[ 23 giugno ]
«Chi viene seppellito ancora in vita è destinato a campare a lungo»
L'amico Marino Badiale è uno dei più convinti assertori della tesi che la dicotomia destra-sinistra non ha più alcun senso politico, che occorre quindi sbarazzarsi una volta per tutte della categoria "sinistra". Lo ha ribadito in un recente intervento [Ancora su destra e sinistra] nel quale prendeva di mira un mio articolo DICOTOMIA DESTRA-SINISTRA: TRAMONTO O ECLISSI?
Per quanto questa discussione non debba essere confusa con l'altra, quella sull'uscita da sinistra o da destra dall'euro, è bene che il lettore la tenga nella debita considerazione.
Marino Badiale, "siccome sul tema c'è una grande confusione", si è proposto, di "fare chiarezza e delimitare l'oggetto della discussione". Non penso che egli ci sia riuscito.
Alle radici del discorso sulla "morte della sinistra"?
Anzitutto contesta la mia tesi che la narrazione della fine della tradizionale opposizione destra-sinistra venga da lontano, dalla fine degli anni '70, ed abbia le sue radici nel pensiero dei filosofi della "postmodernità", in particolare nei post-strutturalisti francesi come Jean-François Lyotard e Jean Baudrillard.
Badiale, pur riconoscendo che il pensiero postemodernista è egemone in Occidente (io sarei più prudente, direi solo nell'Europa continentale), e che anzi rappresenta lo "spirito del tempo", scrive infatti che la mia proposizione per cui la radice di tutti i discorsi sulla fine della dicotomia destra-sinistra sarebbe nell'opera del pensatori postemodernisti è "... falsa in senso stretto e vuota se presa in senso generico".
Sono francamente sorpreso che Badiale giunga a negare questa solare evidenza. Furono invece proprio i teorici del postmodermismo ad asserire che con l'avvento della globalizzazione e della società liquida e decentralizzata, non solo entravano nella desuetudine le tradizionali distinzioni di classe le vecchie categorie del politico, deperivano anche, come significanti privi di significato, le vecchie "grandi narrazioni" progressiste e illuministe, le idee di emancipazione, liberazione, eguaglianza, e con esse l'idea di socialismo.
Il pensiero postmodernista, nel contesto delle Nietzsche renaissance era, secondo il mio modesto avviso, non solo una resa teorica alla controffensiva sociale capitalistica, era l'altra faccia della medaglia del pensiero neoliberista in ascesa, quest'ultimo ben espresso dalla fulminante e radicalmente nominalista-empirista battuta della Tatcher "La società non esiste, esiste solo l'individuo", nonché dalla tesi di Fukuyama sulla "fine della storia".
Badiale afferma poi che ciò che egli per la precisione difende è la versione di Bontempelli e Preve del superamento della dicotomia i quali, al contrario dei postemodernisti che si riallacciavano al pensiero di Nietzsche ed Heidegger, si rifacevano invece ad Hegel e a Marx, ovvero erano difensori del..."valore veritativo della filosofia".
Scusate ma che c'azzecca?
Italica Coincidentia oppositorum
Il fatto che sul piano filosofico i compianti Bontempelli e Preve fossero strenui avversari di pensatori come Jean-François Lyotard e Jean Baudrillard (e chi mai li ha "iscritti al gruppo dei pensatori postmodernisti?) non confuta in alcun modo che le origini del discorso sulla fine della dicotomia destra-sinistra è da rintracciare nel pensiero dei postmodernisti. Non è colpa mia se siamo alla prese con la più classica coincidentia oppositorum.
Bontempelli e Preve iniziarono infatti a parlare di superamento del concetto di "sinistra" a metà degli anni '90 del secolo scorso, ovvero a distanza di più di un decennio dacché questo spartito rimbombava a destra e a manca anche in Italia, sopratutto dopo il 1989, suonato (come oggi del resto) non solo da una sciame di solisti e marchettari di diverso colore, ma dalla poderosa orchestra sinfonica neoliberista che inneggiava alla "morte delle ideologie".
Che il discorso sulla fine delle "metanarrazioni" fosse solo un modo, magari sgargiante, di partecipare ai funerali del marxismo, risultò chiaro ben presto anche in Italia.
Come si vede la coincidenza sta nel nocciolo stesso del discorso di Cacciari: sinistra aveva senso ai tempi delle politiche keynesiane, sinistra era quindi sinonimo di riformismo sociale keynesiano.
«Chi viene seppellito ancora in vita è destinato a campare a lungo»
Vecchio proverbio russo
Per quanto questa discussione non debba essere confusa con l'altra, quella sull'uscita da sinistra o da destra dall'euro, è bene che il lettore la tenga nella debita considerazione.
Marino Badiale, "siccome sul tema c'è una grande confusione", si è proposto, di "fare chiarezza e delimitare l'oggetto della discussione". Non penso che egli ci sia riuscito.
Alle radici del discorso sulla "morte della sinistra"?
Anzitutto contesta la mia tesi che la narrazione della fine della tradizionale opposizione destra-sinistra venga da lontano, dalla fine degli anni '70, ed abbia le sue radici nel pensiero dei filosofi della "postmodernità", in particolare nei post-strutturalisti francesi come Jean-François Lyotard e Jean Baudrillard.
Badiale, pur riconoscendo che il pensiero postemodernista è egemone in Occidente (io sarei più prudente, direi solo nell'Europa continentale), e che anzi rappresenta lo "spirito del tempo", scrive infatti che la mia proposizione per cui la radice di tutti i discorsi sulla fine della dicotomia destra-sinistra sarebbe nell'opera del pensatori postemodernisti è "... falsa in senso stretto e vuota se presa in senso generico".
Sono francamente sorpreso che Badiale giunga a negare questa solare evidenza. Furono invece proprio i teorici del postmodermismo ad asserire che con l'avvento della globalizzazione e della società liquida e decentralizzata, non solo entravano nella desuetudine le tradizionali distinzioni di classe le vecchie categorie del politico, deperivano anche, come significanti privi di significato, le vecchie "grandi narrazioni" progressiste e illuministe, le idee di emancipazione, liberazione, eguaglianza, e con esse l'idea di socialismo.
Il pensiero postmodernista, nel contesto delle Nietzsche renaissance era, secondo il mio modesto avviso, non solo una resa teorica alla controffensiva sociale capitalistica, era l'altra faccia della medaglia del pensiero neoliberista in ascesa, quest'ultimo ben espresso dalla fulminante e radicalmente nominalista-empirista battuta della Tatcher "La società non esiste, esiste solo l'individuo", nonché dalla tesi di Fukuyama sulla "fine della storia".
Badiale afferma poi che ciò che egli per la precisione difende è la versione di Bontempelli e Preve del superamento della dicotomia i quali, al contrario dei postemodernisti che si riallacciavano al pensiero di Nietzsche ed Heidegger, si rifacevano invece ad Hegel e a Marx, ovvero erano difensori del..."valore veritativo della filosofia".
Scusate ma che c'azzecca?
Italica Coincidentia oppositorum
Il fatto che sul piano filosofico i compianti Bontempelli e Preve fossero strenui avversari di pensatori come Jean-François Lyotard e Jean Baudrillard (e chi mai li ha "iscritti al gruppo dei pensatori postmodernisti?) non confuta in alcun modo che le origini del discorso sulla fine della dicotomia destra-sinistra è da rintracciare nel pensiero dei postmodernisti. Non è colpa mia se siamo alla prese con la più classica coincidentia oppositorum.
Bontempelli e Preve iniziarono infatti a parlare di superamento del concetto di "sinistra" a metà degli anni '90 del secolo scorso, ovvero a distanza di più di un decennio dacché questo spartito rimbombava a destra e a manca anche in Italia, sopratutto dopo il 1989, suonato (come oggi del resto) non solo da una sciame di solisti e marchettari di diverso colore, ma dalla poderosa orchestra sinfonica neoliberista che inneggiava alla "morte delle ideologie".
Che il discorso sulla fine delle "metanarrazioni" fosse solo un modo, magari sgargiante, di partecipare ai funerali del marxismo, risultò chiaro ben presto anche in Italia.
Era il 1982 quando si svolse a Roma un convegno dal titolo "Il concetto di sinistra" ed al quale parteciparono, tra gli altri intellettuali del calibro di Giacomo Marramao, Gianni Vattimo, Salvatore Veca, Paolo Flores D'Arcais e quindi Massimo Cacciari. Gli atti vennero pubblicati da Bompiani.
In quel convegno fu proprio Massimo Cacciari che con estrema nettezza affermò che occorreva sbarazzarsi della parola "sinistra" in quanto era disossata, desematizzata, e che continuare ad usarla era dannoso e offuscava la visione della realtà. Il quale Cacciari, com'è noto, non ha cambiato idea. Consiglio la lettura di una sua intervista a La Repubblica del 13 luglio 2013. Sentiamo qual'è il discorso di Cacciari:
In quel convegno fu proprio Massimo Cacciari che con estrema nettezza affermò che occorreva sbarazzarsi della parola "sinistra" in quanto era disossata, desematizzata, e che continuare ad usarla era dannoso e offuscava la visione della realtà. Il quale Cacciari, com'è noto, non ha cambiato idea. Consiglio la lettura di una sua intervista a La Repubblica del 13 luglio 2013. Sentiamo qual'è il discorso di Cacciari:
«Sinistra è una parola instabile e in definitiva inservibile. (...) Già allora non si dicevano tutti "di sinistra", a sinistra. Sinistra indicava socialdemocrazia, welfare postkeynesiano, ridistribuzione del reddito. Gli altri erano comunisti, era difficile che un comunista si definisse "di sinistra". La parola sinistra, allora, aveva un forte contenuto politico, era una distinzione riconoscibile anche sul piano valoriale, ma tutto questo perché esisteva la destra, c'erano i non-democratici, c'erano i fascisti. Però, già allora, chi voleva capire sapeva che quella distinzione non era universale, era legata a una stagione della storia e stava ormai evaporando con essa. L'opposizione destra-sinistra è lineare, bidimensionale. Se manca uno dei due termini crolla anche l'altro. (...) Sinistra era una parola della fase keynesiana, democratico-antifascista, che non ci serve più, non ci sono più i fascisti, siamo tutti democratici. Se insisto a dire sinistra, mi porto dietro una dicotomia che è segnata dalla storia, mi ancoro a un passato. (...) Chiedersi cosa è Europa, cosa è nazione, come si affronta la globalizzazione. Non c'è un prontuario di sinistra per queste cose, perché la disposizione concettuale destra- sinistra è arcaica, lineare, mentre il mondo oggi è multidimensionale».Al netto di alcune corbellerie sostenute dal Cacciari e con buona pace del... "valore veritativo della filosofia", non solo il lessico del suo discorso ma pure la struttura concettuale si rassomigliano come gocce d'acqua a quelli di Bontempelli e Badiale che nel 2010 scrivevano:
«Nei due secoli della storia della sinistra questa particolare fusione dei fini ideali sopra indicati con la prospettiva storica del progresso, declinato come sviluppo sociale ed economico, è stata realmente efficace. E’ stato cioè possibile ottenere significativi progressi nella realizzazione degli ideali della sinistra grazie allo sviluppo stesso. Il punto culminante di questo successo storico della sinistra è rappresentato dal secondo dopoguerra, dal “trentennio dorato” della fase storica “keynesiano-fordista” del capitalismo occidentale. In questa fase l’accentuato ritmo dello sviluppo economico ha fornito le basi per una politica riformista che ha realmente migliorato la situazione materiale dei ceti subalterni nei paesi occidentali. Si tratta della fase di massima influenza della sinistra. L’indice più chiaro di questa influenza è il fatto che, in un certo senso, l’intero arco delle forze politiche di governo dei paesi occidentali si è mosso allora sul piano delle politiche riformiste della sinistra. Quando andavano al potere, le forze politiche di destra o di centro-destra non potevano cambiare radicalmente le politiche di tipo socialriformista, ma al massimo rallentarle o modularle diversamente. Tutto questo finisce, come si è accennato, alla fine del “trentennio dorato”, cioè in sostanza con la crisi economica degli anni Settanta del Novecento».E nel recente articolo in questione Badiale scrive:
[Massimo Bontempelli e Marino Badiale, Bisogna finire, Bisogna cominciare]
«Secondo Bontempelli, e secondo l'autore di queste righe la contrapposizione destra e sinistra è una forma particolare dello scontro politico all'interno del capitalismo, che è stata superata dagli sviluppi recenti delle società capitalistiche».La sinistra e il keynesismo
Come si vede la coincidenza sta nel nocciolo stesso del discorso di Cacciari: sinistra aveva senso ai tempi delle politiche keynesiane, sinistra era quindi sinonimo di riformismo sociale keynesiano.
In buona sostanza, per tenere in piedi la tesi che sinistra sarebbe morta, in nome della verità, la si stupra, affermando che la sinistra equivaleva al keynesismo. Si costruisce un teorema a partire da un postulato completamente falso. Così Badiale cita una mia affermazione :
L'obiezione che la mia qualificazione escluderebbe la "sinistra riformista" è non solo capziosa ma errata sul piano storico fattuale. Di sinistra non ce n'è mai stata una sola e indistinta, ce ne sono state (dopo quella cosetta chiamata Rivoluzione d'Ottobre) almeno due: quella rivoluzionaria e quella riformista, la quale si distingueva da quella rivoluzionaria non perché avesse cancellato l'obbiettivo di passare al socialismo, bensì per la via pacifica e democratica con cui voleva raggiungere lo scopo. Mi pare addirittura pleonastico ricordare a Badiale che la stessa sinistra riformista postulava la fuoriuscita dal capitalismo, il Pci fino al 1989, la stessa socialdemocrazia tedesca fino al 1956 con Bad Godesberg. Ergo: schiacciare e far coincidere la parola sinistra con il keynesismo non è soltanto semplificatorio, è falso.
Come vedremo più avanti forzare i concetti stabilendo una secca corrispondenza tra sinistra e keynesismo serve al Nostro per giustificare l'idea che solo un'economia di decrescita è la soluzione e che la nuova linea divisoria è tra il campo dei decrescististi e quello degli sviluppisti —siano essi neoliberisti, keynesiani o marxisti.
Le correnti keynesiane negando infatti a priori ogni superamento del capitalismo e dell'economia di mercato, non erano affatto considerate parte dello schieramento popolare e di classe, se erano considerate di sinistra lo erano in quanto espressione della cosiddetta "borghesia illuminata" con la quale erano possibili al massimo solo alleanze, a seconda dei casi tattiche o strategiche, ma solo alleanze.
«Considero di sinistra chi e solo chi postula come necessario fuoriuscire dal capitalismo per una società dove la ricchezza venga equamente distribuita fra tutti e quindi i mezzi di produzione non siano più strumenti per i privilegi di una classe sociale (capitale) ma beni comuni, proprietà sociale»;accusandomi di escludere in tal modo dal campo della sinistra la "sinistra riformista". Chiederei a Badiale di stare anzitutto alla sostanza: egli è d'accordo o no che se l'umanità vuole assicurarsi un futuro "la ricchezza dovrà essere equamente distribuita fra tutti e quindi i mezzi di produzione non siano più strumenti per i privilegi di una classe sociale (capitale) ma beni comuni, proprietà sociale"? Io suppongo di sì. E se la risposta è sì viene una seconda domanda: è vero o no che a dispetto della "fine delle ideologie", per un generale e ragionevole senso comune questo discorso è identificato come di sinistra? Mi si lasci quindi proporre una tesi: finché la società sarà divisa in classi sociali antagoniste, non solo resteranno imperituri gli ideali rivoluzionari di eguaglianza sociale, avremo conflitto tra oppressi e oppressori, e finché esisteranno questi due campi avremo anche, mutatis mutandis —una medesima essenza può assumere diverse forme e linguaggi, a seconda dei contesi storici e sociali—, una destra ed una sinistra.
L'obiezione che la mia qualificazione escluderebbe la "sinistra riformista" è non solo capziosa ma errata sul piano storico fattuale. Di sinistra non ce n'è mai stata una sola e indistinta, ce ne sono state (dopo quella cosetta chiamata Rivoluzione d'Ottobre) almeno due: quella rivoluzionaria e quella riformista, la quale si distingueva da quella rivoluzionaria non perché avesse cancellato l'obbiettivo di passare al socialismo, bensì per la via pacifica e democratica con cui voleva raggiungere lo scopo. Mi pare addirittura pleonastico ricordare a Badiale che la stessa sinistra riformista postulava la fuoriuscita dal capitalismo, il Pci fino al 1989, la stessa socialdemocrazia tedesca fino al 1956 con Bad Godesberg. Ergo: schiacciare e far coincidere la parola sinistra con il keynesismo non è soltanto semplificatorio, è falso.
Come vedremo più avanti forzare i concetti stabilendo una secca corrispondenza tra sinistra e keynesismo serve al Nostro per giustificare l'idea che solo un'economia di decrescita è la soluzione e che la nuova linea divisoria è tra il campo dei decrescististi e quello degli sviluppisti —siano essi neoliberisti, keynesiani o marxisti.
Le correnti keynesiane negando infatti a priori ogni superamento del capitalismo e dell'economia di mercato, non erano affatto considerate parte dello schieramento popolare e di classe, se erano considerate di sinistra lo erano in quanto espressione della cosiddetta "borghesia illuminata" con la quale erano possibili al massimo solo alleanze, a seconda dei casi tattiche o strategiche, ma solo alleanze.
Oggigiorno l'avanzata del neoliberismo e della finanziarizzazione dell'economia, con il suo portato di esclusione e ingiustizie sociali è stata talmente devastante che i difensori delle terapie keynesiane vengono equiparati, in virtù di un senso comune non a caso duro a morire, di sinistra —il senso comune a cui Gramsci dava l'importanza che meritava. Non è per questa etichetta appiccicata loro dai neoliberisti che la collaborazione politica con essi è benvenuta. Questa coalizione tra keynesiani e sinistra anticapitalista è necessaria per evitare il peggio, per strappare il potere dalla mani dei neoliberisti e riconsegnare al popolo ed al Paese la sua sovranità. Abbiamo detto e ripetiamo che un governo d'emergenza non potrà, come minimo, che applicare misure economiche e sociali ispirate al pensiero di Keynes. Una volta messo in sicurezza il paese, ne siamo certi, la società si troverà davanti al dilemma se permanere in un'economia di mercato, per quanto politicamente regolata, o se procedere verso un ordinamento di tipo socialista. E allora, seguendo il solco di una storia millenaria, l'uno si ridividerà in due, avremo un diverso e più avanzato campo di battaglia, nuovi schieramenti, dove le forze keynesiane, oggi progresssive potrebbero diventare conservatrici.
L'infelice decrescita
Ad un certo punto della sua critica Badiale diventa finalmente più preciso. Non si dovrebbe più parlare di sinistra perché essa:
Badiale scolpisce nella pietra due concetti: (1) che "lo sviluppo economico è essenzialmente de-emancipatorio" e (2) che le istanze di emancipazione dei ceti subalterni confliggono con lo sviluppo economico e tecnologico.
In sintesi Badiale ci sta implicitamente dicendo che un'economia di "decrescita" è la sola possibile via d'uscita al marasma che affligge l'umanità. Svelato il paradigma teorico si scopre quale sia il marchingegno con cui il Nostro solleva e fa sparire dalla scena, assieme al keynesismo, tutte le sinistre. Come accennavo sopra per i sostenitori della "decrescita" non ci sarebbero più destra e sinistra, ma decrescitisti e sviluppisti. Questa sarebbe la nuova, verace e definitiva linea di separazione tra campi contrapposti. Da ciò ne consegue, come l'effetto dalla causa, che sulla base del paradigma della decrescita, un corrispondente movimento politico possa inglobare anche correnti di pensiero antiegualitarie, passatiste, elitiste e addirittura reazionarie. Se non sbaglio è lo stesso mantra del mainstream e che il furfante Salvini ripete a pappagallo: "Fascismo? Comunismo? Sono solo temi per gli storici". Se sbaglio Badiale mi correggerà.
Non è qui il luogo per trattare della decrescita. Badiale sa comunque, sin dai tempi della Associazione Rivoluzione democratica (c'era anche Bontempelli) che noi siamo i primi ad ammettere i limiti economicistici del discorso di Marx, la sua smisurata fiducia nel progresso tecnico delle forze produttive, la sua idea deterministica per cui più il capitalismo si sarebbe sviluppato, più vicino sarebbe stato il socialismo.
Badiale si ricorderà altrettanto bene le ragioni per cui le nostre strade si divisero alla fine del 2009. Per noi, con il crollo finanziario venuto avanti col clamoroso fallimento della banca d'affari americana Lehman Brothers, eravamo entrati dentro una crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale, la quale avrebbe non solo prodotto, come dopo il 1929, guasti, ingiustizie sociali e grandi conflitti, la quale avrebbe fatto da spartiacque tra un periodo ed un altro. Per noi la discussione su socialismo e decrescita doveva lasciare il passo all'urgenza storica di proporre un programma d'emergenza nazionale per evitare la catastrofe sociale. Questo programma per noi doveva incorporare essenziali misure keynesiane di politica economica, oltreché la difesa intransigente dell'ordinamento democratico e costituzionale.
Gli amici decrescitisti contestavano questa proposta, proprio in quanto per essi, pur vero che era il modello neoliberista a non funzionare più, nemmeno era ammissibile pensare a soluzioni, per quanto momentanee, di tipo keynesiano. Per essi keynesismo e neoliberismo era anime gemelle, figlie della concezione del mondo sviluppista e quantitativa del progresso. Era come se ci dicessero: "niente male che il motore economico si sia piantato, cogliamo l'occasione di questa crisi generale per affermare subito modelli sociali fondati sulla decrescita". Respingemmo non tanto la discussione sulla decrescita, ma questa impostazione fondamentalista perché ci avrebbe chiuso in un vicolo cieco.
A distanza di cinque anni Marino Badiale riconfermò le sue posizioni. Lo fece all'importante summit di Chianciano Terme del gennaio 2014, quando ebbe modo di svolgere una prolusione il cui centro era proprio la tesi che il keynesisno era oramai una moneta fuori corso, e quindi la difesa della decrescita come sola alternativa.
Per capire chi avesse ragione si guardi a cosa sta accadendo, anzitutto alla decrescita economica Europa, all'ostinazione con cui le élite neoliberiste si tengono attaccate all'osso dei loro templi finanziari, e ci si dica —dati i livelli di disoccupazione, emarginazione ed esclusione sociale, l'aumento massiccio delle povertà e delle diseguaglianze sociali— se la soluzione sia la decrescita o non invece un programma di misure per il rilancio immediato dell'economia, tra cui l'uscita dall'eurozona e la rottura col capitalismo-casinò.
Non posso concludere senza far notare che il difetto dell'approccio radicalmente anti-economicista —per cui lo sviluppo economico sarebbe oramai inesorabilmente "essenzialmente de-emancipatorio"— sta proprio nel manico. Esso subordina la condanna dell'attuale modo capitalistico di produzione delle merci fondato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, a quella, ancor più radicale, dell'industria, della tecnica e della scienza. Il che disvela come, certi semi della visione del mondo decrescitista, siano stati gettati proprio dalla (apparente) bestia nera dei compagni Bontempelli e Badiale, ovvero proprio quel reazionario incallito che era Friedrich Nietzsche. Una bella contraddizione, per chi dice di essere con Hegel e Marx!, ritrovarsi, nella critica decrescitista all'idea stessa di "progresso, ai loro antipodi.
Certo, è vero che nessuna tecnologia è mai neutrale e, come è dimostrato, molte sono dannose per l'uomo e e la natura. Tuttavia, ed in questo Marx aveva ragioni suo socialisti utpisti, è proprio grazie ad esse, a condizione di toglierle dalla mani di una classe per sua natura predatoria e ossessionata dal succhiare plusvalore, che l'umanità potrà liberarsi dal fardello del lavoro coatto, liberando per tutti noi la cosa più preziosa: il tempo libero, il tempo di vita. Sarà proprio grazie all'alto grado di sviluppo delle forze produttive che sarà possibile, non solo lavorare meno lavorando tutti, ma soddisfare i bisogni del genere umano, a partire da quelli primari, di cui gran parte dell'umanità non può godere, e mai lo potrà sulla base dell'economia capitalistica.
Ad un certo punto della sua critica Badiale diventa finalmente più preciso. Non si dovrebbe più parlare di sinistra perché essa:
«... è il luogo culturale e politico che nella modernità ha coniugato le istanze di emancipazione dei ceti subalterni con le istanze di sviluppo economico e tecnologico. La sinistra è stata vitale finché è stato possibile pensare di ottenere l’emancipazione attraverso lo sviluppo. Da alcuni decenni siamo entrati in una situazione nella quale lo sviluppo economico è essenzialmente de-emancipatorio, e questo toglie lo spazio vitale della sinistra».Qui il discorso si fa terribilmente serio.
Badiale scolpisce nella pietra due concetti: (1) che "lo sviluppo economico è essenzialmente de-emancipatorio" e (2) che le istanze di emancipazione dei ceti subalterni confliggono con lo sviluppo economico e tecnologico.
In sintesi Badiale ci sta implicitamente dicendo che un'economia di "decrescita" è la sola possibile via d'uscita al marasma che affligge l'umanità. Svelato il paradigma teorico si scopre quale sia il marchingegno con cui il Nostro solleva e fa sparire dalla scena, assieme al keynesismo, tutte le sinistre. Come accennavo sopra per i sostenitori della "decrescita" non ci sarebbero più destra e sinistra, ma decrescitisti e sviluppisti. Questa sarebbe la nuova, verace e definitiva linea di separazione tra campi contrapposti. Da ciò ne consegue, come l'effetto dalla causa, che sulla base del paradigma della decrescita, un corrispondente movimento politico possa inglobare anche correnti di pensiero antiegualitarie, passatiste, elitiste e addirittura reazionarie. Se non sbaglio è lo stesso mantra del mainstream e che il furfante Salvini ripete a pappagallo: "Fascismo? Comunismo? Sono solo temi per gli storici". Se sbaglio Badiale mi correggerà.
Non è qui il luogo per trattare della decrescita. Badiale sa comunque, sin dai tempi della Associazione Rivoluzione democratica (c'era anche Bontempelli) che noi siamo i primi ad ammettere i limiti economicistici del discorso di Marx, la sua smisurata fiducia nel progresso tecnico delle forze produttive, la sua idea deterministica per cui più il capitalismo si sarebbe sviluppato, più vicino sarebbe stato il socialismo.
Badiale si ricorderà altrettanto bene le ragioni per cui le nostre strade si divisero alla fine del 2009. Per noi, con il crollo finanziario venuto avanti col clamoroso fallimento della banca d'affari americana Lehman Brothers, eravamo entrati dentro una crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale, la quale avrebbe non solo prodotto, come dopo il 1929, guasti, ingiustizie sociali e grandi conflitti, la quale avrebbe fatto da spartiacque tra un periodo ed un altro. Per noi la discussione su socialismo e decrescita doveva lasciare il passo all'urgenza storica di proporre un programma d'emergenza nazionale per evitare la catastrofe sociale. Questo programma per noi doveva incorporare essenziali misure keynesiane di politica economica, oltreché la difesa intransigente dell'ordinamento democratico e costituzionale.
Gli amici decrescitisti contestavano questa proposta, proprio in quanto per essi, pur vero che era il modello neoliberista a non funzionare più, nemmeno era ammissibile pensare a soluzioni, per quanto momentanee, di tipo keynesiano. Per essi keynesismo e neoliberismo era anime gemelle, figlie della concezione del mondo sviluppista e quantitativa del progresso. Era come se ci dicessero: "niente male che il motore economico si sia piantato, cogliamo l'occasione di questa crisi generale per affermare subito modelli sociali fondati sulla decrescita". Respingemmo non tanto la discussione sulla decrescita, ma questa impostazione fondamentalista perché ci avrebbe chiuso in un vicolo cieco.
A distanza di cinque anni Marino Badiale riconfermò le sue posizioni. Lo fece all'importante summit di Chianciano Terme del gennaio 2014, quando ebbe modo di svolgere una prolusione il cui centro era proprio la tesi che il keynesisno era oramai una moneta fuori corso, e quindi la difesa della decrescita come sola alternativa.
Per capire chi avesse ragione si guardi a cosa sta accadendo, anzitutto alla decrescita economica Europa, all'ostinazione con cui le élite neoliberiste si tengono attaccate all'osso dei loro templi finanziari, e ci si dica —dati i livelli di disoccupazione, emarginazione ed esclusione sociale, l'aumento massiccio delle povertà e delle diseguaglianze sociali— se la soluzione sia la decrescita o non invece un programma di misure per il rilancio immediato dell'economia, tra cui l'uscita dall'eurozona e la rottura col capitalismo-casinò.
Non posso concludere senza far notare che il difetto dell'approccio radicalmente anti-economicista —per cui lo sviluppo economico sarebbe oramai inesorabilmente "essenzialmente de-emancipatorio"— sta proprio nel manico. Esso subordina la condanna dell'attuale modo capitalistico di produzione delle merci fondato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, a quella, ancor più radicale, dell'industria, della tecnica e della scienza. Il che disvela come, certi semi della visione del mondo decrescitista, siano stati gettati proprio dalla (apparente) bestia nera dei compagni Bontempelli e Badiale, ovvero proprio quel reazionario incallito che era Friedrich Nietzsche. Una bella contraddizione, per chi dice di essere con Hegel e Marx!, ritrovarsi, nella critica decrescitista all'idea stessa di "progresso, ai loro antipodi.
Certo, è vero che nessuna tecnologia è mai neutrale e, come è dimostrato, molte sono dannose per l'uomo e e la natura. Tuttavia, ed in questo Marx aveva ragioni suo socialisti utpisti, è proprio grazie ad esse, a condizione di toglierle dalla mani di una classe per sua natura predatoria e ossessionata dal succhiare plusvalore, che l'umanità potrà liberarsi dal fardello del lavoro coatto, liberando per tutti noi la cosa più preziosa: il tempo libero, il tempo di vita. Sarà proprio grazie all'alto grado di sviluppo delle forze produttive che sarà possibile, non solo lavorare meno lavorando tutti, ma soddisfare i bisogni del genere umano, a partire da quelli primari, di cui gran parte dell'umanità non può godere, e mai lo potrà sulla base dell'economia capitalistica.
2 commenti:
. Riflettendo al concetto di decrescita vien da pensare certo alla sinistra che dalla "crescita" trae motivi di emancipazione.
Ma ci solo considerazioni aggiuntive: i programmi dell'Agenda 21, per esempio, che riferiscono la decrescita principalmente alla depopolazione secondo intendimenti da incubo apocalittico. si inseriscono storicamente nel discorso del Darwinismo e del Malthusianesimo, idee da classificarsi come anti-sinistra.
La decrescita si accoppia con l'ecologismo più integralista ed ovviamente si accorda perfettamente con la depopolazione.
Tutti questi programmi non sarebbero esattamente di sinistra dato che contrastano con l'idea di "massa".
La "destra vittoriana" pur avendo bisogno di forza lavoro, faceva abitare i lavoratori negli "slums" ed era soddisfatta che le condizioni igienico-abitative fossero pessime perché ciò contribuiva ad eliminare soprappiù demografci. In verità applicava criteri depopolazionistici. La cultura del Capitalismo terminale. che odia il welfare sarebbe ovviamente di destra perché tenderebbe a collocare il "popolo" proletario nella categoria dei sub-umani quasi appartenesse ad una animalità inferiore rivelandosi in questo schiettamente razzista.
aldilà di tutto direi che non ci vuole molto a capire che la decrescita di cui parla Badiale non c'entra assolutamente nulla con la recessione/depressione economica attuale europea.
il PIL può calare in molti modi. è un aggregato. dipende cosa lo fa calare.
Posta un commento