[ 4 novembre ]
«Una delle tentazioni, che intendo subito scartare, è che di fronte ad una crisi del capitalismo globale, la risposta ricercata debba essere egualmente globale. Tentazione molto pericolosa perché essa ispira strategie condannate alla sicura sconfitta: "la rivoluzione mondiale” o la trasformazione del sistema mondiale dall’alto, tramite decisione collettiva di tutti gli stati. I cambiamenti nella storia non si sono mai fatti in questo modo. Sono sempre partiti da quelle nazioni che costituiscono gli anelli deboli nel sistema globale: progressi differenti da un paese all’altro, da una fase all’altra. (...)
D. Da molti decenni i vostri scritti e analisi ci consegnano elementi per decifrare il sistema capitalistico, le relazioni di dominazione Nord – Sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalistica. Qual è la natura di questa nuova crisi?
Samir Amin: La crisi attuale non è una crisi finanziaria del capitalismo ma una crisi di sistema. Non è una crisi ad “U”. Nelle crisi ordinarie del capitalismo (le crisi ad “U”) le stesse logiche che portano alla crisi, dopo un periodo di parziali ristrutturazioni, permettono la ripresa. Sono le crisi normali del capitalismo. Invece la crisi in corso dagli anni 1970 è una crisi ad “L”: la logica che ha portato alla crisi non consente la ripresa. Questo ci invita a porre la seguente domanda (che è d’altronde il titolo di un mio libro): uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?
La crisi ad “L” segnala l’esaurimento storico del sistema. Ciò non significa che il regime stia lentamente e tranquillamente morendo. Al contrario, il capitalismo senile diviene cattivo e tenta di sopravvivere raddoppiando la violenza. Per i popoli la crisi sistemica del capitalismo è insostenibile, poiché essa trascina la crescente diseguaglianza nella ripartizione dei proventi e delle ricchezze all’interno delle società, e si accompagna da un lato ad una profonda stagnazione e dall’altro ad un aggravamento della polarizzazione mondiale. Benché la difesa della crescita economica non sia il nostro obiettivo, occorre sapere che la sopravvivenza del capitalismo è impossibile senza crescita. Le ineguaglianze accompagnate dalla stagnazione diventano insostenibili.
L’ineguaglianza è sopportabile quando vi è crescita e tutti ne beneficiano, anche se in modo ineguale. In tal caso la disuguaglianza non comporta miseria. Invece, la disuguaglianza nella stagnazione necessariamente si accompagna alla miseria, e questo diviene socialmente inaccettabile. Perché siamo giunti a questo? La mia tesi è che siamo entrati in una nuova fase del capitalismo monopolista, che considero quella dei “monopoli generalizzati”, caratterizzata dalla riduzione di tutte le attività economiche a stato di fatto di subappalto a esclusivo beneficio dell’incremento della rendita dei monopoli.
D. Come valutate le risposte attuali alla crisi da parte dei paesi e dei diversi movimenti?
Prima di tutto, vorrei ricordare che tutti i discorsi degli economisti convenzionali e le proposte che essi avanzano per uscire dalla crisi, non hanno alcun valore scientifico. Il sistema non uscirà da questa crisi. Esso vivrà, o tenterà di sopravvivere, a costo di crescenti distruzioni, nella crisi permanente. Le risposte a questa crisi sono fino ad ora, per poco che si possa dire, limitate, dubbie e inefficaci nei paesi del Nord.
Ma vi sono risposte più o meno positive nel Sud che si esprimono con ciò che si chiama “l’emergenza”. La domanda da porsi allora è: emergenza di che? Emergenza di nuovi mercati in questo sistema in crisi controllato dai monopoli della triade (degli imperialismi tradizionali, della triade Stati Uniti, Europa occidentale, Giappone) o emergenza delle società? Il solo caso di emergenza positiva in tal senso è quello della Cina che tenta di associare il suo progetto di emergenza nazionale e sociale al perseguimento della sua integrazione nella mondializzazione, senza rinunciare ad esercitare il controllo sulle condizioni di quest’ultima. E’ la ragione per cui la Cina è probabilmente il potenziale maggior avversario della triade imperialista. Ma ci sono anche i semi-emergenti, cioè quelli cui piacerebbe esserlo ma che non lo sono fino in fondo, come l’India o il Brasile (anche ai tempi di Lula e di Dilma). Paesi che non hanno cambiato per nulla la struttura della loro integrazione nel sistema mondiale, rimanendo confinati al rango di esportatori di materie prime e di prodotti per l’agricoltura capitalista. Questi paesi sono “emergenti”, nel senso che essi a volte registrano tassi di crescita non trascurabili accompagnati da una crescita più rapida delle classi medie. Qui, l’emergenza è quella dei mercati, non delle società. E poi, ci sono gli altri paesi del Sud, i più fragili, e soprattutto i paesi africani, arabi, musulmani e, qua e là, altri in America Latina e in Asia. Un Sud sottomesso a un doppio saccheggio: quello delle loro risorse naturali a vantaggio dei monopoli della Triade, e quello delle incursioni finanziarie per rubare i risparmi nazionali. Il caso argentino è a questo riguardo emblematico. Le risposte in questi paesi sono spesso sfortunatamente “pre-moderne” e non “post-moderne” come vengono presentate: immaginario ritorno al passato, proposta dagli islamisti o da confraternite evangeliche cristiane in Africa e in America Latina. O ancora risposte pseudo-etniche che insistono sull’autenticità etnica di pseudo-comunità. Risposte che sono manipolabili e spesso efficacemente manipolate, benché dispongano di reali basi sociali locali (non sono gli Stati Uniti che hanno inventato l’islam o le etnie).
Peraltro, il problema è serio, perché questi movimenti dispongono di grandi mezzi (finanziari, mediatici, politici, ecc.) messi a loro disposizione dalle potenze capitalistiche dominanti e i loro amici locali.
D. Quali risposte si potrebbero immaginare da parte dei movimenti della sinistra radicale alle sfide poste da questo capitalismo pericolosamente moribondo?
Una delle tentazioni, che intendo subito scartare, è che di fronte ad una crisi del capitalismo globale, la risposta ricercata debba essere egualmente globale. Tentazione molto pericolosa perché essa ispira strategie condannate alla sicura sconfitta: "la rivoluzione mondiale” o la trasformazione del sistema mondiale dall’alto, tramite decisione collettiva di tutti gli stati. I cambiamenti nella storia non si sono mai fatti in questo modo. Sono sempre partiti da quelle nazioni che costituiscono gli anelli deboli nel sistema globale: progressi differenti da un paese all’altro, da una fase all’altra.
La decostruzione si impone prima della ricostruzione. Questo vale ad esempio per l’Europa: decostruzione del sistema europeo se si vuole ricostruirne un altro, su altre basi. Occorre uscire dall’illusione della possibilità di “riforme” condotte con successo all’interno di un modello che è stato costruito in cemento armato per non essere cosa diversa da ciò che è. La stessa cosa per quanto riguarda la mondializzazione neoliberale. La decostruzione, che si chiama qui disconnessione, non è certo un rimedio magico e assoluto, che implicherebbe l’autarchia e la migrazione fuori dal pianeta. La disconnessione chiama al rovesciamento dei termini dell’equazione: invece di accettare di adeguarsi unilateralmente alle esigenze della mondializzazione, si tenta di costringere la mondializzazione ad adeguarsi alle esigenze dello sviluppo locale. Ma attenzione, in questo senso, la disconnessione non è mai perfetta. Il successo sarà glorioso solo se si realizzeranno alcune delle nostre maggiori rivendicazioni. E questo pone una domanda fondamentale: quella della sovranità. E’ un concetto fondamentale del quale dobbiamo riappropriarci.
D. Di quale sovranità parlate? Credete nella possibilità di costruire una sovranità popolare e progressista, in opposizione alla sovranità concepita dalle élites capitaliste e nazionaliste?
La sovranità di chi? Ecco la questione. Siamo stati abituati dalla storia a conoscere ciò che è stata chiamata sovranità nazionale, quella messa in opera dalle borghesie dei paesi capitalisti, dalle classi dirigenti per legittimare il loro sfruttamento, prima dei loro lavoratori, ma anche al fine di rafforzare la propria posizione nella competizione con gli altri nazionalismi imperialisti. E’ il nazionalismo borghese. I paesi della triade imperialista non hanno mai conosciuto fino ad oggi un nazionalismo diverso da questo. Per contro, nelle periferie abbiamo conosciuto altri nazionalismi, che procedono con la volontà di affermare una sovranità antimperialista, operante contro la logica della mondializzazione imperialista attuale.
La confusione tra questi due concetti di “nazionalismo” è molto forte in Europa. Perché? Ebbene, per ragioni storiche evidenti. I nazionalismi imperialisti sono stati all’origine delle due guerre mondiali, fonte di distruzioni senza precedenti. Si comprende così che questi nazionalismi siano percepiti come nauseabondi. Dopo la guerra, la costruzione europea ha lasciato credere che essa avrebbe permesso il superamento di questo tipo di rivalità, con la messa in campo di un potere sovranazionale europeo, democratico e progressista. I popoli hanno creduto a questo, cosa che spiega la popolarità del progetto europeo che regge sempre a discapito di tutte le sue devastazioni. Ad esempio come in Grecia, dove gli elettori si sono pronunciati contro l’austerità, ma allo stesso tempo hanno mantenuto la loro illusione di un'altra Europa possibile.
Noi parliamo di un’altra sovranità. Una sovranità popolare, in opposizione alla sovranità nazionalista borghese delle classi dirigenti. Una sovranità concepita come il veicolo di una liberazione, che fa arretrare la mondializzazione imperialista contemporanea. Un nazionalismo antimperialista dunque, che non ha nulla a che vedere con il discorso demagogico di un nazionalismo locale che accetterebbe di iscrivere le prospettive del paese in questione nella mondializzazione in atto, che considera il vicino più debole come suo nemico.
D. Come si costruisce dunque un progetto di sovranità popolare?
Questo dibattito è stato affrontato in diverse riprese. Un dibattito difficile e complesso tenuto conto della varietà delle situazioni concrete. Con buoni risultati, credo, soprattutto nelle discussioni organizzate in Cina, in Russia, in America Latina (Venezuela, Bolivia, Ecuador, Brasile). Altri dibattiti sono stati ancora più difficili, soprattutto quelli organizzati nei paesi più fragili.
La sovranità popolare non è facile da immaginare, perché attraversata da contraddizioni. La sovranità popolare si dà l’obiettivo di trasferire il massimo dei poteri reali alle classi popolari. Questi si colgono ai livelli locali, e possono entrare in conflitto con la necessità di una strategia a livello statale. Perché parlare dello stato? Perché, lo si voglia o meno, continueremo a vivere per molto tempo con gli stati. E lo stato rimane il luogo principale delle decisioni rilevanti. Qui è situato il fondo del dibattito. Ad un’estremità del ventaglio nel dibattito, abbiamo i libertari che dicono che lo stato è il nemico che occorre ad ogni costo combattere e che occorre dunque agire al di fuori della sua sfera d’influenza; all’altro polo abbiamo le esperienze nazionali popolari, soprattutto quelle della prima ondata del risveglio dei paesi del Sud, con i nazionalismi antimperialisti di Nasser, Lumumba, Modibo, ecc. Questi leader hanno esercitato un’autentica tutela sui loro popoli, e hanno ritenuto che il cambiamento non può venire che dall’alto. Queste due correnti devono dialogare, comprendersi al fine di costruire strategie popolari che consentano autentici progressi.
Cosa si può imparare da coloro che hanno potuto andare più lontano? Come in Cina o in America Latina? Quali sono i margini che tali esperienze hanno saputo mettere a profitto? Quali sono le forze sociali che sono o che potrebbero essere favorevoli a queste strategie? Attraverso quali strumenti politici possiamo sperare di mobilitare le loro capacità? Ecco le domande fondamentali che noi, i movimenti sociali, i movimenti della sinistra radicale, i militanti antimperialisti e anticapitalisti, dobbiamo porci e alle quali dobbiamo rispondere al fine di costruire la nostra sovranità, popolare, progressista e internazionalista.
«Una delle tentazioni, che intendo subito scartare, è che di fronte ad una crisi del capitalismo globale, la risposta ricercata debba essere egualmente globale. Tentazione molto pericolosa perché essa ispira strategie condannate alla sicura sconfitta: "la rivoluzione mondiale” o la trasformazione del sistema mondiale dall’alto, tramite decisione collettiva di tutti gli stati. I cambiamenti nella storia non si sono mai fatti in questo modo. Sono sempre partiti da quelle nazioni che costituiscono gli anelli deboli nel sistema globale: progressi differenti da un paese all’altro, da una fase all’altra. (...)
Perché parlare dello stato [nazionale]? Perché, lo si voglia o meno, continueremo a vivere per molto tempo con gli stati. E lo stato rimane il luogo principale delle decisioni rilevanti. Qui è situato il fondo del dibattito».
Questa intervista a Samir Amin [nella foto] economista egiziano, antimperialista, presidente del Forum mondiale delle alternative è stata svolta da Raffaele Morgantini.
D. Da molti decenni i vostri scritti e analisi ci consegnano elementi per decifrare il sistema capitalistico, le relazioni di dominazione Nord – Sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalistica. Qual è la natura di questa nuova crisi?
Samir Amin: La crisi attuale non è una crisi finanziaria del capitalismo ma una crisi di sistema. Non è una crisi ad “U”. Nelle crisi ordinarie del capitalismo (le crisi ad “U”) le stesse logiche che portano alla crisi, dopo un periodo di parziali ristrutturazioni, permettono la ripresa. Sono le crisi normali del capitalismo. Invece la crisi in corso dagli anni 1970 è una crisi ad “L”: la logica che ha portato alla crisi non consente la ripresa. Questo ci invita a porre la seguente domanda (che è d’altronde il titolo di un mio libro): uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?
La crisi ad “L” segnala l’esaurimento storico del sistema. Ciò non significa che il regime stia lentamente e tranquillamente morendo. Al contrario, il capitalismo senile diviene cattivo e tenta di sopravvivere raddoppiando la violenza. Per i popoli la crisi sistemica del capitalismo è insostenibile, poiché essa trascina la crescente diseguaglianza nella ripartizione dei proventi e delle ricchezze all’interno delle società, e si accompagna da un lato ad una profonda stagnazione e dall’altro ad un aggravamento della polarizzazione mondiale. Benché la difesa della crescita economica non sia il nostro obiettivo, occorre sapere che la sopravvivenza del capitalismo è impossibile senza crescita. Le ineguaglianze accompagnate dalla stagnazione diventano insostenibili.
L’ineguaglianza è sopportabile quando vi è crescita e tutti ne beneficiano, anche se in modo ineguale. In tal caso la disuguaglianza non comporta miseria. Invece, la disuguaglianza nella stagnazione necessariamente si accompagna alla miseria, e questo diviene socialmente inaccettabile. Perché siamo giunti a questo? La mia tesi è che siamo entrati in una nuova fase del capitalismo monopolista, che considero quella dei “monopoli generalizzati”, caratterizzata dalla riduzione di tutte le attività economiche a stato di fatto di subappalto a esclusivo beneficio dell’incremento della rendita dei monopoli.
D. Come valutate le risposte attuali alla crisi da parte dei paesi e dei diversi movimenti?
Prima di tutto, vorrei ricordare che tutti i discorsi degli economisti convenzionali e le proposte che essi avanzano per uscire dalla crisi, non hanno alcun valore scientifico. Il sistema non uscirà da questa crisi. Esso vivrà, o tenterà di sopravvivere, a costo di crescenti distruzioni, nella crisi permanente. Le risposte a questa crisi sono fino ad ora, per poco che si possa dire, limitate, dubbie e inefficaci nei paesi del Nord.
Ma vi sono risposte più o meno positive nel Sud che si esprimono con ciò che si chiama “l’emergenza”. La domanda da porsi allora è: emergenza di che? Emergenza di nuovi mercati in questo sistema in crisi controllato dai monopoli della triade (degli imperialismi tradizionali, della triade Stati Uniti, Europa occidentale, Giappone) o emergenza delle società? Il solo caso di emergenza positiva in tal senso è quello della Cina che tenta di associare il suo progetto di emergenza nazionale e sociale al perseguimento della sua integrazione nella mondializzazione, senza rinunciare ad esercitare il controllo sulle condizioni di quest’ultima. E’ la ragione per cui la Cina è probabilmente il potenziale maggior avversario della triade imperialista. Ma ci sono anche i semi-emergenti, cioè quelli cui piacerebbe esserlo ma che non lo sono fino in fondo, come l’India o il Brasile (anche ai tempi di Lula e di Dilma). Paesi che non hanno cambiato per nulla la struttura della loro integrazione nel sistema mondiale, rimanendo confinati al rango di esportatori di materie prime e di prodotti per l’agricoltura capitalista. Questi paesi sono “emergenti”, nel senso che essi a volte registrano tassi di crescita non trascurabili accompagnati da una crescita più rapida delle classi medie. Qui, l’emergenza è quella dei mercati, non delle società. E poi, ci sono gli altri paesi del Sud, i più fragili, e soprattutto i paesi africani, arabi, musulmani e, qua e là, altri in America Latina e in Asia. Un Sud sottomesso a un doppio saccheggio: quello delle loro risorse naturali a vantaggio dei monopoli della Triade, e quello delle incursioni finanziarie per rubare i risparmi nazionali. Il caso argentino è a questo riguardo emblematico. Le risposte in questi paesi sono spesso sfortunatamente “pre-moderne” e non “post-moderne” come vengono presentate: immaginario ritorno al passato, proposta dagli islamisti o da confraternite evangeliche cristiane in Africa e in America Latina. O ancora risposte pseudo-etniche che insistono sull’autenticità etnica di pseudo-comunità. Risposte che sono manipolabili e spesso efficacemente manipolate, benché dispongano di reali basi sociali locali (non sono gli Stati Uniti che hanno inventato l’islam o le etnie).
Peraltro, il problema è serio, perché questi movimenti dispongono di grandi mezzi (finanziari, mediatici, politici, ecc.) messi a loro disposizione dalle potenze capitalistiche dominanti e i loro amici locali.
D. Quali risposte si potrebbero immaginare da parte dei movimenti della sinistra radicale alle sfide poste da questo capitalismo pericolosamente moribondo?
Una delle tentazioni, che intendo subito scartare, è che di fronte ad una crisi del capitalismo globale, la risposta ricercata debba essere egualmente globale. Tentazione molto pericolosa perché essa ispira strategie condannate alla sicura sconfitta: "la rivoluzione mondiale” o la trasformazione del sistema mondiale dall’alto, tramite decisione collettiva di tutti gli stati. I cambiamenti nella storia non si sono mai fatti in questo modo. Sono sempre partiti da quelle nazioni che costituiscono gli anelli deboli nel sistema globale: progressi differenti da un paese all’altro, da una fase all’altra.
La decostruzione si impone prima della ricostruzione. Questo vale ad esempio per l’Europa: decostruzione del sistema europeo se si vuole ricostruirne un altro, su altre basi. Occorre uscire dall’illusione della possibilità di “riforme” condotte con successo all’interno di un modello che è stato costruito in cemento armato per non essere cosa diversa da ciò che è. La stessa cosa per quanto riguarda la mondializzazione neoliberale. La decostruzione, che si chiama qui disconnessione, non è certo un rimedio magico e assoluto, che implicherebbe l’autarchia e la migrazione fuori dal pianeta. La disconnessione chiama al rovesciamento dei termini dell’equazione: invece di accettare di adeguarsi unilateralmente alle esigenze della mondializzazione, si tenta di costringere la mondializzazione ad adeguarsi alle esigenze dello sviluppo locale. Ma attenzione, in questo senso, la disconnessione non è mai perfetta. Il successo sarà glorioso solo se si realizzeranno alcune delle nostre maggiori rivendicazioni. E questo pone una domanda fondamentale: quella della sovranità. E’ un concetto fondamentale del quale dobbiamo riappropriarci.
D. Di quale sovranità parlate? Credete nella possibilità di costruire una sovranità popolare e progressista, in opposizione alla sovranità concepita dalle élites capitaliste e nazionaliste?
La sovranità di chi? Ecco la questione. Siamo stati abituati dalla storia a conoscere ciò che è stata chiamata sovranità nazionale, quella messa in opera dalle borghesie dei paesi capitalisti, dalle classi dirigenti per legittimare il loro sfruttamento, prima dei loro lavoratori, ma anche al fine di rafforzare la propria posizione nella competizione con gli altri nazionalismi imperialisti. E’ il nazionalismo borghese. I paesi della triade imperialista non hanno mai conosciuto fino ad oggi un nazionalismo diverso da questo. Per contro, nelle periferie abbiamo conosciuto altri nazionalismi, che procedono con la volontà di affermare una sovranità antimperialista, operante contro la logica della mondializzazione imperialista attuale.
La confusione tra questi due concetti di “nazionalismo” è molto forte in Europa. Perché? Ebbene, per ragioni storiche evidenti. I nazionalismi imperialisti sono stati all’origine delle due guerre mondiali, fonte di distruzioni senza precedenti. Si comprende così che questi nazionalismi siano percepiti come nauseabondi. Dopo la guerra, la costruzione europea ha lasciato credere che essa avrebbe permesso il superamento di questo tipo di rivalità, con la messa in campo di un potere sovranazionale europeo, democratico e progressista. I popoli hanno creduto a questo, cosa che spiega la popolarità del progetto europeo che regge sempre a discapito di tutte le sue devastazioni. Ad esempio come in Grecia, dove gli elettori si sono pronunciati contro l’austerità, ma allo stesso tempo hanno mantenuto la loro illusione di un'altra Europa possibile.
Noi parliamo di un’altra sovranità. Una sovranità popolare, in opposizione alla sovranità nazionalista borghese delle classi dirigenti. Una sovranità concepita come il veicolo di una liberazione, che fa arretrare la mondializzazione imperialista contemporanea. Un nazionalismo antimperialista dunque, che non ha nulla a che vedere con il discorso demagogico di un nazionalismo locale che accetterebbe di iscrivere le prospettive del paese in questione nella mondializzazione in atto, che considera il vicino più debole come suo nemico.
D. Come si costruisce dunque un progetto di sovranità popolare?
Questo dibattito è stato affrontato in diverse riprese. Un dibattito difficile e complesso tenuto conto della varietà delle situazioni concrete. Con buoni risultati, credo, soprattutto nelle discussioni organizzate in Cina, in Russia, in America Latina (Venezuela, Bolivia, Ecuador, Brasile). Altri dibattiti sono stati ancora più difficili, soprattutto quelli organizzati nei paesi più fragili.
La sovranità popolare non è facile da immaginare, perché attraversata da contraddizioni. La sovranità popolare si dà l’obiettivo di trasferire il massimo dei poteri reali alle classi popolari. Questi si colgono ai livelli locali, e possono entrare in conflitto con la necessità di una strategia a livello statale. Perché parlare dello stato? Perché, lo si voglia o meno, continueremo a vivere per molto tempo con gli stati. E lo stato rimane il luogo principale delle decisioni rilevanti. Qui è situato il fondo del dibattito. Ad un’estremità del ventaglio nel dibattito, abbiamo i libertari che dicono che lo stato è il nemico che occorre ad ogni costo combattere e che occorre dunque agire al di fuori della sua sfera d’influenza; all’altro polo abbiamo le esperienze nazionali popolari, soprattutto quelle della prima ondata del risveglio dei paesi del Sud, con i nazionalismi antimperialisti di Nasser, Lumumba, Modibo, ecc. Questi leader hanno esercitato un’autentica tutela sui loro popoli, e hanno ritenuto che il cambiamento non può venire che dall’alto. Queste due correnti devono dialogare, comprendersi al fine di costruire strategie popolari che consentano autentici progressi.
Cosa si può imparare da coloro che hanno potuto andare più lontano? Come in Cina o in America Latina? Quali sono i margini che tali esperienze hanno saputo mettere a profitto? Quali sono le forze sociali che sono o che potrebbero essere favorevoli a queste strategie? Attraverso quali strumenti politici possiamo sperare di mobilitare le loro capacità? Ecco le domande fondamentali che noi, i movimenti sociali, i movimenti della sinistra radicale, i militanti antimperialisti e anticapitalisti, dobbiamo porci e alle quali dobbiamo rispondere al fine di costruire la nostra sovranità, popolare, progressista e internazionalista.
* Fonte: INVESTIG'ACTION
** Traduzione: MARX XXI
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