[ 13 settembre 2017 ]
I regimi non si cambiano facilmente come gli abiti di stagione. I fallimenti recenti dell’Iraq, della Libia e della Siria - ma anche l’Afghanistan - dovrebbero insegnare qualche cosa. Soprattutto non si cambiano se non si hanno delle alternative meno disastrose alle dittature e agli autocrati, per quanto detestabili. Il caos seguito alla caduta di Gheddafi è emblematico: è affondata la Libia ma si sono polverizzate nel Sahel anche le frontiere con gli Stati confinanti. La fine del raìs iracheno ha proiettato al potere la maggioranza sciita e i sunniti, emarginati, hanno trovato i loro portabandiera prima nei jihadisti di Al Qaida e poi in quelli dell’Isis, che si è alleato tra l’altro con gli ufficiali baathisti e del disciolto esercito iracheno (altro magistrale errore commesso dagli americani).
Da una guerra si è passati a un’altra e a un’altra ancora, in Siria, dove si è registrato da parte delle potenze sunnite - Turchia e monarchie del Golfo - e dell’Occidente un errore di calcolo clamoroso: che Assad dovesse andarsene in pochi mesi. Un ritornello replicato per sei anni in tutte le cancellerie.
Il risultato è stato che non solo non è caduto ma che la Russia e l’Iran hanno messo a segno i vantaggi strategici più rilevanti costringendo la Turchia, membro della Nato, a venire a patti con Mosca e Teheran. Se poi il Kurdistan iracheno terrà il 25 settembre un referendum sulla secessione da Baghdad non è difficile immaginare in quali problemi si troveranno invischiate grandi e medie potenze che finora hanno manovrato i curdi, iracheni o siriani, a seconda delle loro esigenze tattiche. Il riassetto del Medio Oriente, anche dopo la sconfitta del Califfato, promette una nuova ondata di tensioni e conflitti: un’illusione pensare che la storia finisca a Mosul e Raqqa.
Ancora peggio accade quando il cambio di regime come in Iraq è stato giustificato da una menzogna colossale: che Saddam Hussein nel 2003 avesse armi di distruzione di massa. Le conseguenze di quella enorme bugia avallata da Bush jr e Blair oggi si paga anche sul 38° parallelo. È stato l’attacco all’Iraq a rafforzare la convinzione della Corea del Nord a dotarsi di armi nucleari e balistiche. La fine dell’Urss e l’evoluzione della Cina avevano peraltro già reso più vulnerabile il regime nord-coreano e le guerre in Afghanistan e Iraq hanno rilanciato i piani per l’atomica: soltanto l’arma nucleare può evitare un attacco, questo è stato il ragionamento della leadership.
I programmi nucleari e balistici in realtà non sono mai stati una moneta di scambio nei negoziati con gli americani: del resto nessuna delle due parti ha mai rispettato gli accordi.
Pyongyang non può rinunciare all’atomica e ai missili, sarebbe una mossa suicida: non soltanto non potrebbe più giustificare le sofferenze imposte alla popolazione per privilegiare la difesa del Paese ma la Corea del Nord diventerebbe ancora più vulnerabile a un attacco come è accaduto all’Iraq. Almeno l’Iran, rinunciando al nucleare nel 2015, ha ottenuto la cancellazione o la sospensione delle sanzioni mentre il regime di Pyongyang non ha visto nessuna offerta concreta.
Cosa potrebbe accadere con un cambio di regime in Corea del Nord? È facile oggi imputare alla Cina di non avere saputo tenere a freno un alleato nel cortile di casa. I cinesi per decenni hanno usato il regime come una pistola puntata verso l’Occidente e i suoi alleati nella regione: del resto qui Pechino ha perso nella guerriglia contro i giapponesi e successivamente nella guerra dal 1950 al ’53 circa un milione di uomini: cadde persino il figlio di Mao, Anying, arso vivo dal napalm delle bombe americane. La Cina, che è di gran lunga il maggior partner economico della Corea, dispone dei mezzi di pressione su Pyongyang ma non intende ancora mettere Kim Jong Un con le spalle al muro. Il crollo del regime per Pechino comporta dei rischi: una guerra civile quasi certa alle porte di casa, un afflusso incontrollabile di profughi non solo verso Seul ma anche nella confinante regione cinese di Yanbian e soprattutto l’eventuale riunificazione delle due Coree porterebbe gli americani alle frontiere della Cina.
Pechino ha ben poco da guadagnare da un conflitto ma anche la Corea del Sud, super alleata degli Usa, è poco convinta da un’eventuale reazione americana: Seul è a 50 chilometri dal tiro delle batterie nordcoreane. I coreani del Sud sanno tre cose: la leadership del Nord è determinata a prendersi dei rischi, il regime di Pyongyang non sta per affondare, la Corea del Nord non rinuncerà al nucleare. I margini di manovra sono stretti e i rischi sempre più grandi.
I regimi non si cambiano facilmente come gli abiti di stagione. I fallimenti recenti dell’Iraq, della Libia e della Siria - ma anche l’Afghanistan - dovrebbero insegnare qualche cosa. Soprattutto non si cambiano se non si hanno delle alternative meno disastrose alle dittature e agli autocrati, per quanto detestabili. Il caos seguito alla caduta di Gheddafi è emblematico: è affondata la Libia ma si sono polverizzate nel Sahel anche le frontiere con gli Stati confinanti. La fine del raìs iracheno ha proiettato al potere la maggioranza sciita e i sunniti, emarginati, hanno trovato i loro portabandiera prima nei jihadisti di Al Qaida e poi in quelli dell’Isis, che si è alleato tra l’altro con gli ufficiali baathisti e del disciolto esercito iracheno (altro magistrale errore commesso dagli americani).
Da una guerra si è passati a un’altra e a un’altra ancora, in Siria, dove si è registrato da parte delle potenze sunnite - Turchia e monarchie del Golfo - e dell’Occidente un errore di calcolo clamoroso: che Assad dovesse andarsene in pochi mesi. Un ritornello replicato per sei anni in tutte le cancellerie.
Il risultato è stato che non solo non è caduto ma che la Russia e l’Iran hanno messo a segno i vantaggi strategici più rilevanti costringendo la Turchia, membro della Nato, a venire a patti con Mosca e Teheran. Se poi il Kurdistan iracheno terrà il 25 settembre un referendum sulla secessione da Baghdad non è difficile immaginare in quali problemi si troveranno invischiate grandi e medie potenze che finora hanno manovrato i curdi, iracheni o siriani, a seconda delle loro esigenze tattiche. Il riassetto del Medio Oriente, anche dopo la sconfitta del Califfato, promette una nuova ondata di tensioni e conflitti: un’illusione pensare che la storia finisca a Mosul e Raqqa.
Ancora peggio accade quando il cambio di regime come in Iraq è stato giustificato da una menzogna colossale: che Saddam Hussein nel 2003 avesse armi di distruzione di massa. Le conseguenze di quella enorme bugia avallata da Bush jr e Blair oggi si paga anche sul 38° parallelo. È stato l’attacco all’Iraq a rafforzare la convinzione della Corea del Nord a dotarsi di armi nucleari e balistiche. La fine dell’Urss e l’evoluzione della Cina avevano peraltro già reso più vulnerabile il regime nord-coreano e le guerre in Afghanistan e Iraq hanno rilanciato i piani per l’atomica: soltanto l’arma nucleare può evitare un attacco, questo è stato il ragionamento della leadership.
I programmi nucleari e balistici in realtà non sono mai stati una moneta di scambio nei negoziati con gli americani: del resto nessuna delle due parti ha mai rispettato gli accordi.
Pyongyang non può rinunciare all’atomica e ai missili, sarebbe una mossa suicida: non soltanto non potrebbe più giustificare le sofferenze imposte alla popolazione per privilegiare la difesa del Paese ma la Corea del Nord diventerebbe ancora più vulnerabile a un attacco come è accaduto all’Iraq. Almeno l’Iran, rinunciando al nucleare nel 2015, ha ottenuto la cancellazione o la sospensione delle sanzioni mentre il regime di Pyongyang non ha visto nessuna offerta concreta.
Cosa potrebbe accadere con un cambio di regime in Corea del Nord? È facile oggi imputare alla Cina di non avere saputo tenere a freno un alleato nel cortile di casa. I cinesi per decenni hanno usato il regime come una pistola puntata verso l’Occidente e i suoi alleati nella regione: del resto qui Pechino ha perso nella guerriglia contro i giapponesi e successivamente nella guerra dal 1950 al ’53 circa un milione di uomini: cadde persino il figlio di Mao, Anying, arso vivo dal napalm delle bombe americane. La Cina, che è di gran lunga il maggior partner economico della Corea, dispone dei mezzi di pressione su Pyongyang ma non intende ancora mettere Kim Jong Un con le spalle al muro. Il crollo del regime per Pechino comporta dei rischi: una guerra civile quasi certa alle porte di casa, un afflusso incontrollabile di profughi non solo verso Seul ma anche nella confinante regione cinese di Yanbian e soprattutto l’eventuale riunificazione delle due Coree porterebbe gli americani alle frontiere della Cina.
Pechino ha ben poco da guadagnare da un conflitto ma anche la Corea del Sud, super alleata degli Usa, è poco convinta da un’eventuale reazione americana: Seul è a 50 chilometri dal tiro delle batterie nordcoreane. I coreani del Sud sanno tre cose: la leadership del Nord è determinata a prendersi dei rischi, il regime di Pyongyang non sta per affondare, la Corea del Nord non rinuncerà al nucleare. I margini di manovra sono stretti e i rischi sempre più grandi.
* Fonte: Il sole 24 ore
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