8 luglio. Il ragionamento di fondo svolto ormai da tempo da Emiliano Brancaccio, e riproposto in ultimo nel suo articolo Uscire dall'euro? C'è modo e modo, ci trova assolutamente concordi. In sostanza Brancaccio evidenzia tre cose: l'elevata probabilità della fine dell'eurozona, i problemi che essa comporterebbe in considerazione delle diverse modalità di uscita dall'euro, la totale impreparazione della sinistra di fronte a questo scenario.
Sul primo punto - la fine dell'eurozona - Brancaccio è più prudente di noi, ma la centralità che egli assegna ai due punti successivi si giustifica solo con la convinzione che, pur non potendone prevedere i tempi, sarà questo lo scenario più probabile che determinerà il nuovo assetto economico, sociale e politico del Paese.
La sua insistenza sulle diverse modalità di fuoriuscita dalla moneta unica pone il problema dei problemi, cioè quello del programma. Un nodo che a sinistra viene allegramente sfuggito, scambiando per «programma» la solita lista della spesa, fatta di obiettivi giusti ma sganciati dal percorso concreto per raggiungerli. E' il classico vizio massimalista, che gioca al più uno, senza mai porre concretamente la questione del potere.
Nel nostro piccolo, come Mpl, abbiamo più volte indicato i punti essenziali sui quali dovrebbe nascere un governo popolare d'emergenza in grado di gestire, nell'interesse del popolo lavoratore, l'uscita dall'euro e dall'Unione Europea. Tra questi punti vi sono anche quelli richiamati da Brancaccio: il ripristino della scala mobile su salari e pensioni, la difesa del contratto nazionale, il controllo dei prezzi. Ma ve ne sono anche altri non meno decisivi, come la nazionalizzazione del sistema bancario ed il controllo del movimento dei capitali.
L'uscita dall'euro non sarà, in nessun caso, una passeggiata. Ma per la verità non è che le classi popolari oggi abbiano molto da «passeggiare». Né per il presente, né per il futuro. A maggior ragione il volgere altrove il proprio sguardo, tipico di quella sinistra con cui polemizza Brancaccio, è ancor più rivoltante.
Per la verità in altri paesi europei qualcosa ha cominciato a muoversi. Il dibattito sull'euro, anche se in maniera ancora del tutto insufficiente, è presente in Grecia, in Portogallo, in Spagna e perfino in Germania (vedi la posizione di Lafontaine). E' invece totalmente rimosso in Italia, dove il ventennale mix di opportunismo e massimalismo continua ancora oggi a rilasciare i suoi venefici effetti. E dove neppure l'appello spagnolo (che entra nel merito di come uscire dall'euro), per quanto sottoscritto da autorevoli personalità della sinistra, è riuscito a smuovere dal torpore la sinistra. Né quella strutturalmente Pd-dipendente, e fin qui nessuno stupore visto che sarebbe stato stupefacente il contrario, né quella che si raffigura come alternativa al Pd e al centrosinistra.
Se questo è il quadro, ben pochi dovrebbero essere i dubbi sulla necessità di costruire una qualche forma di soggettività politica in grado di impugnare la materia, capace cioè di porre come centrale il tema della sovranità nazionale in una prospettiva di difesa degli interessi delle classi popolari. Brancaccio lamenta in sostanza l'assenza di una sinistra capace di misurarsi con i nodi del presente. Bene, concordiamo con lui, ma forse dobbiamo essere più netti: una sinistra potrà risorgere, nell'attuale congiuntura storico-politica, solo se saprà coniugare un'impostazione di classe con una corretta impostazione della «questione nazionale», in un'ottica di liberazione e di sganciamento dalla gabbia europea e, più in generale, dalla globalizzazione disegnata dal capitalismo casinò.
Alcune osservazioni a proposito degli effetti sui salari e non solo
Giustamente Brancaccio sottolinea la questione della difesa dei salario, evidenziando i pro e i contro derivanti da un'uscita dall'euro. Egli, a tal proposito, cita alcuni studi, con una serie di dati che si prestano ad alcune osservazioni non proprio secondarie.
1. In primo luogo la questione del salario reale, in rapporto alla svalutazioneconseguente all'uscita dalla moneta unica.
I dati riportati da Brancaccio, che prendono in esame nove casi di sganciamento da un cambio fisso avvenuti tra il 1992 ed il 2001, ci dicono che in sette casi su nove i salari reali si sono ridotti nell'anno successivo, per poi ritornare (tranne che in un caso) ai valori precedenti, talvolta superandoli, dopo 5 anni.
Detto così potrebbe sembrare un mezzo disastro. Ma la realtà è assai diversa. Intanto, restando al passato, va rilevato come le differenze tra i pesi presi in esame sono colossali. Mentre, guardando al futuro, siamo d'accordo che tutto dipenderà da chi gestirà il passaggio alla nuova moneta. Quello che invece manca è il raffronto con il presente della crisi in corso. Un calo del salario reale non è già in atto?
Citiamo l'insospettabile Bankitalia che ci dice che nel 2013 il salario medio è sceso da 25.130 euro a 24.644 euro. Un -1,9% in un solo anno, che è già il doppio del calo registrato ad un anno dalla svalutazione del 1992 (-1,0%). E questo dopo cinque anni di crisi che hanno falcidiato i salari, le pensioni, portato ad un forte aumento delle tasse e, soprattutto, a quella che si configura ormai come una vera e propria disoccupazione di massa.
Insomma, confrontarsi con le svalutazioni del passato è certo utile, ma occorre anche uno sforzo per cercare di confrontarsi con le conseguenze sociali del permanere delle attuali politiche. Che hanno già prodotto un massacro sociale, ma che promettono di fare assai peggio d'ora in poi. Basti pensare a quelli che potranno essere gli effetti del Fiscal compact. E, dato che l'alternativa alla svalutazione monetaria è la svalutazione interna, altrimenti detta deflazione salariale, ecco che torniamo alla questione del salario reale. Tema sul quale Brancaccio, citando il capo economista Olivier Blanchard, ci dice quale sarebbe la stima degli ambientini del Fmi sul taglio del salario nominale necessario per rimettere in equilibrio i conti esteri dei paesi periferici: dal 20 al 30%! E si parla di salario nominale, che quello reale (cioè depurato dall'inflazione) dovrebbe diminuire ancor di più.
Ecco, questa è l'alternativa all'uscita dall'euro, il prezzo da pagare per rimanere nella gabbia europea. E dunque è con questa prospettiva che bisogna confrontarsi nel calcolare i possibili costi sociali della fuoriuscita dalla moneta unica. Una prospettiva che non è puramente ipotetica, basti pensare al concretissimo caso greco.
2. In secondo luogo c'è la questione della quota salari.
E' questo un indicatore assai utile per fotografare i rapporti di forza tra le classi, o quantomeno per rilevare le variazioni percentuali della quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori. Brancaccio sottolinea come in tutti i nove casi di sganciamento [da una sistema di cambi fissi, Ndr ] considerati la quota salari sia calata nell'immediato, ed in otto casi su nove anche a distanza di cinque anni. Sembrerebbe una prova infallibile della natura di classe di ogni sganciamento e di ogni svalutazione monetaria. Ci permettiamo di dissentire per almeno tre ragioni.
La prima è che, per sua natura, la svalutazione esterna (monetaria) colpisce in qualche modo tutti i gruppi sociali, mentre - come abbiamo già visto - la svalutazione interna (deflazione salariale, ma anche distruzione del welfare ecc.) colpisce in maniera mirata le fasce più deboli del popolo lavoratore. Ovviamente non siamo così ingenui dal pensare che la svalutazione monetaria sia di per sé egualitaria. I suoi effetti presentano anzi mille sfaccettature che è impossibile esaminare qui nel dettaglio. Tuttavia, la differenza tra le due forme di svalutazione in termini di classe pare evidente. D'altronde, come Brancaccio, partiamo dal presupposto che il processo di sganciamento (incluso il livello di svalutazione da perseguire) dovrà essere gestito politicamente. Dunque esso —e qui sta la netta contrapposizione con il modello Bagnai— non dovrà essere in alcun modo affidato alla libera fluttuazione monetaria.
La seconda ragione che ci porta a dissentire concerne l'analisi storica dei processi in questione. Non c'è grafico sulla riduzione della quota salari che non mostri due cose: la prima è che si tratta di una tendenza che viene da lontano (in Italia dal 1975), la seconda è che si tratta di un fenomeno internazionale, che investe praticamente tutti i «vecchi» paesi industrializzati (in pratica l'area Ocse).
[Come indica la tabella n. 1 la discesa della quota salari nei paesi Ocse è una tendenza generale e di lungo periodo, risultato delle politiche neoliberiste di globalizzazione, che non ha colpito quindi solo paesi che hanno svalutato, ma che, di converso, la loro moneta ha aumentato di valore]
Dunque il rapporto con la svalutazione della lira del 1992 - citato nell'articolo in oggetto - ci pare assai dubbio. Nel caso italiano, all'interno di un trend comunque declinante, ci sono tre momenti di picchiata in discesa della quota salari. La prima picchiata avviene nella seconda metà degli anni '70, quando i ritmi di crescita declinano ed inizia la svolta concertativa di Cgil-Cisl-Uil. La seconda avviene negli anni ottanta, innescata dalla recessione dei primi anni del decennio, ma favorita anche dall'esplosione del peso della rendita. Si sviluppa, in altre parole, un'espansione non tanto dei redditi da capitale in genere, quanto piuttosto di quelli ottenuti con gli investimenti finanziari. E tra questi prendono il volo, in particolare, quelli resi possibili dal divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia del 1981 (speculazione sui titoli del debito pubblico). La terza picchiata coincide sì temporalmente con la svalutazione del 1992, ma ha alla base la cancellazione della scala mobile, l'accordo sulla contrattazione del 1993, la forte accelerazione del processo di precarizzazione del lavoro. Tutti fattori che hanno una relazione strettissima non tanto con la svalutazione, quanto piuttosto con i vincoli imposti dal precedente trattato di Maastricht.
[La tabella n.2 mostra come la Quota salari in Italia abbia subito tre picchi e un trend discendente costante dopo il 1990, di cui la svalutazione del 1992 è solo una parentesi]
In conclusione, se sarebbe assurdo negare un rapporto tra svalutazione e salario reale - e proprio per questo indichiamo l'urgenza di reintrodurre meccanismi di salvaguardia come la scala mobile - altrettanto sbagliato sarebbe il vedere l'albero ma non la foresta, cioè il contesto globale di un attacco al salario ed ai diritti dei lavoratori che viene da lontano, essendo operante da almeno 35 anni, con forti accelerazioni dettate dai vincoli europei e dal tentativo di scaricare la crisi sulle classi popolari.
3. C'è infine una terza osservazione, forse meno importante ma certo non irrilevante. I dati citati da Brancaccio ci consentono infatti, sia pure indirettamente, una valutazione sugli effetti macroeconomici dei casi di sganciamento e svalutazione presi in esame. Se in otto casi su nove il salario reale torna in positivo dopo cinque anni, e se nello stesso periodo la quota salari continua invece a calare, questo significa una cosa ben precisa: che il reddito nazionale complessivo è aumentato in maniera assai significativa. Aumentato in maniera disegualitaria, certo, dato che lo sganciamento da un cambio fisso non è di per sé né anticapitalistico né egualitario. Ma non è difficile capire come anticapitalismo ed egualitarismo avrebbero tutto da guadagnare, potendo operare una politica di redistribuzione e di trasformazione sociale partendo da una ricchezza nazionale più grande.
Conclusioni
Dobbiamo ringraziare Emiliano Brancaccio per il suo approccio al problema della moneta. Un approccio problematico, che non si riduce ad un sì o ad un no. Ma che muove dalla consapevolezza che sarà questo il terreno decisivo sul quale si disegnerà l'Italia del futuro. Da qui la necessità di un programma complessivo, che investa le questioni della moneta, della liberazione dalla gabbia europea, di un vero piano per il lavoro, della difesa del salario e delle condizioni di vita del popolo lavoratore.
Per quanto ci riguarda siamo perfettamente d'accordo. Così come riteniamo imprescindibile l'uscita dall'euro e dal suo sistema di dominio di classe, riteniamo altrettanto necessarie tutte le misure volte a consentire una gestione politica di un cambiamento che non dovrà solo essere monetario, ma sociale e politico al tempo stesso.
Ad ogni modo, come abbiamo cercato di dimostrare, gli studi relativi ai più recenti casi di sganciamento da un sistema di cambi fissi - peraltro inerenti a paesi capitalistici che non hanno avviato alcun processo di trasformazione sociale - ci confermano nella scelta di indicare con più forza la necessità dell'uscita dall'eurozona.
Naturalmente, qui si tratta di lavorare per un'uscita forte e consapevole. Si tratta di guidare un processo, non di subirlo come è avvenuto nei nove casi storici presi in esame. Ma su questo sappiamo che l'accordo con Brancaccio è totale. Si tratta allora di operare per smuovere le acque stagnanti che per ora hanno relegato il tema della sovranità nazionale (e monetaria) in ambiti ancora troppo ristretti. Il manifesto della sinistra spagnola dovrebbe aiutarci in quest'opera di scuotimento. Perché non rilanciare in qualche modo questa iniziativa anche in Italia?
Sul primo punto - la fine dell'eurozona - Brancaccio è più prudente di noi, ma la centralità che egli assegna ai due punti successivi si giustifica solo con la convinzione che, pur non potendone prevedere i tempi, sarà questo lo scenario più probabile che determinerà il nuovo assetto economico, sociale e politico del Paese.
La sua insistenza sulle diverse modalità di fuoriuscita dalla moneta unica pone il problema dei problemi, cioè quello del programma. Un nodo che a sinistra viene allegramente sfuggito, scambiando per «programma» la solita lista della spesa, fatta di obiettivi giusti ma sganciati dal percorso concreto per raggiungerli. E' il classico vizio massimalista, che gioca al più uno, senza mai porre concretamente la questione del potere.
Nel nostro piccolo, come Mpl, abbiamo più volte indicato i punti essenziali sui quali dovrebbe nascere un governo popolare d'emergenza in grado di gestire, nell'interesse del popolo lavoratore, l'uscita dall'euro e dall'Unione Europea. Tra questi punti vi sono anche quelli richiamati da Brancaccio: il ripristino della scala mobile su salari e pensioni, la difesa del contratto nazionale, il controllo dei prezzi. Ma ve ne sono anche altri non meno decisivi, come la nazionalizzazione del sistema bancario ed il controllo del movimento dei capitali.
L'uscita dall'euro non sarà, in nessun caso, una passeggiata. Ma per la verità non è che le classi popolari oggi abbiano molto da «passeggiare». Né per il presente, né per il futuro. A maggior ragione il volgere altrove il proprio sguardo, tipico di quella sinistra con cui polemizza Brancaccio, è ancor più rivoltante.
Per la verità in altri paesi europei qualcosa ha cominciato a muoversi. Il dibattito sull'euro, anche se in maniera ancora del tutto insufficiente, è presente in Grecia, in Portogallo, in Spagna e perfino in Germania (vedi la posizione di Lafontaine). E' invece totalmente rimosso in Italia, dove il ventennale mix di opportunismo e massimalismo continua ancora oggi a rilasciare i suoi venefici effetti. E dove neppure l'appello spagnolo (che entra nel merito di come uscire dall'euro), per quanto sottoscritto da autorevoli personalità della sinistra, è riuscito a smuovere dal torpore la sinistra. Né quella strutturalmente Pd-dipendente, e fin qui nessuno stupore visto che sarebbe stato stupefacente il contrario, né quella che si raffigura come alternativa al Pd e al centrosinistra.
Se questo è il quadro, ben pochi dovrebbero essere i dubbi sulla necessità di costruire una qualche forma di soggettività politica in grado di impugnare la materia, capace cioè di porre come centrale il tema della sovranità nazionale in una prospettiva di difesa degli interessi delle classi popolari. Brancaccio lamenta in sostanza l'assenza di una sinistra capace di misurarsi con i nodi del presente. Bene, concordiamo con lui, ma forse dobbiamo essere più netti: una sinistra potrà risorgere, nell'attuale congiuntura storico-politica, solo se saprà coniugare un'impostazione di classe con una corretta impostazione della «questione nazionale», in un'ottica di liberazione e di sganciamento dalla gabbia europea e, più in generale, dalla globalizzazione disegnata dal capitalismo casinò.
Alcune osservazioni a proposito degli effetti sui salari e non solo
Giustamente Brancaccio sottolinea la questione della difesa dei salario, evidenziando i pro e i contro derivanti da un'uscita dall'euro. Egli, a tal proposito, cita alcuni studi, con una serie di dati che si prestano ad alcune osservazioni non proprio secondarie.
1. In primo luogo la questione del salario reale, in rapporto alla svalutazioneconseguente all'uscita dalla moneta unica.
I dati riportati da Brancaccio, che prendono in esame nove casi di sganciamento da un cambio fisso avvenuti tra il 1992 ed il 2001, ci dicono che in sette casi su nove i salari reali si sono ridotti nell'anno successivo, per poi ritornare (tranne che in un caso) ai valori precedenti, talvolta superandoli, dopo 5 anni.
Detto così potrebbe sembrare un mezzo disastro. Ma la realtà è assai diversa. Intanto, restando al passato, va rilevato come le differenze tra i pesi presi in esame sono colossali. Mentre, guardando al futuro, siamo d'accordo che tutto dipenderà da chi gestirà il passaggio alla nuova moneta. Quello che invece manca è il raffronto con il presente della crisi in corso. Un calo del salario reale non è già in atto?
Citiamo l'insospettabile Bankitalia che ci dice che nel 2013 il salario medio è sceso da 25.130 euro a 24.644 euro. Un -1,9% in un solo anno, che è già il doppio del calo registrato ad un anno dalla svalutazione del 1992 (-1,0%). E questo dopo cinque anni di crisi che hanno falcidiato i salari, le pensioni, portato ad un forte aumento delle tasse e, soprattutto, a quella che si configura ormai come una vera e propria disoccupazione di massa.
Insomma, confrontarsi con le svalutazioni del passato è certo utile, ma occorre anche uno sforzo per cercare di confrontarsi con le conseguenze sociali del permanere delle attuali politiche. Che hanno già prodotto un massacro sociale, ma che promettono di fare assai peggio d'ora in poi. Basti pensare a quelli che potranno essere gli effetti del Fiscal compact. E, dato che l'alternativa alla svalutazione monetaria è la svalutazione interna, altrimenti detta deflazione salariale, ecco che torniamo alla questione del salario reale. Tema sul quale Brancaccio, citando il capo economista Olivier Blanchard, ci dice quale sarebbe la stima degli ambientini del Fmi sul taglio del salario nominale necessario per rimettere in equilibrio i conti esteri dei paesi periferici: dal 20 al 30%! E si parla di salario nominale, che quello reale (cioè depurato dall'inflazione) dovrebbe diminuire ancor di più.
Ecco, questa è l'alternativa all'uscita dall'euro, il prezzo da pagare per rimanere nella gabbia europea. E dunque è con questa prospettiva che bisogna confrontarsi nel calcolare i possibili costi sociali della fuoriuscita dalla moneta unica. Una prospettiva che non è puramente ipotetica, basti pensare al concretissimo caso greco.
2. In secondo luogo c'è la questione della quota salari.
E' questo un indicatore assai utile per fotografare i rapporti di forza tra le classi, o quantomeno per rilevare le variazioni percentuali della quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori. Brancaccio sottolinea come in tutti i nove casi di sganciamento [da una sistema di cambi fissi, Ndr ] considerati la quota salari sia calata nell'immediato, ed in otto casi su nove anche a distanza di cinque anni. Sembrerebbe una prova infallibile della natura di classe di ogni sganciamento e di ogni svalutazione monetaria. Ci permettiamo di dissentire per almeno tre ragioni.
La prima è che, per sua natura, la svalutazione esterna (monetaria) colpisce in qualche modo tutti i gruppi sociali, mentre - come abbiamo già visto - la svalutazione interna (deflazione salariale, ma anche distruzione del welfare ecc.) colpisce in maniera mirata le fasce più deboli del popolo lavoratore. Ovviamente non siamo così ingenui dal pensare che la svalutazione monetaria sia di per sé egualitaria. I suoi effetti presentano anzi mille sfaccettature che è impossibile esaminare qui nel dettaglio. Tuttavia, la differenza tra le due forme di svalutazione in termini di classe pare evidente. D'altronde, come Brancaccio, partiamo dal presupposto che il processo di sganciamento (incluso il livello di svalutazione da perseguire) dovrà essere gestito politicamente. Dunque esso —e qui sta la netta contrapposizione con il modello Bagnai— non dovrà essere in alcun modo affidato alla libera fluttuazione monetaria.
La seconda ragione che ci porta a dissentire concerne l'analisi storica dei processi in questione. Non c'è grafico sulla riduzione della quota salari che non mostri due cose: la prima è che si tratta di una tendenza che viene da lontano (in Italia dal 1975), la seconda è che si tratta di un fenomeno internazionale, che investe praticamente tutti i «vecchi» paesi industrializzati (in pratica l'area Ocse).
Tabella 1. Quota salari sul Pil in alcuni paesi Ocse |
[Come indica la tabella n. 1 la discesa della quota salari nei paesi Ocse è una tendenza generale e di lungo periodo, risultato delle politiche neoliberiste di globalizzazione, che non ha colpito quindi solo paesi che hanno svalutato, ma che, di converso, la loro moneta ha aumentato di valore]
Dunque il rapporto con la svalutazione della lira del 1992 - citato nell'articolo in oggetto - ci pare assai dubbio. Nel caso italiano, all'interno di un trend comunque declinante, ci sono tre momenti di picchiata in discesa della quota salari. La prima picchiata avviene nella seconda metà degli anni '70, quando i ritmi di crescita declinano ed inizia la svolta concertativa di Cgil-Cisl-Uil. La seconda avviene negli anni ottanta, innescata dalla recessione dei primi anni del decennio, ma favorita anche dall'esplosione del peso della rendita. Si sviluppa, in altre parole, un'espansione non tanto dei redditi da capitale in genere, quanto piuttosto di quelli ottenuti con gli investimenti finanziari. E tra questi prendono il volo, in particolare, quelli resi possibili dal divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia del 1981 (speculazione sui titoli del debito pubblico). La terza picchiata coincide sì temporalmente con la svalutazione del 1992, ma ha alla base la cancellazione della scala mobile, l'accordo sulla contrattazione del 1993, la forte accelerazione del processo di precarizzazione del lavoro. Tutti fattori che hanno una relazione strettissima non tanto con la svalutazione, quanto piuttosto con i vincoli imposti dal precedente trattato di Maastricht.
Tabella 2. Quota dei salari su Pil in Italia 1970-2005 |
[La tabella n.2 mostra come la Quota salari in Italia abbia subito tre picchi e un trend discendente costante dopo il 1990, di cui la svalutazione del 1992 è solo una parentesi]
In conclusione, se sarebbe assurdo negare un rapporto tra svalutazione e salario reale - e proprio per questo indichiamo l'urgenza di reintrodurre meccanismi di salvaguardia come la scala mobile - altrettanto sbagliato sarebbe il vedere l'albero ma non la foresta, cioè il contesto globale di un attacco al salario ed ai diritti dei lavoratori che viene da lontano, essendo operante da almeno 35 anni, con forti accelerazioni dettate dai vincoli europei e dal tentativo di scaricare la crisi sulle classi popolari.
3. C'è infine una terza osservazione, forse meno importante ma certo non irrilevante. I dati citati da Brancaccio ci consentono infatti, sia pure indirettamente, una valutazione sugli effetti macroeconomici dei casi di sganciamento e svalutazione presi in esame. Se in otto casi su nove il salario reale torna in positivo dopo cinque anni, e se nello stesso periodo la quota salari continua invece a calare, questo significa una cosa ben precisa: che il reddito nazionale complessivo è aumentato in maniera assai significativa. Aumentato in maniera disegualitaria, certo, dato che lo sganciamento da un cambio fisso non è di per sé né anticapitalistico né egualitario. Ma non è difficile capire come anticapitalismo ed egualitarismo avrebbero tutto da guadagnare, potendo operare una politica di redistribuzione e di trasformazione sociale partendo da una ricchezza nazionale più grande.
Conclusioni
Dobbiamo ringraziare Emiliano Brancaccio per il suo approccio al problema della moneta. Un approccio problematico, che non si riduce ad un sì o ad un no. Ma che muove dalla consapevolezza che sarà questo il terreno decisivo sul quale si disegnerà l'Italia del futuro. Da qui la necessità di un programma complessivo, che investa le questioni della moneta, della liberazione dalla gabbia europea, di un vero piano per il lavoro, della difesa del salario e delle condizioni di vita del popolo lavoratore.
Per quanto ci riguarda siamo perfettamente d'accordo. Così come riteniamo imprescindibile l'uscita dall'euro e dal suo sistema di dominio di classe, riteniamo altrettanto necessarie tutte le misure volte a consentire una gestione politica di un cambiamento che non dovrà solo essere monetario, ma sociale e politico al tempo stesso.
Ad ogni modo, come abbiamo cercato di dimostrare, gli studi relativi ai più recenti casi di sganciamento da un sistema di cambi fissi - peraltro inerenti a paesi capitalistici che non hanno avviato alcun processo di trasformazione sociale - ci confermano nella scelta di indicare con più forza la necessità dell'uscita dall'eurozona.
Naturalmente, qui si tratta di lavorare per un'uscita forte e consapevole. Si tratta di guidare un processo, non di subirlo come è avvenuto nei nove casi storici presi in esame. Ma su questo sappiamo che l'accordo con Brancaccio è totale. Si tratta allora di operare per smuovere le acque stagnanti che per ora hanno relegato il tema della sovranità nazionale (e monetaria) in ambiti ancora troppo ristretti. Il manifesto della sinistra spagnola dovrebbe aiutarci in quest'opera di scuotimento. Perché non rilanciare in qualche modo questa iniziativa anche in Italia?
34 commenti:
Meravigliosa l'idea del manifesto. Io se possono permettere lo relegherei soltanto agli ambiti della sinistra italiana (escludendo il PD ovviamente) per dimostrare che un'uscita da sinistra e possibile e zittire gli uccelli del malaugurio che in nome della rassegnazione preferiscono andare nelle braccia di mamma destra che le da la possibilità di farsi le foto con Briatore e di sputare addosso al vagabondo sotto casa.
Prendendo per buona la validità teorica della serie storica esaminata da Brancaccio sui 9 casi di sganciamento da un cambio fisso, direi che la conseguente e relativa riduzione dei salari reali per cinque anni non sia assolutamente "un mezzo disastro", perché nella maggior parte dei casi si è verificato un successivo aumento salariale, ossia si tratta della luce in fondo al tunnel ('stavolta vera, non il delirio montiano). Mentre un distrastro. questo sì, completo sarebbe (come del resto già è nel mondo reale) il perseverare in questa politica sciagurata di deflazione salariale dovuta all'imposizione dell'euro, dei vincoli esterni e delle condizionalità (che gli economisti latinoamericani non embedded chiamavano col loro vero nome: diktat, ma loro parlavano anche di "deuda externa", non di debito pubblico o sovrano come fa il "nostro" mainstream), politica che continuerà a comprimere salari e stipendi ad infinitum, e che per sua natura non produrrà alcun aumento di competitività delle nostre industrie e dell'export. Ma poi: "ringraziare Brancaccio?" Ho i mei dubbi. Considerato il suo, per dir così, curriculum politico e la sua attitudine dialogante con certa "sinistra", direi che i dubbi di Brancaccio riguardo a una fuoriuscita dall'euro (fino a poco fa ancora più rimarcati, e quando già esisteva un fronte articolato di critici dell'euro) si conciliano con la sua poszione dialogante, che non ha tagliato i ponti con quei settori della "sinistra" non-piddina ancora ancorati, malgrado tutto, al mito politico dell'euro. Ora, se uno giunge alla conclusione netta che l'uscita dall'euro non è la bacchetta magica, ma è mossa strategica imprescindibilie e necessaria per difendere gli interessi materiali delle classi o ceti subordinati, bene, dovrà pur trattare i filoeuristi "di sinistra" (naturalmente mi riferisco ai loro quadri dirigenti) a pesci in faccia (perché sanno ma non vogliono), da "miserabili" e "traditori" qual sono. Mentre se uno resta su posizioni di perplessità e cautela, facendo aggio sulle luci ed ombre più di quanto in realtà siano, be', allora è legittimato a continuare a tenere la porta dialogante aperta con costoro. E questo mi pare l'impasse di Brancaccio.
Una curiosità: per quanto ne so, qui nel blog non viene mai fatto riferimento, in tema di marxismo e di sua elaborazione problematica attuale, alle posizioni teoriche di Gianfranco La Grassa, che a me paiono a questo livello piuttosto interessanti. Si tratta d'una "svista" o precisi disaccordi?
Brancaccio è un intellettuale di livello superiore, appena 40enne, il cui curriculum è quello di uno che non solo pubblica sul Cambridge Journal, ma che ha portato avanti argomenti così robusti da permettersi di ridicolizzare Bertinotti ed essere comunque intervistato su Liberazione, e di attaccare Confindustria e scrivere sul Sole 24 Ore. Poteva vendersi al migliore offerente per una carica di ministro, e non lo ha fatto (mentre sono convinto che oggi molti pseudo-economisti che sparano a zero venderebbero il culo flaccido per trenta denari, se solo qualcuno fosse disposto a comprarglielo).
A proposito, riguardo a La Grassa, proprio Brancaccio gli dedicò una critica costruttiva ma ineccepibile e ancora una volta lungimirante, che oggi si trova in "La crisi del pensiero unico":
http://www.emilianobrancaccio.it/2011/01/07/la-crisi-del-pensiero-unico-2/
Ernesto
Alcuni rilievi di Mazzei a Brancaccio mi sembrano condivisibili. Però attenzione: tentare di criticare Brancaccio sostenendo che la quota salari seguiva un trend di lungo periodo, indipendente dall'uscita dallo SME, vi mette in una posizione debole. A differenza di quel cozzaro di Bagnai, gli economisti seri come Brancaccio non giudicano i fatti dando occhiate volanti a qualche grafico descrittivo, ma analizzano le possibili relazioni di causa-effetto tramite delle batterie di test statistici. Se il Branka dice che almeno per l'Italia la relazione tra uscita dallo sme e caduta della quota salari è ineccepibile, forse bisogna accettare il fatto e iniziare a prendere contromisure.
Saluti
stakanovista
@roberto b
Un contributo di La Grassa è stato pubblicato su questo blog diversi anni fa.
Peccato che ne sia seguito poco o nulla, io trovo le analisi di La Grassa drammaticamente lucide ma capisco, almeno così spero, le differenze di vedute.
Ho scritto al professor Brancaccio un'email lievemente critica circa la sua affermazione riguardo le PMI (da lui definite"cancrena").
La risposta che ho avuto è stata indicibilmente ARROGANTE, MALEDUCATA, SNOB, ALTEZZOSA, PRESUNTUOSA, INVIDIOSA e LIVOROSA.
Se non credete a me provate a scrivergli qualcosa che non sia pura adorazione.
Questo comportamento rispecchia perfettamente l'ambiguità dei più noti personaggi "de sinistra" a cui della gente e delle loro sofferenze importa un fico secco.
Anonimo scusa, quando Brancaccio ha scritto o detto che le PMI sarebbero una "cancrena"?
BY
IL VILE BRIGANTE
Brancaccio, concordando con la definizione di De Cecco, li definisce non cancrena ma metastasi:
http://www.youtube.com/watch?v=xSdO4NpCH-U
al minuto:
15:30
Un altro anonimo mi ha preceduta... è chiaro che i piccoli capitalisti sono la piccola imprenditoria e tra cancrena e metastasi il senso non cambia.
La mia interpretazione è che Brancaccio usa il termine capitalista e non imprenditore per sollecitare il livore della "classe operaia", mentre palesemente sta parlando a favore delle grandi multinazionali ai cui piedi si sta strusciando tutta la sinistra.
Anonimo, a occhio e croce sembri solo uno squallido lacché di quella bestia ignorante e psicopatica di Bagnai. Se a Brancaccio hai presentato la tua pseudo-critica nei termini in cui lo hai fatto qui, lui che ha sempre infinita pazienza con gli imbecilli come te e Pippo, per una volta avrà fatto sicuramente bene a mandarti a fare in culo.
Ho riscritto l'affermazione di Brancaccio, che penso tratta dal dibattito di Napoli. Più o meno dice questo: "Se il tentativo di criticare l’uscita 'da sinistra' nasconde la surrettizia pulsione di interpretare questa fase storica in una chiave ipocritamente interclassista, magari evocando “la patria”, magari ammiccando agli interessi della miriade di piccoli e piccolissimi capitalisti che già fanno molta opinione in questo paese, io francamente non mi accodo. Perché vedete, io sono del parere che si debba assolutamente discutere di assetti proprietari e di controllo dei capitali nazionali. Ma al tempo stesso, agli apologeti della parola “patria” suggerisco di fare attenzione, e magari di leggere George L. Mosse: “Sessualità e nazionalismo”. Ed inoltre, per quanto riguarda i piccoli e piccolissimi capitalisti, io credo che Marcello De Cecco abbia un po' esagerato, ma credo pure che forse non aveva tutti i torti nel definirli non una salvezza per questo paese ma un po' una metastasi".
Ovviamente l'apologeta della parola "patria" è quel coglione di Bagnai. Io sottoscrivo PAROLA PER PAROLA questa critica lucidissima di Brancaccio. E aggiungo che se qui c'è qualche pezzo di coglione che pensa di potere costruire un fronte di liberazione nazionale semplicemente mettendosi in fila dietro la pletora di forze che già da tempo leccano il culo ai piccoli capitalisti di questo paese, e che già ci hanno rovinato con lo slogan "piccolo è bello", allora è meglio che chiudiamo subito baracca e burattini.
Riguardo a te, Anonimo, se pensi di salvare i tuoi quattro denari sporchi che avrai accumulato nella tua vita da piccolo parassita capitalista cercando di fottere per l'ennesima volta i lavoratori italiani, stai attento che questa volta potresti finire davvero male, tu e quel destro di merda che osanni.
La difesa di Brancaccio dei capitali nazionali è l'unica possibile, ed è basata su un intervento pubblico negli assetti proprietari e di controllo. A leccare il culo ai piccoli capitalisti ci pensano già Bagnai e l'Anonimo bancarottiere che ci scrive, ovviamente in coda a una lunghissima fila capitanata da Silvio Berlusconi, "gulliver monopolista sorretto da una miriade di lillipuziani proprietari" (cito ancora Brancaccio).
La sinistra è contro la piccola imprenditoria e cerca di aizzarle la classe "operaia" contro solo perché spera di avere qualche briciola da quella grossa che sta strangolando tutti.
personalmente non ho capitali nè grossi nè piccoli da perdere, ma noto che l'educazione di Brancaccio è pari a quella dei suoi accoliti.
p.s. di Bagnai me ne importa un tubo. Forse ha ragione, ma certo è piuttosto saccente e antipatico.
Compagni, ma perché non provate a mettere un nome prima di postare? così, giusto per capirci tra di noi.
Comunque, almeno abbiamo capito che la signora a partita IVA è una donna. Poverina, essere definita una "metastasi", lei che avrà dato il pane a tante famiglie di schiavi... Sarà mica imparentata con Daniela Santanché? ;-)
Riguardo al compagno che ci ha fatto la gentilezza di riportare per iscritto la frase del Branka, anche io la sottoscrivo, ma mi permetto un chiarimento. Da anni Brancaccio battaglia su due fronti. Da un lato attacca i destri nazionali dello slogan "piccolo è bello", corresponsabili del disastro in cui oggi siamo. Dall'altro attacca i destri bankitalioti e postcomunisti che dicevano che il "vincolo esterno" esterno dell'euro avrebbe miracolosamente trasformato i ranocchi capitalisti italiani in principi della modernità. Se non si mettono insieme queste due critiche non si capisce molto del percorso scientifico di Brancaccio.
Ma ovviamente lo dico tra noi, dalla signora "metastasi", cugina della Santanché, non pretendo mica niente. ;-)
F.M.
Se ti va puoi chiamarmi Iva, ma non sono a partita IVA, hai proprio sbagliato tutto. Lavoro in un'azienda di circa 60 dipendenti e i miei titolari sono brave persone.
Non credo siano loro ad aver causato questa rovina e neppure il panettiere e il verduriere.
Forse banche, finanza e gigantesche corporation internazionali hanno un tantino più di potere (nel manovrare politici ed economisti) dell'idraulico con garzone, ti pare?
p.s.
quando dico che Brancaccio usa il termine "capitalista" per aizzare la "classe lavoratrice" contro i piccoli imprenditori (lavoratori come loro, mica sono gli Elkan!!!) proprio a questa reazione mirano.
Vi va il fumo negli occhi e non ragionate più, sopraffatti dal livore.
Fomentano una guerra tra poveri e poverissimi, mentre i ricchissimi si arricchiscono sempre più e i lavoratori diventano sempre più schiavi. E neppure ve ne accorgete.
Alla Redazione
Secondo me ci sono un paio di commenti con insulti.
Secondo la vostra dichiarazione andrebbero rimossi... oppure dipende da chi si insulta?
Cara Iva, adesso ho capito. Non sei imparentata con la Santanché ma più modestamente le lavi le mutande. ;-)
Cerca di capire, qui siamo un po' marxisti-leninisti. Della tua agognata, santa alleanza tra piccoli capitalisti e lavoratori subordinati non sappiamo cosa farcene, visto che la Storia, con questa tua ipotesi, più che altro si è solo pulita il culo.
Diversamente potremmo iniziare a parlare se tu avessi quel minimo di cultura storica che ti permetterebbe di capire la "linea Brancaccio", che grosso modo è la stessa dei nascenti movimenti di liberazione nazionale che provengono dalla storia del movimento operaio. La logica della loro azione si basa su un intervento statale nella proprietà degli assetti bancari, prima di tutto. Questa è l'unica via per fare fronte contro le oligarchie finanziarie internazionali.
Tutto il resto è solo merdaccia interclassista che somiglia veramente tanto a quella dei Berluscones: a quando Sacconi testimone delle nozze della figlia di Bagnai? ;-)
F.M.
Si, F.M. ha ragione, la questione delle banche è fondamentale. Quando il Prof. Brancaccio parla di "fire sales" a quelle penso che si riferisca, soprattutto. Dovremo decidere a un certo punto se svenderle agli stranieri o se rimetterle sotto controllo pubblico.
Questo tema andrà esaminato di pari passo con il tema dei salari.
Michele
Nella ex Unione Sovietica del caro Lenin, l'operaio e il contadino se la sono presa nel didietro moooooolto più che qui. Hai tutta questa cultura storica e non arrivi a vedere questa semplicissima evidenza?
Con questo ti saluto definitivamente, a te non piace parlare con gli ignoranti (un tantino presuntuoso e sul mio grado di cultura potresti sbagliarti come sulla P. IVA), a me non piace parlare con le persone mentalmente non libere.
Il tuo autodefinirti marxista-leninista in questi termini assoluti e acritici impedisce ogni possibile futuro dialogo tra noi.
Tua Iva
ps
comunque con tutte queste fandonie di cui ti hanno riempito la testa, l'oligarchia, grazie anche all'intermediazione dei Brancacci di turno, sta solo cercando di metterterla nel culo a te a al movimento operaio.
Brancaccio critica semplicemente l'apologia del "piccolo è bello" perché mi pare individui anche certe carenze strutturali nell'economia dello stato italiano (appunto la presenza esagerata di piccole/piccolissime imprese spesso simili tra loro -la dico così ma immagino che lui saprebbe spiegare meglio-). L'alleanza con questi settori in questa fase storica io credo sia inevitabile, ma per una sinistra coerente è altrettanto necessario proporre (a medio-lungo termine) un modello economico-sociale fatto di cooperative (che lo siano davvero però!) e consorzi, di aziende che si uniscono e di lavoratori che producono senza capi e capetti per "designazione divina".
Non sapevo che questo sito fosse frequentato pure dalle cugine anticomuniste della Santanché, che parlano come la Santanché e che per non farsi scovare fingono di essere le sguattere della Santanché. La tizia è di una capraggine indigesta ma mi sembra un buon segno per lo share!
Iva, dai, è ora che te ne torni al Billionaire a parlare male di Lenin e di Brancaccio mentre Briatore, Brunetta e Squinzi ti danno la paghetta e il fido Bagnai serve Cubalibre e White Russian mentre spara qualche altra cazzata su svalutazione e Sol dell'Avvenire...
Gino Acciaio
Due brevi risposte a Stakanovista ed a Giovanni.
A Stakanovista: come avrai capito dall'articolo il mio scopo non era quello di criticare Brancaccio, quanto piuttosto quello di sollecitare una risposta politica di sinistra sul tema dell'euro.
Sulla questione della quota salari io non nego affatto che vi sia stato un rapporto causa-effetto, limitatamente al periodo seguente la svalutazione del 1992. Penso però che questo sia stato solo un elemento, in mezzo a tanti altri (cancellazione della scala mobile, controriforma della contrattazione collettiva, precarizzazione del lavoro), tutti quanti comunque inseriti in un processo complessivo di sostanziale modifica dei rapporti tra le classi. Non sarà un caso, del resto, se la riduzione della quota salari è avvenuta contemporaneamente un po' in tutti quelli che un tempo venivano definiti "paesi industrializzati", compresi quelli che anziché una svalutazione hanno avuto una rivalutazione della loro moneta.
A Giovanni: con Gianfranco La Grassa abbiamo avuto un rapporto di sincera amicizia. Ora però le posizioni espresse da Gianfranco da alcuni anni, hanno portato ad una forte divergenza politica. Nell'analisi della crisi La Grassa sembra ritenere che essa abbia ben poco a che fare con le dinamiche intrinseche al sistema capitalistico. Egli sembra pensare - e toglierei il "sembra" visto che tutto si può dire ma non che La Grassa non esprima chiaramente le sue opinioni - che tutto discenda dalle contraddizioni interne al blocco dominante, arrivando alla conclusione che solo i dominanti fanno la storia, mentre ai dominati non resterebbe (nella migliore delle ipotesi) che fare da portatori d'acqua al loro padrone di turno.
Una visione del mondo che non possiamo condividere, non solo per il suo terrificante pessimismo antropologico, che se porta da qualche parte, porta solo all'inazione; ma anche perché si tratta di una visione sbagliata, tante volte smentita dalla storia.
In ogni caso con La Grassa discuteremmo volentieri ugualmente, ma per discutere seriamente bisogna essere almeno in due...
Leonardo Mazzei
Per scompaginare un sito e delegittimarlo di solito si inizia a riempirlo di commenti del tutto sopra le righe, faziosi e sterili (anche, e soprattutto, quando mescolano con arte brandelli di informazione), conditi da insulti abbondanti e dogmatismi iperbolici da far passare la voglia.
Ciao, gianni
Quoto Unknow, secondo me dovremmo sviluppare un socialismo mediterraneo, in cui venga riconosciuta la proprietà privata ma al contempo il divieto di sfruttamento dell'uomo sull'uomo ponendo alcune regole, ad esempio il divieto di salariare il dipendente con uno stipendio più basso del tuo.
BY
IL VILE BRIGANTE
@IL VILE BRIGANTE che scrive "ad esempio il divieto di salariare il dipendente con uno stipendio più basso del tuo", e soprattutto @Redazione:
Ovviamente ognuno può sognare il mondo che vuole. Sognare è necessario per l'equilibrio personale ma si sogna solo dormendo, cioè con gli occhi chiusi. Per agire politicamente bisogna aprirli, e guardare il mondo così com'è, non come si vorrebbe che fosse. Parlare di comunismo, o di socialismo, come di sistemi politici dove ci sia "il divieto di salariare il dipendente con uno stipendio più basso del tuo" non rende giustizia all'idea e allontana le persone ragionevoli, costringendole a cercare altrove il veicolo politico nel quale militare. Francamente, è questa la ragione principale per cui ho sempre voluto sottolineare pubblicamente il mio non essere comunista, quando invece chi mi conosce bene sa che, in privato e con comunisti con gli occhi aperti, esprimo idee "socialisteggianti" (termine vago intenzionalmente adottato). Ovviamente non chiedo di censurare le espressioni di "socialismo/comunismo naif", di cui alcuni commenti abbondano, ma credo che Redazione dovrebbe, di tanto in tanto, pubblicare qualche articolo nel quale si ribadisca cosa si intende, dal punto di vista adulto, con i termini "socialismo" e/o "comunismo". In ogni caso, per quanto mi riguarda, io continuerò a militare sotto altre bandiere dove, proprio per scoraggiare gli ingenui, non si usano termini troppo carichi di significati emotivi e simbolici, nonché grondanti di superfluo egualitarismo. Ovvio che sotto queste bandiere ci devono essere punti fermi come: beni comuni sotto controllo pubblico, controllo statale del sistema bancario, proprietà pubblica della moneta, tassazione fortemente progressiva, forte riduzione dei diritti d'autore, rifiuto della guerra ma forze armate in grado di scoraggiare qualsiasi aggressione esterna, et cetera et cetera...
p.s. quanto sopra, ovviamente, nell'ipotesi che IL (simpatico) VILE BRIGANTE non abbia risolto il problema di come stabilire amministrativamente i prezzi relativi di ogni bene, dalla capocchia di spillo fino alla macchina più complessa: se così fosse, se l'algoritmo fosse disponibile... beh, allora W il comunismo e la libertà!
Perché vedi, caro BRIGANTE, il successore di Marx, colui che farà fare un passo avanti all'idea, dovrà essere per forza di cose un grande matematico. Nell'attesa dell'algoritmo, che ti piaccia o no, il "mercato" dovrà accollarsi quel compito. Vagli a spiegare tu che la regola deve essere "il divieto di salariare il dipendente con uno stipendio più basso del tuo"!
Con simpatia, Fiorenzo Fraioli
Però forse è un sogno anche pensare che liberismo o statalismo in politica economica siano scelte politiche, magari addirittura democratiche. È forse più vicino al vero ritenere che i modelli si alternino per ribaltamenti sovrastrutturali determinati dagli scontri tra capitali.
La mia modesta opinione è che i lavoratori, sia imprenditori che dipendenti, accetterebbero supervelocemente il progetto di Cattaneo perchè è una strada più semplice per creare una ripresa, più semplice sia a livello politico che operativo.
Se è fattibile e al popolo piace,non cè economista che tenga.
giovanni
Ma io Eco della Rete non mi consoce. Io voglio o Italia socialista o Sicilia libera.
Anche avere la sicilia libera è da poveri sognatori? Anche la ci vorrà un matematico?
BY
IL (antipatico) VILE BRIGANTE
Caro Giovanni, e chi in europa avrebbe mai a convenire di fare ciò che propone Cattaneo. Ormai l'Europa è caput, basta, finita, terminata, e di questo passo mi sa pure l'Ita(g)lia
BY
IL VILE BRIGANTE
@VILE BRIGANTE
Miiinchia, siculo tu sei? E mme lo potevi dire subito, che ti capivo megghiu! Voi siculi una cosa dite, ma un'altra ne pinzate. E quannu tacite, allora sì ca dite le cose chiù assai mpurtanti!
Beh, su quello che penso più volte l'ho dichiarato in altre pagine. E comunque la prego, non facciamo luogocomunismo sui siculi :)))))
E comunque riprendendo il discorso dei salari, si potrebbe dire Keynesianamente se si riduce il salario dei lavoratori, o se questo cresce meno della produttività del lavoro, gli imprenditori non riusciranno a vendere le loro merci. Di qui l'esigenza di un controllo centralizzato dei salari.
Forse impostata così è più congeniale
BY
IL VILE BRIGANTE
Il problema è che c'è molto da discutere se con Keynes si esce effettivamente dalle crisi. Un aiuto al mercato pagato dal debito pubblico che poi ti strozza. Secondo molti la crisi del 29 è terminata,più che con Keynes, con la guerra.
Il capitalismo è più anarchico che pianificato.
Parte dal profitto, non dalla circolazione delle merci.
Per cui si occupa dei salari solo dal lato della produzione. Per il resto, se il meccanismo del profitto si inceppa (caduta tendenziale del saggio di profitto), blocca tutto e distrugge valore e forze produttive.
Per chiarezza: il capitale, libro terzo,capitolo XV,"Eccesso di capitale e..."
Ciao.gianni
Daccordo con te Gianni. Però il New Deal salvò milioni di disoccupati americani, poi è vero che la guerra diede il colpo di grazia, però dopo la guerra le politihcre keynesiane riportarono occupazione. Tuttavia concordo con la tua analisi marxiana, ma purtroppo orai siamo in un modno psicologicamente diverso, in cui citare Keynes è come citare Lucifero, figurarsi citare Marx
IL VILE BRIGANTE
Parlare di Marx.
C'è chi lo fa e in maniera molto efficace, attualizzando le analisi nella realtà cotidiana. Se non lo conosci già guardati questo sito: diciottobrumaio.blogspot.
Purtroppo non ha un archivio tematico ma se giri tra i post ne trovi eccellenti. Puoi anche chiedere c'è la più totale disponibilità
gianni
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