[ 10 novembre ]
La vittoria di Trump marca una clamorosa sconfitta della lobby transnazionale delle élite neoliberiste. Fino a poche ore prima dell’esito elettorale siamo stati bombardati dal coro pressoché unanime di governi, partiti, economisti, manager, star dello show business, campioni sportivi, sondaggisti, giornali, televisioni, piattaforme internet che celebravano la vittoria di Hillary Clinton presentandola come l’unico esito possibile dettato dalla “ragione” politica, culturale e civile.
A parte gli auspici dei governi russo e cinese – preoccupati per le minacce di alzare il livello del conflitto geopolitico globale da parte della Clinton – hanno fatto eccezione quasi solo le forze populiste di destra e le pochissime voci che si sono timidamente alzate a sinistra per ricordare che Hillary Clinton incarna i più feroci e aggressivi interessi del capitale finanziario transnazionale, nonché delle industrie hi tech che dominano il sistema militare industriale e governano un pervasivo sistema di spionaggio globale.
Personalmente sono più volte intervenuto su queste pagine a rimproverare Bernie Sanders per la fallimentare scelta di sponsorizzare come “il minore dei mali” la donna che gli aveva letteralmente “scippato” – con l’appoggio della macchina di partito, dei media e delle élite di sistema – la candidatura democratica all’elezione presidenziale, impedendo a classi medie impoverite, lavoratori bianchi e migranti, studenti , donne, giovani, ambientalisti, ecc. di unirsi attorno a un programma e a un leader politico comuni.
Solo invitando a votare per i candidati di minoranza o ad astenersi, avrebbe potuto capitalizzare le energie e le reti organizzative che si erano aggregate nel corso della campagna, in vista della costruzione di una terza forza alternativa ai due maggiori partiti, ormai del tutto intercambiabili e allineati agli interessi del blocco sociale che domina l’America (e dunque il mondo). Arrendendosi all’apparato ha indebolito questo patrimonio, senza riuscire peraltro a impedire la vittoria di Trump, al quale ha letteralmente regalato il monopolio della rabbia antisistema di un popolo impoverito e frustrato dalla crisi. Ciò detto, mi preme anticipare alcune considerazioni a caldo, mentre mi riservo successivi approfondimenti.
Primo punto: la comunicazione. Come già abbiamo avuto modo di constatare con la campagna sulla Brexit (e come spero potremo constatare con la campagna referendaria di Renzi e soci), le strategie di manipolazione/dissuasione di massa condotte dai media al servizio dell’establishment (cioè tutti) non funzionano più. La crisi ha intaccato talmente in profondità le condizioni di vita della maggioranza delle persone che nessuna chiacchiera sul fatto che l’economia va meglio, che i posti di lavoro aumentano, ecc. può nascondere la realtà dei fatti, per cui più balle si sparano più si generano effetti contrari a quelli voluti. Stesso discorso per i sondaggi: la loro attendibilità è ormai pari a zero, sia perché è evidente che servono esclusivamente a influenzare il voto tentando di funzionare da self fulfilling prophecy, sia perché aumentano sempre più gli intervistati che prendono i sondaggisti per i fondelli, dichiarando intenzioni di voto opposte a quelle reali.
Secondo punto: populismo, lotta di classe ed eutanasia delle sinistre. In un suo post l’amico Bifo scrive che i vari Clinton, Blair, Hollande, Renzi, Tsipras ecc. stanno pagando il fio del tradimento che hanno consumato ai danni della classe operaia, la quale ora li ripaga cercando risposte alla propria disperazione nelle destre neofasciste, esattamente com’era successo fra le due Guerre Mondiali. D’accordo sul tradimento e sulla punizione, ma con un approfondimento e una precisazione (con la quale spero di introdurre una nota di cauto ottimismo).
L’approfondimento consiste nel fatto che a perpetrare il tradimento, come scrivo nel mio ultimo libro (La variante populista, da poco pubblicato da DeriveApprodi) non sono state solo le socialdemocrazie, ma tutte le sinistre, comprese quelle sedicenti radicali e antagoniste, le quali hanno progressivamente concentrato la propria attenzione sulle classi medie colte (creativi, lavoratori della conoscenza, partite iva, ecc.), sui cosiddetti “bisogni immateriali”, e sulla esclusiva rivendicazione di diritti civili (soprattutto individuali) a danno dei diritti sociali, scambiando infine la retorica politically correct (del tutto funzionale alla governance neoliberista) per contestazione antisistema.
L’odio operaio nei confronti di questi soggetti non è quindi solo frutto di frustrazione culturale, ma un vero e proprio odio di classe che rispecchia interessi materiali divergenti. Ciò significa che la forma populista (anche nelle varianti di destra) è la forma politica che la lotta di classe assume in questa fase storica. E qui arriva la precisazione (e il possibile spiraglio): il populismo (vedi le rivoluzioni bolivariane, Podemos, Sanders come esito del movimento Occupy Wall Street, la prima fase di Syriza, ecc.) può indirizzarsi a sinistra e contendere l’egemonia sulle classi subordinate al populismo di destra (che a sua volta non è tout court assimilabile al fascismo: la storia non si ripete).
Terzo punto: le controtendenze alla globalizzazione. Il terrore dei mercati (vedere le pagine dell’Economist) dopo la Brexit e la vittoria di Trump rispecchiano le preoccupazioni in merito allo svilupparsi d’una possibile controtendenza ai processi di globalizzazione (politiche protezioniste, revoca o mancata conclusioni dei trattati di libero commercio, ecc.). Ora è chiaro che difficilmente Trump compirà tutti i passi isolazionisti che ha annunciato in campagna elettorale, ma è certo che, così come sta succedendo con il governo conservatore di Theresa May in Inghilterra, dovrà necessariamente concedere qualcosa alle aspettative popolari che sperano in una attenuazione, se non in una inversione delle scelte economiche neoliberiste.
Ciò apre spazi per una battaglia politica antiliberista e antiglobalista da sinistra (che da noi passa necessariamente da una battaglia contro la Ue) che può divenire il terreno strategico su cui contendere l’egemonia ai populismi di destra. Difficile? Difficilissimo, quasi impossibile, ma come diceva qualcuno “chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.
La vittoria di Trump marca una clamorosa sconfitta della lobby transnazionale delle élite neoliberiste. Fino a poche ore prima dell’esito elettorale siamo stati bombardati dal coro pressoché unanime di governi, partiti, economisti, manager, star dello show business, campioni sportivi, sondaggisti, giornali, televisioni, piattaforme internet che celebravano la vittoria di Hillary Clinton presentandola come l’unico esito possibile dettato dalla “ragione” politica, culturale e civile.
A parte gli auspici dei governi russo e cinese – preoccupati per le minacce di alzare il livello del conflitto geopolitico globale da parte della Clinton – hanno fatto eccezione quasi solo le forze populiste di destra e le pochissime voci che si sono timidamente alzate a sinistra per ricordare che Hillary Clinton incarna i più feroci e aggressivi interessi del capitale finanziario transnazionale, nonché delle industrie hi tech che dominano il sistema militare industriale e governano un pervasivo sistema di spionaggio globale.
Personalmente sono più volte intervenuto su queste pagine a rimproverare Bernie Sanders per la fallimentare scelta di sponsorizzare come “il minore dei mali” la donna che gli aveva letteralmente “scippato” – con l’appoggio della macchina di partito, dei media e delle élite di sistema – la candidatura democratica all’elezione presidenziale, impedendo a classi medie impoverite, lavoratori bianchi e migranti, studenti , donne, giovani, ambientalisti, ecc. di unirsi attorno a un programma e a un leader politico comuni.
Solo invitando a votare per i candidati di minoranza o ad astenersi, avrebbe potuto capitalizzare le energie e le reti organizzative che si erano aggregate nel corso della campagna, in vista della costruzione di una terza forza alternativa ai due maggiori partiti, ormai del tutto intercambiabili e allineati agli interessi del blocco sociale che domina l’America (e dunque il mondo). Arrendendosi all’apparato ha indebolito questo patrimonio, senza riuscire peraltro a impedire la vittoria di Trump, al quale ha letteralmente regalato il monopolio della rabbia antisistema di un popolo impoverito e frustrato dalla crisi. Ciò detto, mi preme anticipare alcune considerazioni a caldo, mentre mi riservo successivi approfondimenti.
Primo punto: la comunicazione. Come già abbiamo avuto modo di constatare con la campagna sulla Brexit (e come spero potremo constatare con la campagna referendaria di Renzi e soci), le strategie di manipolazione/dissuasione di massa condotte dai media al servizio dell’establishment (cioè tutti) non funzionano più. La crisi ha intaccato talmente in profondità le condizioni di vita della maggioranza delle persone che nessuna chiacchiera sul fatto che l’economia va meglio, che i posti di lavoro aumentano, ecc. può nascondere la realtà dei fatti, per cui più balle si sparano più si generano effetti contrari a quelli voluti. Stesso discorso per i sondaggi: la loro attendibilità è ormai pari a zero, sia perché è evidente che servono esclusivamente a influenzare il voto tentando di funzionare da self fulfilling prophecy, sia perché aumentano sempre più gli intervistati che prendono i sondaggisti per i fondelli, dichiarando intenzioni di voto opposte a quelle reali.
Secondo punto: populismo, lotta di classe ed eutanasia delle sinistre. In un suo post l’amico Bifo scrive che i vari Clinton, Blair, Hollande, Renzi, Tsipras ecc. stanno pagando il fio del tradimento che hanno consumato ai danni della classe operaia, la quale ora li ripaga cercando risposte alla propria disperazione nelle destre neofasciste, esattamente com’era successo fra le due Guerre Mondiali. D’accordo sul tradimento e sulla punizione, ma con un approfondimento e una precisazione (con la quale spero di introdurre una nota di cauto ottimismo).
L’approfondimento consiste nel fatto che a perpetrare il tradimento, come scrivo nel mio ultimo libro (La variante populista, da poco pubblicato da DeriveApprodi) non sono state solo le socialdemocrazie, ma tutte le sinistre, comprese quelle sedicenti radicali e antagoniste, le quali hanno progressivamente concentrato la propria attenzione sulle classi medie colte (creativi, lavoratori della conoscenza, partite iva, ecc.), sui cosiddetti “bisogni immateriali”, e sulla esclusiva rivendicazione di diritti civili (soprattutto individuali) a danno dei diritti sociali, scambiando infine la retorica politically correct (del tutto funzionale alla governance neoliberista) per contestazione antisistema.
L’odio operaio nei confronti di questi soggetti non è quindi solo frutto di frustrazione culturale, ma un vero e proprio odio di classe che rispecchia interessi materiali divergenti. Ciò significa che la forma populista (anche nelle varianti di destra) è la forma politica che la lotta di classe assume in questa fase storica. E qui arriva la precisazione (e il possibile spiraglio): il populismo (vedi le rivoluzioni bolivariane, Podemos, Sanders come esito del movimento Occupy Wall Street, la prima fase di Syriza, ecc.) può indirizzarsi a sinistra e contendere l’egemonia sulle classi subordinate al populismo di destra (che a sua volta non è tout court assimilabile al fascismo: la storia non si ripete).
Terzo punto: le controtendenze alla globalizzazione. Il terrore dei mercati (vedere le pagine dell’Economist) dopo la Brexit e la vittoria di Trump rispecchiano le preoccupazioni in merito allo svilupparsi d’una possibile controtendenza ai processi di globalizzazione (politiche protezioniste, revoca o mancata conclusioni dei trattati di libero commercio, ecc.). Ora è chiaro che difficilmente Trump compirà tutti i passi isolazionisti che ha annunciato in campagna elettorale, ma è certo che, così come sta succedendo con il governo conservatore di Theresa May in Inghilterra, dovrà necessariamente concedere qualcosa alle aspettative popolari che sperano in una attenuazione, se non in una inversione delle scelte economiche neoliberiste.
Ciò apre spazi per una battaglia politica antiliberista e antiglobalista da sinistra (che da noi passa necessariamente da una battaglia contro la Ue) che può divenire il terreno strategico su cui contendere l’egemonia ai populismi di destra. Difficile? Difficilissimo, quasi impossibile, ma come diceva qualcuno “chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.
* Fonte: Micromega
2 commenti:
Mi ricordo quando nel 96 bertinotti andò al governo. La borsa fece con un -6.
Poi qualcuno telefonò ai padroni dell'unico pensiero e gli disse: tranquilli,non spavetatevi, bertinotti mica è comunista, è un liberale vero. E la borsa il giorno dopo festeggiò con un +8.
desolante...ancora a credere che gli operai esistano e che addirittura leggano gli articoli di bifo ....
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