[ 28 novembre ]
Sull’Economist leggo due esilaranti lezioni sulla relatività del concetto di povertà e ricchezza. Nel primo il tema è una inedita applicazione della sharing economy come strumento di promozione dell’uguaglianza di status sociale. Posto che una delle differenze che consente di distinguere i “normali” ricchi dai super ricchi è la disponibilità o meno di un jet privato, la società NetJets ha pensato bene di lanciare un servizio di sharing di questi prestigiosi mezzi di trasporto, che consente a chiunque, per la “modica” cifra di 155.000 dollari, di disporre di 25 ore di volo annue su uno dei velivoli della compagnia. Uber e Airbnb, che sono stati gli iniziatori di questo genere di mercato con i loro servizi low cost a una classe media impoverita che può così illudersi di fare parte delle élite, si sono a loro volta inseriti in questa fascia alta offrendo, rispettivamente, la possibilità di disporre temporaneamente di yacht e appartamenti di super lusso. La “morale” è che anche la mega ricchezza, in fondo, è un concetto relativo, nella misura in cui tecnologia e creatività imprenditoriale possono arruolare nella categoria una fascia sociale relativamente estesa.
Il secondo articolo è ancora più spassoso, visto che vi si afferma che chi dispone di poco più di 2000 dollari, anche se non lo sa, è più “ricco” della metà della popolazione mondiale (laddove per stare nel decile superiore occorrono almeno 70.000 dollari e per accedere al mitico 1% la soglia minima è di poco meno di 750.000). Il dato emerge da una ricerca promossa da Credit Suisse e non si riferisce ai redditi, bensì ai patrimoni (com’è noto, per Piketty è appunto dai differenziali patrimoniali piuttosto che da quelli di reddito che occorre partire, se si vuole misurare la reale entità della disuguaglianza globale). La stessa ricerca rivela poi che la somma totale delle proprietà immobiliari e dei titoli finanziari detenuti dai privati ammonta a 256 trilioni di dollari (3-4 volte il Pil mondiale) l’89% dei quali è nelle mani del decile superiore e che, se tutta questa ricchezza venisse equamente ridistribuita, a ogni cittadino del mondo spetterebbero circa 52.000 dollari.
Vengono quindi offerti dati sulle disuguaglianze nei maggiori paesi del mondo da cui emerge che, a sorpresa, gli Stati Uniti non se la cavano affatto bene, visto che il 21% dei cittadini americani ha più debiti che risorse. Infine, con una nota di cinica ironia che ben si attaglia al più prestigioso organo del capitalismo globale, l’articolo si chiude dicendo che (in quanto membri di quella “fortunata” minoranza che dispone dei 2000 dollari di cui sopra) molti di coloro che oggi protestano contro le élite globali ignorano di farne (almeno statisticamente parlando) parte. Anche qui dunque la morale è che la povertà, come la ricchezza, è un concetto relativo. Con una differenza: in questo caso né la tecnologia né la creatività imprenditoriale possono far credere ai perdenti al gioco della globalizzazione di appartenere alle élite mondiali. Ci provano invece ogni giorno media, partiti politici, “intellettuali” di regime, nani e ballerine impegnati a convincere tutti che la merda liberal liberista in cui stiamo affogando è il migliore dei mondi possibili.
Sull’Economist leggo due esilaranti lezioni sulla relatività del concetto di povertà e ricchezza. Nel primo il tema è una inedita applicazione della sharing economy come strumento di promozione dell’uguaglianza di status sociale. Posto che una delle differenze che consente di distinguere i “normali” ricchi dai super ricchi è la disponibilità o meno di un jet privato, la società NetJets ha pensato bene di lanciare un servizio di sharing di questi prestigiosi mezzi di trasporto, che consente a chiunque, per la “modica” cifra di 155.000 dollari, di disporre di 25 ore di volo annue su uno dei velivoli della compagnia. Uber e Airbnb, che sono stati gli iniziatori di questo genere di mercato con i loro servizi low cost a una classe media impoverita che può così illudersi di fare parte delle élite, si sono a loro volta inseriti in questa fascia alta offrendo, rispettivamente, la possibilità di disporre temporaneamente di yacht e appartamenti di super lusso. La “morale” è che anche la mega ricchezza, in fondo, è un concetto relativo, nella misura in cui tecnologia e creatività imprenditoriale possono arruolare nella categoria una fascia sociale relativamente estesa.
Il secondo articolo è ancora più spassoso, visto che vi si afferma che chi dispone di poco più di 2000 dollari, anche se non lo sa, è più “ricco” della metà della popolazione mondiale (laddove per stare nel decile superiore occorrono almeno 70.000 dollari e per accedere al mitico 1% la soglia minima è di poco meno di 750.000). Il dato emerge da una ricerca promossa da Credit Suisse e non si riferisce ai redditi, bensì ai patrimoni (com’è noto, per Piketty è appunto dai differenziali patrimoniali piuttosto che da quelli di reddito che occorre partire, se si vuole misurare la reale entità della disuguaglianza globale). La stessa ricerca rivela poi che la somma totale delle proprietà immobiliari e dei titoli finanziari detenuti dai privati ammonta a 256 trilioni di dollari (3-4 volte il Pil mondiale) l’89% dei quali è nelle mani del decile superiore e che, se tutta questa ricchezza venisse equamente ridistribuita, a ogni cittadino del mondo spetterebbero circa 52.000 dollari.
Vengono quindi offerti dati sulle disuguaglianze nei maggiori paesi del mondo da cui emerge che, a sorpresa, gli Stati Uniti non se la cavano affatto bene, visto che il 21% dei cittadini americani ha più debiti che risorse. Infine, con una nota di cinica ironia che ben si attaglia al più prestigioso organo del capitalismo globale, l’articolo si chiude dicendo che (in quanto membri di quella “fortunata” minoranza che dispone dei 2000 dollari di cui sopra) molti di coloro che oggi protestano contro le élite globali ignorano di farne (almeno statisticamente parlando) parte. Anche qui dunque la morale è che la povertà, come la ricchezza, è un concetto relativo. Con una differenza: in questo caso né la tecnologia né la creatività imprenditoriale possono far credere ai perdenti al gioco della globalizzazione di appartenere alle élite mondiali. Ci provano invece ogni giorno media, partiti politici, “intellettuali” di regime, nani e ballerine impegnati a convincere tutti che la merda liberal liberista in cui stiamo affogando è il migliore dei mondi possibili.
* FONTE: Micromega
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