valutaria: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone hanno usato svalutazioni competitive (L’Europa ha adottato politiche di deprezzamento reale) con cui hanno cercato di scaricare sui paesi emergenti l’onere del rilancio della domanda mondiale. Ma non ha funzionato, in quanto ha scatenato delle crisi valutarie in molti di quei paesi (specialmente India, Brasile, Indonesia) spingendoli al rallentamento della crescita. Tanto che la Federal Reserve ha dovuto rivedere i suoi programmi di “assottigliamento” delle politiche di moneta facile. Una guerra mondiale vera e propria mi sembra altamente improbabile. Più facile una qualche guerra per interposta persona in Medio Oriente, oppure la continuazione di una guerra economica di tipo mercantilista, combattuta col protezionismo e le svalutazioni e le deflazioni competitive. Il capitale globalizzato non gradisce questo tipo di guerra, perché riduce gli scambi internazionali e quindi i profitti. Per lo stesso motivo non gradirebbe una devastante guerra mondiale distruttiva. Il capitale multinazionale non si identifica con gli interessi delle classi politiche nazionali. Non è la competizione tra nazioni che gl’interessa, ma la concorrenza oligopolistica tra le imprese sui mercati delle merci e del controllo societario, e la concorrenza a cui i mercati sottopongono gli stati. Questo tipo di guerra non si fa coi carri armati e i bombardamenti “chirurgici”, bensì con le innovazioni, la pubblicità, il marketing, il potere di mercato, la corruzione dei politici ecc. Gli stati servono, certamente, ma più per abbassare il costo del lavoro e assicurare la disciplina sociale che per erigere e allargare le barriere e i confini degli imperi nazionali.
D) In ultimo, nelle conclusioni, delinei una linea di tendenza verso una chiusura della forbice tra la condizione del proletariato delle metropoli e quello dei paesi emergenti o di giovane capitalismo, e l’estinzione dell’aristocrazia operaia, fino a ipotizzare quasi una tendenza verso un’oggettiva unità internazionale del proletariato gravida di possibili sbocchi rivoluzionari. Detto altrimenti: il capitalismo come Sistema Sociale e moto-modo di produzione si avvierebbe per sue stesse cause e leggi di funzionamento ad una sorta di crisi generale obbligando in questo modo il proletariato in quanto riflesso agente ad una azione rivoluzionaria dagli esiti tutt’altro che capitalistici?
R) La contraddizione fondamentale del capitalismo è quella di classe. La globalizzazione la sta esasperando, in quanto tende a redistribuire reddito dai salari ai profitti e ad aumentare la povertà relativa del proletariato. Nello stesso tempo sta livellando su scala mondiale le condizioni di lavoro e i salari (diretti, indiretti e differiti). Sta creando un proletariato mondiale sempre più omogeneo in termini di livelli di sfruttamento e di destituzione politica. Non solo, ma sta evirando le organizzazioni sindacali e riformiste del movimento operaio nei paesi avanzati, perché riduce la massa di valore che può essere usata per sostenere politiche d’integrazione operaia nei blocchi sociali capitalisti. E mentre si riducono fortemente gli spazi di manovra per le politiche riformiste nazionali, la conflittualità sociale aumenta in tutto il mondo. Non è detto che non possa sboccare in una grande ondata insurrezionale mondiale.
32 commenti:
1) 12 anni fa i compagni erano noglobal perchè dicevano che la globalizzazione avrebbe fatto bene a noi (identificando tutto l'occidente con l'impero) e male ai lavoratori del 3mondo. io dicevo loro che sbagliavano, che avrebbe fatto bene ai lavoratori del 3mondo e male ai nostri. avevo ragione, c'è stato semplicemente un travaso di reddito e ricchezza dai lavoratori occidentali a quelli del 3mondo. del resto le merci devono essere vendute a qualcuno, non è che produci miliardi di cellulari per poi venderene 1000 a persona a qualche milione di ricconi.
2) vivo in sudamerica. qui, indipendentemente dal colore (teorico) dei governi, le classi mediobasse hanno avuto un avanzo incredibile (e la disparità di reddito è diminuita) quanto più capitale estero è arrivato con conseguente aumento della produzione e disoccupazione ai minimi termini. qua i "proletari" sono soddisfattissimi. nelle proteste non partecipano, le proteste hanno come attori universitari di classe medioalta.
antonio.
Demetrio
L'analisi espressa dall'Autore è da considerarsi, secondo me, pregevolissima. Questa intervista-saggio è da leggere e rileggere.
C'era un equilibrio una volta, un e quilibrio retto da un muro che garantiva indirettamente benessere a noi occidentali. Peccato che molti non lo capissero e mentre ballavano sulle macerie non compronedevano di star ballando sulle loro disgrazie.
Keder
Non credo verosimile l'ipotesi di una insurrezione in scala mondiale a meno che non vengano in soccorso degli insorti robusti contingenti di extraterrestri che li utilizzerebbero come partigiani.
Perciò è consigliabile immaginare (anche per consolarsi) eventi alternativi.
Dal saggio dell'Autore si evincono purtroppo prospettive abbastanza pessimistiche: infatti sono stati parecchi coloro che finora hanno scelto di uscire dalla porta delle tenebre.
Qualche speranza potrebbe darla un risveglio "democratico" ma molta gente dimostra di capire poco della drammaticità terribile dei tempi e sono troppi quelli che si ostinano ad aggrapparsi a schemi politici ripetitivi o anacronistici.
1) Secondo Marx, la società capitalistica è caratterizzata da una tendenza nel lungo periodo alla diminuzione della profittabilità da parte della produzione capitalistica e quindi delle aziende, ossia “ALLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO”. Cosa dicono i dati economici su questa tendenza, è riscontrabile oppure no? Vediamo: Nel periodo 1973-2003, il saggio di crescita del Pil pro capite è stato di poco superiore alla metà del saggio di crescita registrato nel periodo 1950-1973. La crescita mondiale degli anni novanta è stata mediamente inferiore a quella dei decenni precedenti. Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto a un ritmo inferiore al 4%; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto a un ritmo superiore al 4%, ed è invece quasi sempre risultato molto inferiore. Specificamente alla situazione del paese Italia, persino l'ex governatore della Banca d'Italia M.Draghi ha affermato (2009): "negli ultimi vent'anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte".
2) Ma, la caduta del saggio di profitto, è una ...tendenza, e non un ...crollo, o addirittura un crollo improvviso dei profitti. Questo perchè la diminuzione del saggio di profitto, è controbilanciata da altri fattori. Come controbilanciamento a questa caduta del saggio di profitto, vi sono, diversi fattori di CONTROTENDENZA dunque. Marx stesso specifica che entrano in gioco "fattori di controtendenza, che frenano e contrastano l'efficacia della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza". Ne elenco solo quelli che sono sotto gli occhi di tutti (e spero anche dei tuoi). 1)"La concentrazione di capitali" : un numero maggiore di Lavoratori lavora per un singolo capitalista e aumenta quindi la massa del saggio di Plusvalore e questo fa si che:" la massa dei profitti aumenti contemporaneamente e nonostante la caduta del saggio di profitto" (Marx). 2) "AUMENTO DEL GRADO DI SFRUTTAMENTO DEL LAVORO": cioè accrescimento del plusvalore, attraverso il prolungamento del tempo di lavoro ( Plusvalore assoluto) e l’intensificazione del lavoro (Plusvalore relativo). Quindi, aumento della quota di lavoro NON PAGATO, ossia il saggio di Plusvalore. E’ ciò che ha fatto Marchionne, verso la produzione rimasta in Italia. Mentre che per la restante produzione, ha delocalizzato in Polonia, Serbia, ecc.
3) “LA COMPRESSIONE DEL SALARIO AL DI SOTTO DEL SUO VALORE”, secondo Marx è: “una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profitto”. Secondo uno studio della Commissione europea del 2007, dal titolo Employment in Europe “nella maggior parte dei paesi UE la quota distributiva del lavoro ha raggiunto un picco nella seconda metà degli anni 70 e nei primi anni 80, successivamente riducendosi a livelli inferiori a quelli antecedenti il primo shock petrolifero”. Infine secondo una ricerca dell’organizzazione internazionale del lavoro, i salari medi mondiali nel 1995-2007 sono rimasti al di sotto della crescita del Pil. L'Europa può contare complessivamente su circa 700mln di abitanti (la metà della Cina, il 60% dell’India) e su una forza di circa 200mln di schiavi, peraltro in parte sindacalizzati e tutelati da leggi. Per limitarsi alla sola Cina, India e Indonesia, questi paesi possono contare sul 40% della popolazione mondiale e almeno 1,5mld di schiavi non sindacalizzati e non tutelati. Ecco perchè si delocalizza, proprio per rallentare la caduta del saggio di profitto. Ed anche la riforma dell'articolo 18, rientra dunque nel quadro della globalizzazione mondiale, come necessità per "flessibilizzare" il mercato degli schiavi in Italia, a livello di quello dei paesi su elencati.
4) IN MERITO AL SAGGIO DI PROFITTO: Il valore di una merce, è dato dal lavoro in essa incorporato. "SOLTANTO IL LAVORO UMANO PUO' CREARE VALORE", e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già incluso nei macchinari (che se nessun lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che posseggono) E' il lavoro umano a procurare i profitti al capitalista, fornendogli lavoro non pagato (Pluslavoro) ossia, lavoro supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (cioè lavoro necessario). Quindi, questo pluslavoro, produce un valore supplementare, un PLUSVALORE cioè. Marx, definisce la forza lavoro, come "capitale variabile", macchinari e mezzi di lavoro invece, come "capitale costante". Ora, per mezzo del crescente uso di macchinari (capitale fisso quindi) più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro. Quindi la diminuzione relativa del capitale variabile (la forza lavoro) in rapporto al capitale costante, fa sì che a parità di condizioni il SAGGIO DI PROFITTO (il rapporto tra il Plusvalore, e il capitale complessivo investito nella produzione) diminuisca. E' questa in sintesi la legge della CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO.
Franco
Quando Screpantia afferma che:"Né si deve credere che la crescita delle dimensioni delle imprese e la loro tendenza a creare potere oligopolistico possa portare prima o poi alla formazione di pochi grandi centri decisionali cartellizzati, come riteneva Kautsky. Le multinazionali crescono di scala ma anche di numero. Nel 1976 ce n’erano circa 11.000. Nel 2010 sono diventate 103.788. La forma di mercato prevalente nel capitalismo contemporaneo non è il monopolio, bensì la concorrenza oligopolistica", possiamo condividere solo la frase finale. Infatti, uno studio condotto da ricercatori del Politecnico federale di Zurigo (Eidgenössische Technische Hochschule), Stefania Vitali, James B. Glattfelder e Stefano Battiston, dal titolo "The network of global corporate control", dimostra come la struttura della rete di controllo delle multinazionali incide sulla concorrenza del mercato globale e la stabilità finanziaria. (continua)
(continuo)
In sostanza emerge dallo studio un nocciolo duro costituito da 787 grandi corporation che controllano l'80 per cento delle più importanti imprese del mondo e al suo interno un gruppo ancora più ristretto composto da 147 gruppi che controllano il 40 per cento delle più importanti multinazionali del pianeta. In particolare, la classifica top dei più grandi attori multinazionali esercita un controllo dieci volte più grande di quello che ci si poteva aspettare sulla base della patrimonializzazione.
Tale situazione, secondo gli stessi ricercatori, indebolisce la concorrenza del mercato (it weakens market competition [p. 5], poiché il risultato di tale intreccio è che circa 3/4 della proprietà delle imprese del nucleo principale è nelle mani di imprese dello stesso conglomerato. In altre parole, si tratta di un affiatato gruppo di aziende che cumulativamente detiene la quota di maggioranza tra tutte le più importanti multinazionali.
http://diciottobrumaio.blogspot.it/2012/01/la-realta-del-sistema-imperialistico.html
Come fatto notare da un altro commentatore, il numero di 103.788 aziende multinazionali detto così non dice molto, dice di più capire dietro a questi numeri "quanta" proprietà c'è e come è distribuita, come indicato dalla ricercadel politecnico federale di Zurigo segnalata.
Una ricerca che da un certo punto di vista confermerebbe le tesi di Marx sulla proprietà.
Link per chi fosse interessato alla ricerca svizzera:
The network of global corporate control.
Saluti,
Carlo.
franco,
da 35 anni la quota profitti del prodotto mondiale aumenta sulla quota salari, quindi, considerando la cosa globalmente, il saggio di profitto è in aumento.
non si può definire "scientifica" una legge che prevede un risultato X e poi ricorrere a "controtendenze" se osserviamo il risultato Y... semplicemente bisogna ammettere che la legge marxiana era sbagliata.
ed era sbagliata perchè è sbagliato il concetto di valore-lavoro. anche il lavoro non crea valore senza il capitale.
ora, si può discutere sulla distribuzione di questo capitale, ma che il capitale sia anch'esso produttivo non c'è alcun dubbio.
causerebbe ilarità una teoria che dicesse "la traiettoria della luna è rettilinea" e poi aggiungesse la controtendenza "ma c'è la terra che la attira" una volta verificato che è curvilinea, no? meglio rinunciare alla teoria e affidarsi a keplero.
l'analisi di marx su questo (fondamentale) punto più che "scientifica" è propagandistica: per motivi politici voleva una prova scientifica e misurabile dello "sfruttamento", tentativo fallito. lo sfruttamento (e specularmente la giusta misura dell'apporto lavorativo del capitalista) non è misurabile.
non rimane che affidare alla lotta (cosa poco scientifica), ai rapporti di forza la ripartizione della torta.
antonio.
il capitale crea valore, ma solo quello di scambio è per lui sostanziale. il paragone con la luna non è pertinente, dovrebbe essere oramai patrimonio acquisito che la scientificità marxiana è dialettica e nulla a che fare con le scienze presunte avalutative ma pare che invece no...
vediamo di mettere un pò di ordine ripetendo un pò stucchevolmente quello che ho capito dalla lezione marxiana
il concetto espresso è quello della caduta tendenziale del saggio medio di profitto, quindi
bisognerebbe considerarlo come tendenziale (a cui, come qualcuno ha detto, si possono opporre controtendenze) e relativo (medio, appunto)
infatti Screpanti fa bene a dire di non sapere se la globalizzazione ha aumentato in
assoluto il saggio di profitto mondiale oppure no. non riesco però a concordare quando fa discendere la caduta del saggio di profitto dalla globalizzazione dove per me la globalizzazione è necessaria in quanto controtendenza alla caduta, dividendo il lavoro e mettendo i lavoratori in concorrenza fra loro a livello mondiale.
Marx, pensiero dopo pensiero, sviluppa il concetto di lavoro sociale medio(chiamato a volte astratto)poichè si rende conto che è lo sviluppo generale della tecnica e della scienza -che entra in quel specifico ciclo produttivo determinando il saggio di composizione organica del capitale- che descrive la forma e la quantità di plus-valore estorto al lavoro vivo.
in altri termini il plusvalore risulta sempre più "inafferrabile", mentre per chi voglia farsi una concreta idea d'insieme quello che conta è il suo movimento globale, agito proprio dalle tecnologie avanzate impiegate nella produzione(anche nel senso di organizzazione scientifica del capitale umano)
è così che un azienda avanzata riesce a spremere plus-valore da un azienda, magari estera e neanche partecipata, con un impianto produttivo meno informato dello sviluppo tecnologico (sociale) complessivo
dall' altra parte lo stesso alto saggio di composizione organica del capitale preme sul saggio di profitto, assottigliandolo; questo aspetto però non preclude affatto ad un generale aumento della massa totale dei profitti
un'ultima nota a lato: non mi pare che il livello oligopolistico sopprima o sia alternativo al livello di concorrenza conflittuale espresso dai "piccoli" capitali che si muovono nella società civile borghese organizzata in comunità nazionale
da
Leggo che il lavoro non crea valore senza capitale.
Cosa si intende per valore?
Banalmente, pare che per tutte le cose che servono (le "cose che servono" a seconda dei contesti storici) e che non si presentano già belle e pronte in natura c'è bisogno del lavoro.
Il lavoro quindi crea l'"oggetto" non esistente in natura che per qualche motivo è utile, questo oggetto ha quindi un "valore", valore d'"uso". "Valore" d'uso senza essere necessariamente una merce.
D'altra parte quando si parla di merce il "valore" d'uso è rappresentato sul mercato dal "valore" di scambio, che è il punto che interessa al capitalista. Senza il lavoro non c'è valore d'uso, l'oggetto della produzione, quindi niente valore di scambio. Il lavoro "umano" al momento è la cosa necessaria per avere poi un qualche "valore".
Nel discorso del lavoro c'entra il discorso del tempo di lavoro, che rimane quella "variabile" che è il nucleo dei principali conflitti sul lavoro.
Se c'è la globalizzazione, dovuta allo spostamento di capitali e di produzioni in giro per il globo, c'è anche per il discorso del "tempo" di lavoro, con tutto quello che ne consegue.
Qui da noi il noto imprenditore Zonin non molto tempo fa disse che gli operai dovrebbero "regalare" un'ora del loro lavoro all'azienda, per poter meglio competere con gli altri e per combattere la "crisi".
Gratta gratta, i fatti cadono sempre sugli stessi argomenti, a dispetto di tutte le innovazioni tecnologiche e i cambi di "paradigmi".
Pare che Marx pure su questo abbia già detto delle cose fondamentali.
Dalle sue analisi e teorie quindi si parte per poi vedere di cosa c'è bisogno di "nuovo" per il diverso contesto storico, ma senza quella base non si capisce su cosa si dovrebbe basare una lotta "nuova" nel campo del lavoro. Eliminando praticamente l'essenzialità del lavoro (il lavoro senza capitale non crea valore, si può arrivare a dire che il lavoro non crea valore ma solo il capitale, perché senza capitale non c'è il "lavoro", ergo il capitale come cosa eterna rispetto al lavoro...), su quali fondamenta si dovrebbe costruire una lotta anticapitalista? Sulle virtù dell'onestà e della correttezza? Si dovrebbe lottare "solo" contro la Kasta politica brutta e cattiva, che il resto si aggiusta da sè?
Ma allora basta uno Zingales qualsiasi, Marx lo possiamo buttare in discarica.
Insieme alle lotte "anticapitaliste".
Ciao,
Carlo.
carlo,
concludi dicendo la stessa cosa che ho detto io: la teoria del valore-lavoro è utile politicamente. ma secondo me non ha basi scientifiche perchè non ci dà nulla di obiettivamente misurabile.
come fai a misurare e valorizzare l'apporto nella gestione di un'impresa dell'imprenditore e scorporarlo dal "profitto"?
poi oggi la situazione è diversa dai tempi di marx. il capitalista è solo colui che presta capitale (il suo apporto si misura col tasso d'interesse). poi c'è il manager, che è il vero imprenditore e spesso guadagna di più del capitalista... ma è un "salariato"! come sono salariati i livelli dirigenziali.
alla fine il "profitto" è solo ciò che viene distribuito agli azionisti (capitale di rischio) al netto delle tasse. ma se andiamo a vedere la realtà, questa componente è molto bassa in % sul fatturato.
come facciamo a misurare e valutare obiettivamente l'apporto di ognuno per poi evidenziare scientificamente se la sua fetta di torta è troppo grande o troppo piccola?
p.s. anche un pilota di f.1 o leo messi sono salariati... allora dobbiamo riesumare marx che ci faccia una teoria sull'estrazione di plusvalore tra salariati di diversi livelli...
antonio.
antonio.
aggiungo,
un bene strumentale, ad esempio una pinza, per farla ci vuole il lavoro, ma ci vuole pure il ferro.
per ME la terra è capitale. si può disquisire sulla legittimità dell'acquisizione e della distribuzione della proprietà di questo capitale, ma non si può negarne la produttività.
è vero che se uno non scava una buca per terra il ferro non lo trova, ma è anche vero che se uno scava una buca e sotto ferro non ne trova, la pinza non la farà.
marx si arrampica sugli specchi, crea complicazioni per giustificare la sua teoria... ste cose le dicevo ai compagni quando avevo 15 anni (molti anni fa...).
nella scienza le teorie semplici vanno preferite alle complicate. il capitale, in origine, in ultima analisi, è la TERRA.
semplicissimo...
antonio.
se è solo una questione di tempo quello che sostieni lo diceva anche Quesnay (economista fisiocratico -che pure qualcosa di vero lo individuò), Antonio, ben più di due secoli fa. Marx rispose ne "La Critica dell'economia politica" e nel "Capitale" (I libro) con molte argomentazioni su quanto sia illusoria (feticista) la semplicità, niente affatto semplice, di credere che la ricchezza sgorghi dalla natura (o dalle cose) e non dalla società .
da
non sgorga solo dalla natura, ma neanche solo dal lavoro.
antonio.
Solo per dire una cosa sulla questione lavoro-natura e creazione della ricchezza, l'insieme di valori d'uso.
Dal Capitale, nella parte iniziale del I libro:
"Ma l'esistenza dell'abito, della tela, di ogni elemento della ricchezza materiale non presente nella natura, ha sempre dovuto essere procurata mediante un'attività speciale, produttiva in conformità a uno scopo, che assimilasse particolari materiali naturali a particolari bisogni umani. Quindi il lavoro, come formatore di valori d'uso,come lavoro utile è una condizione d'esistenza dell'uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini.
I valori d'uso abito, tela, ecc., in breve i corpi delle merci, sono combinazioni di due elementi, materia naturale e lavoro. Se si detrae la somma complessiva di tutti i vari lavori utili contenuti nell'abito, nella tela, ecc., rimane sempre un substrato materiale, che è dato per natura, senza contributo dell'uomo. Il procedimento dell'uomo nella sua produzione può essere soltanto quello stesso della natura: cioè semplice cambiamento delle forme dei materiali. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l'uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l'unica fonte dei valori d'uso che produce,della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre."
Come dire, su questo non c'è una questione per Marx.
Saluti,
Carlo.
benissimo, ma allora perchè la legge del valore-lavoro? il padre è meglio della madre?
antonio.
ma c'è la questione della doppia natura della merce-capitale: valore d'uso e valore di scambio
sta distinzione c'è per lui ma non c'è per me e per altri 103.756 economisti. io non sono marx e marx non è dio.
ripeto: non c'è una misura scientifica dell'esistenza e dell'entità del "plusvalore".
antonio.
Sulla distinzione tra valore d'uso e valore di scambio, il barbuto di Treviri afferma:
"Una cosa può essere valore d'uso senza essere valore", tipo una cosa che esiste in natura già bella e pronta per essere consumata o un oggetto costruito e utilizzato direttamente o ceduto senza uno scambio.
Differenza tra valore d'uso e valore di scambio: le derrate alimentari hanno un valore d'uso, banale, ma capita che si distruggano di tanto in tanto grandi quantità delle stesse per non far abbassare "troppo" il prezzo sul mercato. Gli alimenti che si distruggono hanno sempre la loro qualità, il valore d'uso, servono sempre a saziare qualche affamato, ma per lo scambio non hanno "valore".
Ora, che tutti gli economisti dell'universo non vedano una differenza tra le due cose, ciò non toglie che ci sia.
In fondo è il finto scontro "lavoro contro utilità", col lavoro che da qualche decennio sarebbe solo un dettaglio per gli economisti, premi Nobel e tutto l'ambaradan.
Saluti,
Carlo.
Una precisazione.
Il lavoro non è valore o ha valore, ma è "creatore" di valore.
Questo almeno secondo la coppia Marx-Engels, il secondo dice nella prefazione al II libro del Capitale:
"Non è il lavoro ad avere un valore. In quanto attività
creatrice di valore, esso non può avere un valore particolare così come la gravità non può avere un determinato peso, il calore una determinata temperatura, l’elettricità una determinata intensità di corrente. Non è il lavoro ad essere comprato e venduto come merce, ma la forza-lavoro".
Mi sa che chiamarla legge del "valore-lavoro" ha creato nel tempo delle confusioni.
Carlo.
beh, anche il capitale crea valore.
se io passo il giorno a battere le mani muoio di fame.
se invece prima di battere le mani prendo 2 selci (e magari dico "sono mie") ci esce una punta di lancia, ammazzo un maiale e me lo magno.
ecco un caso in cui a parità di lavoro la differenza creativa la fa il capitale.
e se qualcuno mi frega la punta di lancia mi irrito...
antonio.
Fa piacere vedere quanti dubbi ha suscitato la lettura dell'intervista. Spero che la lettura del libro ne susciti ancora di più. Fa piacere perché una mente dubbiosa è sempre aperta alla conoscenza e al nuovo.
Naturalmente non posso rispondere a tutti commenti. Tuttavia c'è un tema che merita delle precisazioni: la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.
a)Un raffinato dibattito degli annni '60 ha portato a chiarire che questa è una vera legge economica in quanto si basa su un'ipotesi precisa sul decorso del progresso tecnico: che le innovazioni facciano sempre aumentare il saggio di profitto massimo (il rapporto prodotto/capitale in termini reali)(vedi i saggi raccolti in Screpanti e Zenezini, "La teoria dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, Feltrinelli 1978).
b)Tuttavia quell'ipotesi è ingiustificatamente restrittiva: non si vede perché il progresso tecnico debba avere quella conseguenza.
c)Il fenomeno della caduta "tendenziale" del saggio di profitto non può essere né verificata né falsificata perché non è definito l'orizzonte temporale; anche se si osserva una caduta per 20 anni in un certo paese, nulla esclude che, se si allunga l'orizzonte di altri 20 anni, il fenomeno scompaia.
d) Una caduta del saggio di profitto per 20 anni può essere causata da una diminuzione del saggio di sfruttamento, da una riduzione del grado di capacità utilizzata, da un aumento della concorrenza internazionale etc., cioè da fenomeni che non dipendono dalla natura del progresso tecnico.
e)Il saggio di profitto effettivo è difficile da rilevare in modo inequivocabile per ragioni di identificazione delle variabili cui ho accennato nell'intervista.
f)Il saggio di profitto rilevante per il capitalismo globalizzato (in cui le imprese operano nel mercato globale)è quello globale, non quello di singole nazioni.
g)Data la tendenza, negli ultimi 40 anni, all'aumento del saggio di sfruttamento, della povertà, della disuguaglianza dei redditi e della concentrazione della ricchezza e del reddito nel decile più alto della distribuzione in tutto il mondo e specialmente nei paesi "avanzati",è difficle che il saggio di profitto globale sia diminuito.
h) Alcuni sostengono che la caduta del saggio di profitto nei paesi avanzati sia la causa delle delocalizzazione e della globalizzazione; è un errore di prospettiva. Il nesso causale va dalle liberalizzazioni del commercio estero all'aumento della concorrenza dei paesi energenti (ad altissimo saggio di sfruttamento); dall'umento della concorrenza globale alla riduzione dei profitti nei paesi avanzati.
i) Chi sostiene che la caduta tendenziale del saggio di profitto nei paesi avanzati causa la proiezione globale del capitale, fa dipendere l'imperialismo da un difetto secondario (e rimediabile)del capitalismo. Per Marx invece la proiezione dell'accumulazione su scala mondiale è una proprietà intrinseca del capitalismo e non dipende da difetti secondari (sottoconsumo, cattiva distribuzione, bias tecnologici etc.). In conclusione l'imperialismo globale si espande e si rafforza sia che il saggio di profitto in questo o quel paese cada sia che aumenti. La teoria della globalizzazione di Marx è generale.
Ernesto
la marxiana caduta del saggio di profitto è legata al valore-lavoro, ovvero all'ipotesi che il capitale non sia produttivo e quindi il padrone può guadagnare solo sfruttando il lavoro. ma secondo me la legge del valore-lavoro è sbagliata e quindi non è detto che il saggio di profitto debba cadere in prospettiva.
se per assurdo i padroni inventassero un sistema in cui il totale della produzione è effettuato da robot e ammazzassero quasi tutti i lavoratori e si dividessero tra loro la produzione, vivrebbero benissimo.
quindi le BASI della visione del mondo di sinistra devono essere cambiate alla radice!
antonio.
Caro Antonio, all'esame di Economia Marxista sei bocciato. Ti consiglio di prepararlo di nuovo e ripresentarti dopo aver studiato almeno: Sweezy, "La teoria dello sviluppo capitalistico", Boringhieri, Torino.
Marx non sostiene che il capitale non è produttivo, bensì che capitale terra e lavoro sono tutti necessari per produrre i beni. Ma solo il lavoro produce Valore. Non c'è bisogno di usare la teoria del valore-lavoro per sostenere questa tesi. E' un assioma, non dimostrabile e non confutabile, e può essere formulato usando una qualsiasi misura del valore.
Se tutta la produzione è effettuata da robot, e i padroni ammazzassero QUASI tutti i lavoratori, qualcuno dovrebbero lasciarlo in vita. Altrimenti chi progetta e gestisce i robot?
La teoria della caduta del saggio di profitto non dipende dalla taoria del valore-lavoro. Si può sostenere anche in un sistema di prezzi di produzione.
Ernesto
ernesto,
dei vostri esami me ne frego. e gli assiomi non dimostrabili non confutabili sono teologia, non scienza.
tiè, guarda che bel grafico marxiano:
http://www.rischiocalcolato.it/wp-content/uploads/2013/10/20130710_santelli_0.jpg
antonio.
p.s. non solo ho letto sweezy, ma pure altri 4657 economisti e ho una laurea in economia.
poi scusa... prima ammettete che anche il capitale è "produttivo", poi però solo il lavoro produce valore. e che significa "produttivo"? significa che distruggo 100 di risorse per costruire 120 di prodotto (altrimenti è mejo che le risorse me le magno!), ovvero produco 20 di VALORE!
quindi siete in contraddizione, data l'equivalenza tra "produttivo" e "valore"!
purtroppo dovete ammettere che:
1) anche il capitale è produttivo e crea valore
2) quindi non è possibile misurare il "plusvalore" e lo "sfruttamento"
3) se non è misurabile non esiste un metodo scientifico inoppugnabile per dire che esiste
4) quindi non è detto che ci sarà la caduta del saggio di profitto
5) la distribuzione delle fette di torta tra capitale e lavoro, non avendo appigli scientifici sicuri, deve essere affidata solo ai rapporti di FORZA.
antonio.
=AVVISO AI LETTORI=
Com'era logico si sta sviluppando una discussione sulla marxiana Legge del Valore, legge che il compagno Ernesto critica sotto diverso aspetti.
In occasione del seminario di studi "FILO ROSSO" promosso nell'agosto scorso da MPL, proprio Ernesto ha svolto una importante lezione: «la legge del valore in Marx».
Abbiamo, grazie a Eco della Rete, la video-registrazione. La pubblichiamo in home questa sera.
alla redazione
sarebbe opportuno usare un template che dia modo, già dalla home page, di accorgersi che la discussione continua anche quando il post è "freddo"
a screpanti
" Chi sostiene che la caduta tendenziale del saggio di profitto nei paesi avanzati causa la proiezione globale del capitale...La teoria della globalizzazione di Marx è generale."
Fa benissimo a farmelo notare, ero cascato nella trappola determinista
a antonio
"se per assurdo i padroni inventassero un sistema in cui il totale della produzione è effettuato da robot.."
e qui casca da sempre l'asino!!
la fabbrica completamente robotizzata non è impossibile dal punto di vista tecnico: è un assurdo dal punto di vista della valorizzazione (cioè dei vigenti rapporti di produzione cioè di sfruttamento).
alle macchine spremi prodotto ma non valore che è l'unica cosa che conta produrre: le macchine costano esattamente quanto producono.
non c'è niente da fare,dare profondità sociale e storica all'economia non è cosa da economisti
da
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