22 luglio. La rivoluzione da Mosca a Cambridge. Pubblichiamo l'introduzione di Brancaccio al libro Esortazioni e profezie, una raccolta di saggi di John Maynard Keynes (Il Saggiatore, Milano 2011).
Pareva destinato a diventare una reliquia, un polveroso cimelio del periodo tra le due guerre. Ed invece, dopo il fallimento di Lehman Brothers dell’ottobre 2008 e l’inizio della cosiddetta Grande Recessione, il nome di Keynes è tornato improvvisamente a risuonare nei dibattiti di politica economica. Si tratta, beninteso, di una evocazione ancora spettrale, che per adesso incide solo in termini marginali e confusi sulle azioni pratiche delle autorità monetarie e di bilancio. Ma già il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito.
Il rinnovato interesse per l’eresia keynesiana costituisce un segno del terremoto che dall’inizio della crisi ha iniziato ad agitare il campo di battaglia delle teorie e delle politiche economiche. Come però tipicamente capita alle visioni per lungo tempo sommerse e dimenticate, il pensiero di Keynes risulta oggi appannato da una vulgata approssimativa, per molti versi fuorviante. Si consideri ad esempio una delle sue più celebri affermazioni: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Questa frase viene spesso affiancata ad un’altra sua enunciazione, scritta diversi anni dopo: «Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata [..] di scavar fuori di nuovo i biglietti [..], non dovrebbe più esistere disoccupazione». Basandosi su queste due frasi giustapposte, svariati commentatori hanno preteso di descrivere Keynes come un intellettuale frivolo, irresponsabile, incurante del futuro, fautore dello sperpero e della dissipazione di risorse produttive.
Con buona pace dei veri esegeti di Keynes, questa chiave di lettura risulta oggi diffusa e influente. Dopotutto, è esattamente attraverso di essa che si è cercato di spacciare la recessione iniziata nel 2008 come il frutto avvelenato di un disinvolto “keynesismo” da parte delle autorità di politica economica statunitensi. Basterebbe tuttavia rileggere interamente i brani dai quali le due affermazioni sono tratte per rendersi conto del terrificante equivoco generato da simili interpretazioni. Consideriamo in primo luogo il caustico giudizio di Keynes sul «lungo periodo». La frase è contenuta in una critica del 1923 agli esponenti ortodossi della teoria quantitativa.
Questi ritenevano che la quantità di moneta fosse “neutrale”, ossia irrilevante ai fini dell’andamento dell’economia reale: ogni variazione dell’ammontare di banconote avrebbe solo determinato, a loro avviso, una variazione proporzionale del livello dei prezzi e nulla più. Keynes all’epoca risultava ancora parzialmente legato alla tradizione ricevuta ed evitò quindi di attaccare alla radice le basi logiche della teoria quantitativa. Egli tuttavia già riteneva assurda l’idea di una perfetta proporzionalità tra i movimenti della massa monetaria e i movimenti del livello dei prezzi. Per Keynes, la relazione tra l’una e l’altra variabile era resa instabile da numerosi fattori, dai mutamenti nella preferenza per la liquidità degli agenti economici alle oscillazioni dell’occupazione e della distribuzione del reddito. La teoria quantitativa, pertanto, poteva al limite esser considerata ammissibile solo in un lontano e indeterminato «lungo periodo»; quando cioè «l’uragano» della crisi e della redistribuzione delle ricchezze avesse già prodotto i suoi danni tremendi e quindi fossimo, per l’appunto, «tutti morti». Se dunque si volesse parlare di irresponsabilità, questa andrebbe individuata non certo nella frase di Keynes ma nella cieca fiducia degli ortodossi nelle discutibili previsioni della teoria dominante.
Riguardo poi al brano del 1936 dedicato al sotterrare e allo scavar banconote, con esso Keynes intendeva criticare la tendenza degli uomini di governo e dei banchieri dell’epoca ad autorizzare gli investimenti pubblici in disavanzo soltanto per l’estrazione dell’oro, e di negarli invece per attività socialmente più utili, come la costruzione di case o la produzione pubblica di beni collettivi. Eppure, faceva notare il nostro, indipendentemente dalla loro destinazione entrambi i tipi di investimenti finanziati in deficit attivano il medesimo meccanismo moltiplicativo, che alimenta la domanda e la produzione e consente quindi di assorbire la disoccupazione. C’era insomma, in quella frase, una evidente ironia verso l’auri sacra fames degli esponenti di governo, una esecrabile e irrazionale cupidigia per l’oro che tuttavia paradossalmente li induceva a impiegare lo strumento della spesa in disavanzo nel modo giusto, sebbene per scopi ottusamente circoscritti.
Sono questi solo alcuni dei fraintendimenti che al giorno d’oggi circondano il pensiero di Keynes e che sotto vari aspetti ne ostacolano il recupero e il possibile aggiornamento. Un tale cumulo di equivoci, si badi, non è del tutto casuale. Esso costituisce in primo luogo l’esito di un rapporto di forza. Basti ricordare, a questo proposito, che fra le tesi principali di Keynes vi è quella secondo cui non bisognerebbe affidare alla Borsa e ai mercati finanziari il compito di orientare l’accumulazione del capitale. Keynes avrebbe pertanto considerato aberrante la scelta, compiuta in questi anni, di situare la finanza privata al centro del regime di accumulazione mondiale e di mettere le autorità di politica economica al suo completo servizio. Una lettura genuina dell’opera keynesiana risulterebbe quindi nemica degli attuali, enormi poteri ruotanti intorno a Wall Street e alla City. Sembra lecito allora supporre che le fuorvianti volgarizzazioni di Keynes suggerite dagli opinionisti della moderna industria dei media abbiano potuto diffondersi anche grazie a un clima politico decisamente poco favorevole alle convinzioni più profonde dell’economista britannico. Tuttavia non è solo alle approssimazioni giornalistiche che si possono imputare le odierne incomprensioni sulla visione keynesiana del capitalismo. La stessa accademia ha in questi anni contribuito a ingenerare grande confusione. Basti citare un esempio su tutti: John B. Taylor, il principale esponente della tesi che di fatto scagiona la finanza privata e semplicisticamente attribuisce all’intervento statale la responsabilità di aver causato la recessione iniziata nel 2008, si professa orgogliosamente «New Keynesian». Siamo insomma ben al di là di quello che velenosamente Joan Robinson definì “keynesismo bastardo” e contro il quale si scagliò negli anni Settanta del secolo scorso. Siamo ormai al cospetto di un Keynes usurpato dai suoi antagonisti logici, appeso per i piedi e sbandierato come una specie di trofeo di guerra.
C’è dunque oggi così tanta nebbia intorno a Keynes che la ripubblicazione dei testi originali sembra costituire l’unica via per tentare nuovamente di afferrare la grandezza e la potenziale attualità delle sue tesi sul funzionamento del regime capitalistico di accumulazione. Questo in fondo è il senso ultimo della riproposizione di Essays in persuasion, un libro nel quale Keynes volle raccogliere venticinque tra i suoi più brillanti saggi scritti nel periodo tra il 1919 e il 1931. Si tratta di opuscoli e articoli pubblicati su quotidiani o riviste, ai quali si aggiungono alcuni estratti di celebri pamphlet politici, come Le conseguenze economiche della pace, o di opere teoriche, come La riforma monetaria e il Trattato della moneta. Originariamente pubblicati nel novembre del 1931, gli Essays uscirono in Italia per la prima volta nel 1968 con un titolo leggermente modificato: Esortazioni e profezie. La presente ristampa non contiene modifiche di sorta rispetto alla prima edizione italiana, che a sua volta riproduceva quasi integralmente il testo inglese originario.
Il volume è suddiviso in cinque sezioni. Le prime tre parti sono dedicate alle grandi polemiche degli anni Venti nelle quali Keynes si era «gettato senza riserve»: la controversia sui debiti di guerra, la politica di deflazione e il ripristino della parità aurea prebellica. Nelle sezioni finali l’autore spazia invece su temi più generali: dal giudizio sul socialismo sovietico, al rapporto tra liberalismo e laburismo, all’idea che in un futuro non lontano l’umanità possa esser definitivamente liberata dall’assillo del «problema economico».
Esortazioni e profezie è un titolo estremamente indovinato. Lo stesso Keynes, nella prefazione, arriva a definirsi «una Cassandra che non è mai riuscita a influire in tempo sul corso degli eventi», e rivela che avrebbe egli stesso desiderato porre in luce, fin dal titolo, le virtù premonitrici del suo libro. Questa declamata preveggenza non può in effetti dirsi esagerata. Essa trova riscontri in numerosi passi del volume e raggiunge forse il suo apice in un brano inquietante, dedicato alle conseguenze del Trattato di pace del 1919. Keynes è certo che la Germania non sia materialmente in grado di provvedere al pagamento delle riparazioni e dei debiti di guerra imposti dai paesi vincitori. Per questo motivo decide di lasciare l’incarico di rappresentante britannico alla Conferenza di pace, e lancia un avvertimento: «Se diamo per scontata la convinzione che […] per anni e anni la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza, il paese circondato da nemici […] Se noi mirassimo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderebbe». Nell’irrealtà delle decisioni della Conferenza, mentre tutti partecipano alla messinscena di un trattato insostenibile, Keynes dunque intravede già l’ombra di Hitler, l’incendio del Reichstag, l’abisso disumano del secondo conflitto mondiale. In questa tragica consapevolezza egli tuttavia è solo, impotente, e il suo allarme cade nel vuoto.
Molte altre volte Keynes vestirà i panni della Cassandra inascoltata. Col tempo tuttavia imparerà a diluire le sue istanze ideali in un materialismo intuitivo, sempre più smaliziato. Egli prenderà coscienza del fatto che le battaglie si vincono in primo luogo grazie «all’incontenibile pressione degli eventi», e solo in seconda istanza per «il lento decadere dei vecchi pregiudizi». I suoi scritti rivelano, in questo senso, il tentativo sempre più raffinato di situarsi sul crinale del processo storico, di cogliere in anticipo le congiunture, i punti di rottura, di intervenire nel modo e nel momento giusto per cercare di piegare il corso degli eventi nella direzione dei lumi piuttosto che del buio. Che per Keynes essenzialmente significava riformare il capitalismo, liberandolo dalla opprimente e desueta ideologia del laissez-faire.
E’ forse proprio a causa di questa ambizione, eminentemente politica, che gli stessi scritti teorici di Keynes risultano mutevoli, talvolta sfuggenti. L’urgenza politica di persuadere sembra cioè costringere anche il teorico in un limbo perenne, tra conservazione e rivoluzione concettuale. I saggi contenuti in questo volume appaiono in tal senso emblematici. Il Keynes della tradizione ricevuta affiora di continuo, come quando la disoccupazione viene concepita quale mero fenomeno di squilibrio tra risparmi e investimenti, sia pure duraturo. Si tratta, è bene chiarirlo, del concetto di squilibrio descritto nel Trattato della moneta, un testo che alcuni interpreti considerano già altamente innovativo e difficilmente compatibile con la teoria neoclassica. Il principio della domanda effettiva e la connessa eresia della disoccupazione di equilibrio, contenuti nella Teoria generale del 1936, sono però ancora di là da venire. Ciò nonostante si può già trovare, in queste pagine, una descrizione dei tipici paradossi del risparmio e quindi anche una critica cristallina ai dogmi indiscussi della austerità:
E’ già tanto per un intellettuale educato nella cittadella, per uno che fu insider politico come pochi altri economisti al mondo. Eppure c’è di più. I saggi raccolti in questo volume contengono infatti dei passi teoricamente stravolgenti, persino più avanzati rispetto alla stessa opera magna del 1936. Come ad esempio quelli dedicati alla distribuzione del reddito:
Di tracce della eversione keynesiana il lettore ne troverà dunque molte, in queste pagine. Anche quando il nostro avanza la proposta massimamente conservatrice, nonché tardiva, di tenere la Gran Bretagna dentro la gabbia del gold standard pur di ricandidarla alla leadership del sistema monetario internazionale, il criterio suggerito risulta scandalosamente eterodosso: «l’introduzione di un forte dazio straordinario» all’importazione di merci, al fine di rendere la rigida difesa del cambio compatibile con una politica di espansione dell’occupazione. Una evidente provocazione per gli acritici fautori del liberoscambismo, ieri come oggi numerosi tra le alte schiere e persino tra gli eredi del movimento operaio. Una indicazione tuttavia ancora una volta difficilmente contestabile sul piano della logica, e che fornisce pure qualche utile spunto di riflessione per l’oggi, in una Unione monetaria europea afflitta da un assetto istituzionale autocontraddittorio e forse insostenibile.
Verrebbe a questo punto lecito chiedersi se questa perenne determinazione illuminista a sfidare il pregiudizio costituisse in ultima istanza un tratto irriducibile della personalità profonda di Keynes, una sorta di compulsione bene indirizzata. Una rapida ricognizione biografica confermerebbe senza difficoltà tale congettura. Storia personale, curiosità, rapporti: dall’influenza di Moore alla frequentazione di Bloomsbury, fu una vita improntata alla demolizione delle vecchie convenzioni e al continuo desiderio di spostare in avanti il limite della prospettiva di governo della società. Basti pensare al fermo intendimento non solo di considerare la sessualità questione eminentemente politica, ma addirittura di intuire che un tema così dirompente non dovesse mai esser confinato a «una classe ristretta di individui istruiti, solo una crosta sulla massa del magma umano». Una intuizione, questa, che sembra ancora oggi sfuggire ai più.
Sarebbe tuttavia un errore ridurre il “caso Keynes” a mera eccezione individuale. La modernità di Esortazioni e profezie non è la semplice risultante di una personalità fuori dal comune. Il vero motivo per cui, a distanza di ottant’anni dalla pubblicazione, questo libro arriva ancora oggi a sorprenderci, è che esso venne scritto nel corso di uno straordinario momento dialettico nella storia dell’umanità. La nascita dell’Unione sovietica da un lato e la crisi delle potenze capitalistiche dall’altro permisero a Keynes di osare quel che nel recinto del potere borghese era stato fino ad allora considerato inosabile. Non va dimenticata, a questo riguardo, la previsione contenuta in Prospettive economiche per i nostri nipoti, forse una delle più ardite in tutta l’opera keynesiana:
Keynes fu dunque figlio di un’epoca straordinaria, durante la quale lo scontro fra capitalismo e socialismo raggiunse livelli di massima tensione.
Il suo intelletto venne chiaramente forgiato dalla disputa tra i due sistemi, le sue idee furono modellate su di essa, e il suo successo dipese anche dal fatto che egli riuscì perennemente a situarsi nel mezzo di quella colossale controversia. Non tutti i biografi rimarcano questo aspetto, eppure esso risulta decisivo e suscita pure alcuni fondamentali interrogativi per il tempo presente. In un’epoca in cui la minaccia di un Grande Altro sembra poco avvertita, viene infatti da chiedersi se possa davvero crearsi uno spazio politico per l’eresia keynesiana o ci si debba invece accontentare di un Keynes sempre più depotenziato, ridotto all’osso di una flebile politica di attenuazione del ciclo economico.
Ad avviso di chi scrive, è proprio l’apparente mancanza di un’alternativa di sistema che impone oggi di rileggere Keynes esaltando gli aspetti più innovativi del suo pensiero. In particolare, vi è motivo di ritenere che l’unico modo per impiegare efficacemente Keynes nella dialettica delle idee sia di portare alle estreme conseguenze la sua critica del laissez-faire attraverso un rinnovato approfondimento del rapporto fra la dottrina keynesiana e la pianificazione statale. Keynes riteneva, a questo riguardo, che la socializzazione dell’investimento atta a garantire la piena occupazione potesse avvenire senza necessariamente intaccare la proprietà e il controllo privato dei mezzi di produzione.
Ma accennò pure alla esigenza di pianificare nel campo dei trasporti, dell’urbanistica, della conservazione dell’ambiente naturale, in tutti i settori in cui il singolo individuo non sarebbe in grado di raccogliere i benefici della sua attività, e persino in materia di localizzazione territoriale dell’industria.
Molti hanno giustamente sottolineato le ambiguità e le contraddizioni insite in questa posizione. Si tratta però di contraddizioni feconde, che la crisi in atto impone di riesaminare e sviluppare. Potremmo dire, in questo senso, che una lettura di Keynes al tempo stesso più fedele e più innovativa rispetto alla vulgata, consentirebbe di estrarre dal suo pensiero l’idea che lo Stato non dovrebbe più relegarsi nella mera e abusata funzione di ancella dei mercati finanziari e prestatore di ultima istanza per il capitale privato, ma dovrebbe piuttosto diventare un creatore di prima istanza di nuova e stabile occupazione. Di prima istanza, si badi, è cioè non per fini di mera assistenza, ma in primo luogo per la produzione di quei beni collettivi che dovrebbero considerarsi fondamentali per il progresso civile dell’umanità e che sfuggono alla ristretta logica dell’impresa capitalistica privata. In un futuro non lontano questa idea tuttora scabrosa potrebbe costituire il vero discrimine tra una prospettiva di benessere materiale condiviso e un nuovo tracollo economico mondiale. Che tuttavia essa riesca o meno ad affermarsi politicamente è questione indeterminata, che atterrà alla dinamica ventura dei rapporti sociali di riproduzione delle merci, delle vite e delle idee.
* Fonte: Emiliano Brancaccio
Pareva destinato a diventare una reliquia, un polveroso cimelio del periodo tra le due guerre. Ed invece, dopo il fallimento di Lehman Brothers dell’ottobre 2008 e l’inizio della cosiddetta Grande Recessione, il nome di Keynes è tornato improvvisamente a risuonare nei dibattiti di politica economica. Si tratta, beninteso, di una evocazione ancora spettrale, che per adesso incide solo in termini marginali e confusi sulle azioni pratiche delle autorità monetarie e di bilancio. Ma già il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito.
Il rinnovato interesse per l’eresia keynesiana costituisce un segno del terremoto che dall’inizio della crisi ha iniziato ad agitare il campo di battaglia delle teorie e delle politiche economiche. Come però tipicamente capita alle visioni per lungo tempo sommerse e dimenticate, il pensiero di Keynes risulta oggi appannato da una vulgata approssimativa, per molti versi fuorviante. Si consideri ad esempio una delle sue più celebri affermazioni: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Questa frase viene spesso affiancata ad un’altra sua enunciazione, scritta diversi anni dopo: «Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata [..] di scavar fuori di nuovo i biglietti [..], non dovrebbe più esistere disoccupazione». Basandosi su queste due frasi giustapposte, svariati commentatori hanno preteso di descrivere Keynes come un intellettuale frivolo, irresponsabile, incurante del futuro, fautore dello sperpero e della dissipazione di risorse produttive.
Con buona pace dei veri esegeti di Keynes, questa chiave di lettura risulta oggi diffusa e influente. Dopotutto, è esattamente attraverso di essa che si è cercato di spacciare la recessione iniziata nel 2008 come il frutto avvelenato di un disinvolto “keynesismo” da parte delle autorità di politica economica statunitensi. Basterebbe tuttavia rileggere interamente i brani dai quali le due affermazioni sono tratte per rendersi conto del terrificante equivoco generato da simili interpretazioni. Consideriamo in primo luogo il caustico giudizio di Keynes sul «lungo periodo». La frase è contenuta in una critica del 1923 agli esponenti ortodossi della teoria quantitativa.
Questi ritenevano che la quantità di moneta fosse “neutrale”, ossia irrilevante ai fini dell’andamento dell’economia reale: ogni variazione dell’ammontare di banconote avrebbe solo determinato, a loro avviso, una variazione proporzionale del livello dei prezzi e nulla più. Keynes all’epoca risultava ancora parzialmente legato alla tradizione ricevuta ed evitò quindi di attaccare alla radice le basi logiche della teoria quantitativa. Egli tuttavia già riteneva assurda l’idea di una perfetta proporzionalità tra i movimenti della massa monetaria e i movimenti del livello dei prezzi. Per Keynes, la relazione tra l’una e l’altra variabile era resa instabile da numerosi fattori, dai mutamenti nella preferenza per la liquidità degli agenti economici alle oscillazioni dell’occupazione e della distribuzione del reddito. La teoria quantitativa, pertanto, poteva al limite esser considerata ammissibile solo in un lontano e indeterminato «lungo periodo»; quando cioè «l’uragano» della crisi e della redistribuzione delle ricchezze avesse già prodotto i suoi danni tremendi e quindi fossimo, per l’appunto, «tutti morti». Se dunque si volesse parlare di irresponsabilità, questa andrebbe individuata non certo nella frase di Keynes ma nella cieca fiducia degli ortodossi nelle discutibili previsioni della teoria dominante.
Riguardo poi al brano del 1936 dedicato al sotterrare e allo scavar banconote, con esso Keynes intendeva criticare la tendenza degli uomini di governo e dei banchieri dell’epoca ad autorizzare gli investimenti pubblici in disavanzo soltanto per l’estrazione dell’oro, e di negarli invece per attività socialmente più utili, come la costruzione di case o la produzione pubblica di beni collettivi. Eppure, faceva notare il nostro, indipendentemente dalla loro destinazione entrambi i tipi di investimenti finanziati in deficit attivano il medesimo meccanismo moltiplicativo, che alimenta la domanda e la produzione e consente quindi di assorbire la disoccupazione. C’era insomma, in quella frase, una evidente ironia verso l’auri sacra fames degli esponenti di governo, una esecrabile e irrazionale cupidigia per l’oro che tuttavia paradossalmente li induceva a impiegare lo strumento della spesa in disavanzo nel modo giusto, sebbene per scopi ottusamente circoscritti.
Sono questi solo alcuni dei fraintendimenti che al giorno d’oggi circondano il pensiero di Keynes e che sotto vari aspetti ne ostacolano il recupero e il possibile aggiornamento. Un tale cumulo di equivoci, si badi, non è del tutto casuale. Esso costituisce in primo luogo l’esito di un rapporto di forza. Basti ricordare, a questo proposito, che fra le tesi principali di Keynes vi è quella secondo cui non bisognerebbe affidare alla Borsa e ai mercati finanziari il compito di orientare l’accumulazione del capitale. Keynes avrebbe pertanto considerato aberrante la scelta, compiuta in questi anni, di situare la finanza privata al centro del regime di accumulazione mondiale e di mettere le autorità di politica economica al suo completo servizio. Una lettura genuina dell’opera keynesiana risulterebbe quindi nemica degli attuali, enormi poteri ruotanti intorno a Wall Street e alla City. Sembra lecito allora supporre che le fuorvianti volgarizzazioni di Keynes suggerite dagli opinionisti della moderna industria dei media abbiano potuto diffondersi anche grazie a un clima politico decisamente poco favorevole alle convinzioni più profonde dell’economista britannico. Tuttavia non è solo alle approssimazioni giornalistiche che si possono imputare le odierne incomprensioni sulla visione keynesiana del capitalismo. La stessa accademia ha in questi anni contribuito a ingenerare grande confusione. Basti citare un esempio su tutti: John B. Taylor, il principale esponente della tesi che di fatto scagiona la finanza privata e semplicisticamente attribuisce all’intervento statale la responsabilità di aver causato la recessione iniziata nel 2008, si professa orgogliosamente «New Keynesian». Siamo insomma ben al di là di quello che velenosamente Joan Robinson definì “keynesismo bastardo” e contro il quale si scagliò negli anni Settanta del secolo scorso. Siamo ormai al cospetto di un Keynes usurpato dai suoi antagonisti logici, appeso per i piedi e sbandierato come una specie di trofeo di guerra.
C’è dunque oggi così tanta nebbia intorno a Keynes che la ripubblicazione dei testi originali sembra costituire l’unica via per tentare nuovamente di afferrare la grandezza e la potenziale attualità delle sue tesi sul funzionamento del regime capitalistico di accumulazione. Questo in fondo è il senso ultimo della riproposizione di Essays in persuasion, un libro nel quale Keynes volle raccogliere venticinque tra i suoi più brillanti saggi scritti nel periodo tra il 1919 e il 1931. Si tratta di opuscoli e articoli pubblicati su quotidiani o riviste, ai quali si aggiungono alcuni estratti di celebri pamphlet politici, come Le conseguenze economiche della pace, o di opere teoriche, come La riforma monetaria e il Trattato della moneta. Originariamente pubblicati nel novembre del 1931, gli Essays uscirono in Italia per la prima volta nel 1968 con un titolo leggermente modificato: Esortazioni e profezie. La presente ristampa non contiene modifiche di sorta rispetto alla prima edizione italiana, che a sua volta riproduceva quasi integralmente il testo inglese originario.
Il volume è suddiviso in cinque sezioni. Le prime tre parti sono dedicate alle grandi polemiche degli anni Venti nelle quali Keynes si era «gettato senza riserve»: la controversia sui debiti di guerra, la politica di deflazione e il ripristino della parità aurea prebellica. Nelle sezioni finali l’autore spazia invece su temi più generali: dal giudizio sul socialismo sovietico, al rapporto tra liberalismo e laburismo, all’idea che in un futuro non lontano l’umanità possa esser definitivamente liberata dall’assillo del «problema economico».
Esortazioni e profezie è un titolo estremamente indovinato. Lo stesso Keynes, nella prefazione, arriva a definirsi «una Cassandra che non è mai riuscita a influire in tempo sul corso degli eventi», e rivela che avrebbe egli stesso desiderato porre in luce, fin dal titolo, le virtù premonitrici del suo libro. Questa declamata preveggenza non può in effetti dirsi esagerata. Essa trova riscontri in numerosi passi del volume e raggiunge forse il suo apice in un brano inquietante, dedicato alle conseguenze del Trattato di pace del 1919. Keynes è certo che la Germania non sia materialmente in grado di provvedere al pagamento delle riparazioni e dei debiti di guerra imposti dai paesi vincitori. Per questo motivo decide di lasciare l’incarico di rappresentante britannico alla Conferenza di pace, e lancia un avvertimento: «Se diamo per scontata la convinzione che […] per anni e anni la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza, il paese circondato da nemici […] Se noi mirassimo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderebbe». Nell’irrealtà delle decisioni della Conferenza, mentre tutti partecipano alla messinscena di un trattato insostenibile, Keynes dunque intravede già l’ombra di Hitler, l’incendio del Reichstag, l’abisso disumano del secondo conflitto mondiale. In questa tragica consapevolezza egli tuttavia è solo, impotente, e il suo allarme cade nel vuoto.
Molte altre volte Keynes vestirà i panni della Cassandra inascoltata. Col tempo tuttavia imparerà a diluire le sue istanze ideali in un materialismo intuitivo, sempre più smaliziato. Egli prenderà coscienza del fatto che le battaglie si vincono in primo luogo grazie «all’incontenibile pressione degli eventi», e solo in seconda istanza per «il lento decadere dei vecchi pregiudizi». I suoi scritti rivelano, in questo senso, il tentativo sempre più raffinato di situarsi sul crinale del processo storico, di cogliere in anticipo le congiunture, i punti di rottura, di intervenire nel modo e nel momento giusto per cercare di piegare il corso degli eventi nella direzione dei lumi piuttosto che del buio. Che per Keynes essenzialmente significava riformare il capitalismo, liberandolo dalla opprimente e desueta ideologia del laissez-faire.
E’ forse proprio a causa di questa ambizione, eminentemente politica, che gli stessi scritti teorici di Keynes risultano mutevoli, talvolta sfuggenti. L’urgenza politica di persuadere sembra cioè costringere anche il teorico in un limbo perenne, tra conservazione e rivoluzione concettuale. I saggi contenuti in questo volume appaiono in tal senso emblematici. Il Keynes della tradizione ricevuta affiora di continuo, come quando la disoccupazione viene concepita quale mero fenomeno di squilibrio tra risparmi e investimenti, sia pure duraturo. Si tratta, è bene chiarirlo, del concetto di squilibrio descritto nel Trattato della moneta, un testo che alcuni interpreti considerano già altamente innovativo e difficilmente compatibile con la teoria neoclassica. Il principio della domanda effettiva e la connessa eresia della disoccupazione di equilibrio, contenuti nella Teoria generale del 1936, sono però ancora di là da venire. Ciò nonostante si può già trovare, in queste pagine, una descrizione dei tipici paradossi del risparmio e quindi anche una critica cristallina ai dogmi indiscussi della austerità:
«Vi sono oggi molti benpensanti, animati da amor di patria, i quali ritengono che la cosa più utile [..] sia risparmiare più del solito. Costoro [..] ritengono che la giusta politica in un momento come questo consista nell’opporsi all’allargamento della spesa per lavori pubblici [..]. Ma quando vi è già una forte eccedenza di manodopera [..] il risultato del risparmio è soltanto quello di aumentare questa eccedenza [..] Inoltre, quando un individuo è escluso dal lavoro [..] la sua ridotta capacità di acquisto determina ulteriore disoccupazione [..] La valutazione migliore che posso formulare è che quando si risparmiano cinque scellini, si lascia senza lavoro un uomo per una giornata». Ineccepibile eppure eversivo, forse ora ancor più di allora. Perché negare che il risparmio si tramuti interamente in investimento significa di fatto evidenziare una gigantesca contraddizione insita nel capitalismo individualistico governato dalla finanza privata. Un capitalismo che proprio sulla separazione tra risparmio e investimento vive e prospera, ma a quanto pare su di essa rischia pure di implodere. Inoltre, letta da un’altra angolazione, la critica dell’austerità pone in luce un problema di coordinamento del mercato che sotto date condizioni può rivelarsi fatale: «i singoli produttori ripongono qualche speranza illusoria su iniziative che, intraprese da un singolo, lo avvantaggerebbero, ma che non giovano a nessuno nel momento in cui diventano condotta generale [..] se un determinato produttore, o un determinato paese, taglia i salari, si assicurerà così una quota maggiore del commercio internazionale fino al momento in cui gli altri produttori o gli altri paesi non facciano altrettanto; ma se tutti tagliano i salari, il potere d’acquisto complessivo della comunità si riduce tanto quanto si sono ridotti i costi». Per giunta, la spirale deflazionista così attivata potrebbe determinare una crescita del valore reale dei debiti in grado di scatenare insolvenze e fallimenti. Se poi la caduta dei salari, dei prezzi e dei redditi oltrepassa un certo limite, anche le banche potranno esser trascinate nel precipizio. E’ questo un pericolo che i banchieri negheranno fino all’ultimo, essendo connaturato al loro mestiere «salvare le apparenze». Ma la realtà è che una reiterata competizione al ribasso potrà determinare tali e tante bancarotte da scuotere le fondamenta stesse dell’ordinamento capitalista, «creando terreno fertile per agitazioni, sedizioni, rivoluzioni». Recentissimo del resto era il successo dei bolscevichi in Russia, e il borghese Keynes non perdeva occasione di ricordarlo agli apologeti dell’ortodossia, quei «vecchi signori rigidamente abbottonati nelle loro finanziere».
E’ già tanto per un intellettuale educato nella cittadella, per uno che fu insider politico come pochi altri economisti al mondo. Eppure c’è di più. I saggi raccolti in questo volume contengono infatti dei passi teoricamente stravolgenti, persino più avanzati rispetto alla stessa opera magna del 1936. Come ad esempio quelli dedicati alla distribuzione del reddito:
«La verità è che siamo al bivio tra due teorie della società economica. L’una sostiene che i salari dovrebbero essere determinati facendo riferimento a quanto è “giusto” e “ragionevole” in un rapporto tra classi. L’altra, la teoria del Moloch economico, afferma che i salari dovrebbero essere determinati [..] tenendo presente soltanto l’equilibrio generale».L’affermazione, si badi, non va interpretata in chiave superficialmente etica. A un livello più profondo essa è dichiaratamente teorica e quindi implica, sia pure solo di sfuggita, una critica radicale della dottrina neoclassica dei prezzi e della distribuzione. Sia pure in nuce, già si avverte quel potenziale legame teorico con Sraffa, e quindi con Marx, che molti oggi con acutezza continuano a tessere.
Di tracce della eversione keynesiana il lettore ne troverà dunque molte, in queste pagine. Anche quando il nostro avanza la proposta massimamente conservatrice, nonché tardiva, di tenere la Gran Bretagna dentro la gabbia del gold standard pur di ricandidarla alla leadership del sistema monetario internazionale, il criterio suggerito risulta scandalosamente eterodosso: «l’introduzione di un forte dazio straordinario» all’importazione di merci, al fine di rendere la rigida difesa del cambio compatibile con una politica di espansione dell’occupazione. Una evidente provocazione per gli acritici fautori del liberoscambismo, ieri come oggi numerosi tra le alte schiere e persino tra gli eredi del movimento operaio. Una indicazione tuttavia ancora una volta difficilmente contestabile sul piano della logica, e che fornisce pure qualche utile spunto di riflessione per l’oggi, in una Unione monetaria europea afflitta da un assetto istituzionale autocontraddittorio e forse insostenibile.
Verrebbe a questo punto lecito chiedersi se questa perenne determinazione illuminista a sfidare il pregiudizio costituisse in ultima istanza un tratto irriducibile della personalità profonda di Keynes, una sorta di compulsione bene indirizzata. Una rapida ricognizione biografica confermerebbe senza difficoltà tale congettura. Storia personale, curiosità, rapporti: dall’influenza di Moore alla frequentazione di Bloomsbury, fu una vita improntata alla demolizione delle vecchie convenzioni e al continuo desiderio di spostare in avanti il limite della prospettiva di governo della società. Basti pensare al fermo intendimento non solo di considerare la sessualità questione eminentemente politica, ma addirittura di intuire che un tema così dirompente non dovesse mai esser confinato a «una classe ristretta di individui istruiti, solo una crosta sulla massa del magma umano». Una intuizione, questa, che sembra ancora oggi sfuggire ai più.
Sarebbe tuttavia un errore ridurre il “caso Keynes” a mera eccezione individuale. La modernità di Esortazioni e profezie non è la semplice risultante di una personalità fuori dal comune. Il vero motivo per cui, a distanza di ottant’anni dalla pubblicazione, questo libro arriva ancora oggi a sorprenderci, è che esso venne scritto nel corso di uno straordinario momento dialettico nella storia dell’umanità. La nascita dell’Unione sovietica da un lato e la crisi delle potenze capitalistiche dall’altro permisero a Keynes di osare quel che nel recinto del potere borghese era stato fino ad allora considerato inosabile. Non va dimenticata, a questo riguardo, la previsione contenuta in Prospettive economiche per i nostri nipoti, forse una delle più ardite in tutta l’opera keynesiana:
in un futuro non lontano «l’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere dei piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali».Ebbene, proprio nell’avventura sovietica Keynes non nasconderà di intravedere una occasione di sperimentazione, di accelerazione del tempo:
«Il leninismo comporta, con chiarezza e quasi a mo’ di sfida, un’impostazione non sovrannaturalistica, e la sua essenza, sul piano emotivo ed etico, s’incentra nell’atteggiamento dell’individuo e delle comunità di fronte all’amore del denaro [..] Intendo dire che tenta di costruire l’intelaiatura di una società in cui i motivi pecuniari come motori dell’azione avranno un’importanza relativa diversa, in cui l’approvazione sociale sarà distribuita in maniera diversa».Keynes, che aveva visitato la Russia rivoluzionaria, che aveva più volte espresso il suo orrore per «l’atmosfera di oppressione» percepita, che si lasciò persino andare a frasi grette contro una non meglio precisata «natura russa ed ebraica» all’opera tra i comunisti, si assunse comunque la responsabilità di comunicare al suo mondo che quello sovietico era il vero «laboratorio della vita», e che ai bolscevichi occorreva dare una chance: «un aiuto e non un impedimento». L’uomo di Cambridge dovette insomma rendersi conto che quel che avveniva a Mosca rappresentava il pungolo necessario per scuotere il mondo borghese, per aprire una vera dialettica. Lo scopo era di render concreta anziché utopica la diversa “rivoluzione” che egli aveva in mente per l’Occidente capitalistico, della quale avrebbe poi nella Teoria generale delineato con maggior precisione i contorni: in estrema sintesi, una politica monetaria e di bilancio centrata sulla socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento, al fine di determinare sviluppo economico in condizioni di piena occupazione, una distribuzione più equa delle ricchezze ed anche la definitiva eutanasia del rentier.
Keynes fu dunque figlio di un’epoca straordinaria, durante la quale lo scontro fra capitalismo e socialismo raggiunse livelli di massima tensione.
Il suo intelletto venne chiaramente forgiato dalla disputa tra i due sistemi, le sue idee furono modellate su di essa, e il suo successo dipese anche dal fatto che egli riuscì perennemente a situarsi nel mezzo di quella colossale controversia. Non tutti i biografi rimarcano questo aspetto, eppure esso risulta decisivo e suscita pure alcuni fondamentali interrogativi per il tempo presente. In un’epoca in cui la minaccia di un Grande Altro sembra poco avvertita, viene infatti da chiedersi se possa davvero crearsi uno spazio politico per l’eresia keynesiana o ci si debba invece accontentare di un Keynes sempre più depotenziato, ridotto all’osso di una flebile politica di attenuazione del ciclo economico.
Ad avviso di chi scrive, è proprio l’apparente mancanza di un’alternativa di sistema che impone oggi di rileggere Keynes esaltando gli aspetti più innovativi del suo pensiero. In particolare, vi è motivo di ritenere che l’unico modo per impiegare efficacemente Keynes nella dialettica delle idee sia di portare alle estreme conseguenze la sua critica del laissez-faire attraverso un rinnovato approfondimento del rapporto fra la dottrina keynesiana e la pianificazione statale. Keynes riteneva, a questo riguardo, che la socializzazione dell’investimento atta a garantire la piena occupazione potesse avvenire senza necessariamente intaccare la proprietà e il controllo privato dei mezzi di produzione.
Ma accennò pure alla esigenza di pianificare nel campo dei trasporti, dell’urbanistica, della conservazione dell’ambiente naturale, in tutti i settori in cui il singolo individuo non sarebbe in grado di raccogliere i benefici della sua attività, e persino in materia di localizzazione territoriale dell’industria.
Molti hanno giustamente sottolineato le ambiguità e le contraddizioni insite in questa posizione. Si tratta però di contraddizioni feconde, che la crisi in atto impone di riesaminare e sviluppare. Potremmo dire, in questo senso, che una lettura di Keynes al tempo stesso più fedele e più innovativa rispetto alla vulgata, consentirebbe di estrarre dal suo pensiero l’idea che lo Stato non dovrebbe più relegarsi nella mera e abusata funzione di ancella dei mercati finanziari e prestatore di ultima istanza per il capitale privato, ma dovrebbe piuttosto diventare un creatore di prima istanza di nuova e stabile occupazione. Di prima istanza, si badi, è cioè non per fini di mera assistenza, ma in primo luogo per la produzione di quei beni collettivi che dovrebbero considerarsi fondamentali per il progresso civile dell’umanità e che sfuggono alla ristretta logica dell’impresa capitalistica privata. In un futuro non lontano questa idea tuttora scabrosa potrebbe costituire il vero discrimine tra una prospettiva di benessere materiale condiviso e un nuovo tracollo economico mondiale. Che tuttavia essa riesca o meno ad affermarsi politicamente è questione indeterminata, che atterrà alla dinamica ventura dei rapporti sociali di riproduzione delle merci, delle vite e delle idee.
* Fonte: Emiliano Brancaccio
1 commento:
Esemplare come sempre l'analisi di Brancaccio sul keynesismo. Ma come voi avete durante il periodo del diattito sul MMT constatato, anche keynes aveva fatto cilecca a causa della stagflazione. Assumendo che Marx aveva anche in quel caso ragione, anche se però il mondo si rivolse al neoliberismo
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