Marco Veronese Passarella |
«Procuratevi una copia del Capitale e allacciate le cinture. La Storia si è rimessa in moto. Ma non chiedetemi di fare previsioni sulla destinazione».
Intervista a cura di Marco Palazzotto
D. Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’affermazione di quell'indirizzo politico ed economico, tipico del capitalismo contemporaneo, chiamato “neoliberismo”. Secondo il sentire comune questa fase ha influenzato in senso liberista le politiche economiche dei maggiori produttori al mondo. In realtà si può rilevare, soprattutto in ambito accademico, che la scuola di pensiero che ha influito di più sulle decisioni politiche non è proprio quella liberale: anzi se di pensiero dominante si può parlare, soprattutto nelle scienze economiche, quella che emerge di più è la cosiddetta scuola neo-keynesiana (di cui fanno parte, ad esempio, Blanchard, Krugman, Stiglitz, Mankiew, ecc.). In alcuni tuoi recenti lavori ti sei occupato del “New Consensus” ed in particolare dei modelli DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium). Ci potresti descrivere per sommi capi di cosa si tratta?
R. È una domanda che tocca molti aspetti critici. Provo ad elencarli e commentarli brevemente. Anzitutto, non darei per scontato che ciò che abbiamo osservato negli ultimi decenni sia interamente ascrivibile al “neoliberismo”. Al fronte neoliberista si è per anni contrapposto un fronte social-liberista, in certe fasi maggioritario, che accarezzava l’illusione di poter gestire la globalizzazione capitalistica ed i connessi processi di finanziarizzazione attraverso la lotta ai monopoli, l’estensione dei diritti civili ed alcune timide politiche redistributive, dato il doppio vincolo posto dal bilancio pubblico e dai conti esteri. Quel fronte ha conosciuto proprio la settimana scorsa l’ultima delle proprie sconfitte recenti, nelle elezioni americane. Sulla distinzione neoliberismo, social-liberismo e liberismo sans phrase hanno scritto estesamente Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi, per cui mi fermo qui. Passo così al secondo punto. Pressoché tutti gli economisti di rilievo che si sono succeduti da William Petty a Joseph Stiglitz sono definibili come “liberali”, nel senso che afferiscono al liberalismo inteso come filosofia o dottrina politica che mette al centro le libertà e i diritti naturali dell’individuo. Le eccezioni non sono mancate naturalmente (Piero Sraffa e Richard Goodwin erano socialisti, e lo stesso vale per “l’ultima” Joan Robinson), ma si sono spesso declinate a “destra” (si pensi a Milton Friedman e soprattutto a Friedrich Hayek e alla Scuola Austriaca che, certo, erano liberisti, ma hanno dato vita ad una corrente oggi minoritaria e comunque estrema e controversa del liberalismo in economia).
Terzo, in ambito accademico la corrente di pensiero oggi dominante è quella dei New Keynesians (da non confondere con i vecchi esponenti della Sintesi Keynesiano-Neoclassica, di cui i primi sono semmai, e solo per alcuni versi, gli eredi). I New Keynesians accettano tutte le premesse del paradigma che ha dominato la scienza economica a partire dalla controrivoluzione monetarista (cominciata alla fine degli anni Cinquanta e portata a compimento alla fine degli anni Settanta) e che ha dato origine ai modelli denominati appunto DSGE: la necessità di ricondurre la dinamica delle variabili macroeconomiche al comportamento massimizzante di un agente rappresentativo; le aspettative razionali degli agenti; l’equilibrio naturale del sistema (in termini di prodotto nazionale ed occupazione, determinati in ultima istanza da tecnologia, disponibilità di risorse e sistema di preferenze degli agenti) inteso come attrattore di lungo periodo; infine, la riconduzione dell’origine delle fluttuazioni del sistema a shock stocastici. A differenza dei loro predecessori, però, i New Keynesians non accettano la conclusione secondo cui la crisi e i cicli economici che si osservano nel mondo “là fuori” nascerebbero unicamente da politiche monetarie inattese (come sostenuto dagli esponenti della Nuova Macroeconomia Classica) ovvero da salti tecnologici (come sostenuto dagli esponenti della scuola del Ciclo Economico Reale). Questo perché, a differenza di quanto ipotizzato dai loro colleghi “monetaristi”, per i New Keynesians il mondo reale sarebbe caratterizzato da asimmetrie informative, rigidità salariali, vischiosità dei prezzi, imperfezioni dei mercati dei capitali e posizioni di oligopolio nei mercati di beni e servizi che interferiscono con le forze spontanee della concorrenza. Sennonché, una volta che il modello base viene emendato per tener conto di tali “frizioni”, la politica monetaria conquista il centro della scena: in un mondo di prezzi vischiosi, il livello del tasso di interesse monetario di riferimento influenza direttamente il tasso di interesse reale e dunque le decisioni degli agenti economici (i quali, proprio sulla base di quel tasso, decidono come allocare inter-temporalmente consumi, lavoro e tempo libero, determinando così il prodotto nazionale). Non solo, ma se esiste un equilibrio naturale del sistema, allora esiste anche un tasso di interesse reale naturale che consente il raggiungimento ed il mantenimento di tale equilibrio. Compito della banca centrale è allora quello di fissare il tasso di interesse monetario che, sulla base del tasso di inflazione corrente e atteso, consente di stabilizzare il sistema in un intorno del suo equilibrio naturale, in cui il prodotto nazionale corrisponde a quello potenziale, il tasso di disoccupazione si assesta al suo livello naturale e l’inflazione rimane stabile. Ecco perché le banche centrali devono essere sottratte al controllo politico dei governi e financo alla sorveglianza democratica dei parlamenti. Così come la misura della costante gravitazionale non è, e non deve essere, oggetto di dibattito democratico, ma va invece determinata in piena autonomia dalla comunità dei fisici, allo stesso modo il tasso di interesse naturale deve essere determinato “scientificamente” dagli uffici studio delle banche centrali. Diversamente, ragioni di mera convenienza elettorale finirebbero per interferire con la stabilizzazione del sistema nel breve periodo, lasciando in eredità inflazione (o deflazione) eccessiva nel lungo periodo. Inoltre, se è vero che nel lungo periodo il sistema si riporta sempre sul sentiero di equilibrio, è altrettanto vero – riconoscono tra le righe i New Keynesians – che il breve periodo può essere assai meno breve di quanto ipotizzato dai colleghi “monetaristi”. Per questo la politica monetaria non viene mai realmente accantonata. Per contro, l’unico effetto di lungo medio-periodo della politica fiscale è quello di turbare le aspettative degli agenti economici con esiti destabilizzanti sull’intero sistema. Ad esempio, l’unico effetto permanente di una politica fiscale espansiva (diciamo, di maggiore spesa pubblica) è un livello di inflazione più elevato ed uno spiazzamento dell’iniziativa privata. Naturalmente, quanto detto regge soltanto nella misura in cui si accettino le premesse su cui il modello base è costruito, in particolare quella di un equilibrio naturale esogenamente dato che funge da attrattore di lungo periodo del sistema. Se così non fosse, se cioè, per esempio, i livelli correnti di produzione e di occupazione influissero su quelli futuri (fenomeno che nel gergo scientifico viene chiamato “isteresi”), allora la politica fiscale non soltanto tornerebbe ad essere efficace ma sarebbe persino auspicabile per stabilizzare il sistema. Questo perché, in tale scenario, la produttività di domani dipende dagli investimenti di oggi e questi, a loro volta, dipendono dal livello di domanda fronteggiato oggi (o atteso) dalle imprese – e questo tanto più in periodi caratterizzati da un rapido mutamento tecnologico. Lo stesso vale per la capacità del sistema di formare e attrarre manodopera adeguata alla struttura produttiva. Che è poi quello che alcuni New Keynesians iniziano oggi a (ri)scoprire nelle loro pubblicazioni, a seguito delle crisi recenti e dei ripetuti errori di previsione circa l’andamento delle principali variabili macroeconomiche dei paesi più duramente colpiti dalle crisi. Alcuni studiosi si sono spinti fino ad abiurare la modellistica dominante e in molti invocano oggi maggiore pluralismo nella ricerca. La crisi del social-liberismo sembrerebbe insomma aver intaccato anche la sua sovrastruttura scientifico-ideologica, o almeno alcuni dei suoi capisaldi. È, tuttavia, ancora troppo presto per capire se siamo alle soglie di una nuova rivoluzione in macroeconomia. I segnali incoraggianti non mancano, ma la storia ci consiglia di essere molto cauti. Le rivoluzioni di solito si fanno prima “là fuori”.
D. Il tuo sito internet (www.marcopassarella.it/it/) è intitolato: MARXIANOMICS. Sembra che il pensiero di Karl Marx abbia influito in maniera potente sulla tua formazione. Ci spieghi perché secondo te oggi, per uno studioso di scienze sociali, è importante ancora studiare il pensiero di un intellettuale che è vissuto nel XIX secolo, da molti ormai considerato superato?
R. Il nome del mio sito gioca sull’associazione con blog ben più noti del mio gestiti da economisti ben più noti di me – oltre che, naturalmente, sulla rivendicazione di una radice marxista nel mio lavoro e in generale nella mia formazione di militante politico prima ancora che di macroeconomista. Venendo a Marx, la sua grandezza sta paradossalmente proprio nella sua “inattualità”. L’analisi di Marx, come quella di altri grandi pensatori del passato, è strutturata su più livelli. A grandi linee, possiamo individuare, al livello più basso, l’analisi concreta della situazione concreta del proprio tempo, spesso legata alle necessità politiche contingenti, e, a quello più alto, l’analisi astratta delle leggi di movimento (o della fisiologia) del sistema di produzione capitalistico. Il primo livello, per definizione, ha una precisa connotazione storico-geografica e, con alcune eccezioni, può essere abbandonato senza troppi rimpianti alla critica roditrice dei topi. Per contro il secondo livello, proprio perché astratto e apparentemente sempre inattuale, è in realtà attualissimo. Perché? Perché è Marx che ci mostra come lo scambio individuale tra eguali sul mercato dissimuli sempre uno scambio sociale ineguale nella produzione. È Marx che svela l’origine del profitto per la classe dei capitalisti e dunque dell’accumulazione di capitale, che è da ricondurre allo sfruttamento dei lavoratori impiegati nella manifattura e in altri “prolungamenti della produzione nella circolazione”, come il settore dei trasporti. È ancora Marx che mette in luce il nesso fondamentale tra moneta, valore e lavoro, e che riflette per primo sul ruolo della finanza come “acceleratore” dei processi di realizzazione del valore, ma anche, al contempo, di intensificazione dello sfruttamento nella produzione. Infine, è Marx che dà un contributo decisivo all’analisi Classico-Ricardiana della natura conflittuale dei rapporti di classe – tra salariati e capitalisti e, all’interno della classe dominante, tra capitali a differente base nazionale o tra capitalisti industriali e rentier. Su questi e su altri aspetti il contributo di Marx rimane insuperato. Nel mio caso le sue opere hanno cambiato in modo permanente il modo in cui guardo alla realtà. Non relazioni tra cose, ma relazioni tra classi sociali. Non questo o quell’oggetto specifico, ma gelatina di lavoro passato. Un’enorme matrice di cristallizzazioni di lavoro morto continuamente alimentata da un vettore di lavoro vivo: questo è il mondo là fuori filtrato attraverso le lenti marxiane. Un mondo affascinante e terrificante al tempo stesso. Un mondo che spero prima o poi di contribuire a sovvertire.
D. Spesso mi capita di leggere in alcuni tuoi post la necessità di rimarcare la tua origine di immigrato in Inghilterra. Considerato che ti trovi da diversi anni a Leeds come hai vissuto da immigrato, e come vedi da economista, il voto su BREXIT?
R. In realtà quel voto non mi ha colto impreparato, almeno non totalmente. Sebbene ritenessi erroneamente che l’omicidio della deputata laburista avvenuto proprio a Leeds nell’imminenza del voto avesse deciso le sorti del referendum in senso favorevole al “remain”, ero stato avvertito da alcuni compagni che il fronte dell’uscita poteva contare sul consenso di ampi strati della popolazione. E del resto ogni volta che gli elettori europei sono stati chiamati ad esprimersi su questioni analoghe, l’esito è sempre stato lo stesso: un voto di sfiducia e di protesta contro le istituzioni europee. E, sì, certo qui in Inghilterra hanno pesato molto le paure della popolazione nativa circa l’impatto di “noi” immigrati sulle loro condizioni materiali di vita e di lavoro. D’altra parte, se quelle paure non sono totalmente infondate (almeno per quella parte della forza lavoro inglese meno qualificata e dunque più esposta alla pressione dei lavoratori immigrati sui salari e soprattutto su trasporti, abitazioni ed altri servizi essenziali), sono state però artificialmente alimentate dalla propaganda irresponsabile del Partito Conservatore, finalizzata a sottrarre consensi allo UKIP. Ciò detto, qui a Leeds non è cambiato molto, almeno per me. Non ho colto alcun segnale di quella recrudescenza di sentimenti di intolleranza verso gli immigrati avvertiti da altri non-britannici (e segnalata più volte dal Guardian ed altre testate progressiste), ed anzi ho notato piuttosto una sorta di senso di vergogna diffuso presso gli strati più istruiti della popolazione inglese. Venendo agli aspetti squisitamente macroeconomici, è ancora troppo presto per trarre delle conclusioni sugli effetti della Brexit. Di certo c’è che il Regno Unito è il paese che più aveva da perdere e meno da guadagnare dall’uscita dall’Unione Europea, visto lo status speciale di cui godeva e la natura della sua struttura produttiva. Come è noto, la sterlina si è deprezzata verticalmente rispetto alle altre principali valute mondiali dopo la divulgazione dell’esito referendario. Era probabilmente sopravvalutata prima del referendum, ma la caduta è stata nondimeno impressionante. Questo peraltro non ha innescato, almeno per ora, fughe massicce di capitali. Né, sul fronte opposto, c’è da farsi troppe illusioni sull’effetto positivo che il deprezzamento della sterlina potrà avere sulla bilancia commerciale inglese, visto il ridimensionamento della struttura produttiva inglese e considerate le sue interdipendenze con altri paesi europei. In ogni caso, consumi e investimenti hanno retto sorprendentemente bene il colpo, almeno per ora. Anche i segnali provenienti dagli indici borsistici sono, tutto sommato, positivi o almeno non allarmanti. Certo proprio la debolezza della sterlina potrebbe portare ad una crescita dell’inflazione nei prossimi mesi, con possibile ulteriore compressione di salari già stagnanti in termini reali. Tuttavia, la disoccupazione rimane molto bassa, specie tra i lavoratori qualificati, e chi fugge da Italia, Spagna o Grecia trova qui condizioni di lavoro comunque non paragonabili con quelle del proprio paese di origine. Purtroppo. Resta da capire quali effetti avranno la vittoria di Trump negli Stati Uniti, il referendum costituzionale italiano di dicembre e la “rivincita” delle presidenziali in Austria. Insomma, se il voto inglese vi era piaciuto, gli appuntamenti elettorali prossimi venturi vi entusiasmeranno. Procuratevi una copia del Capitale e allacciate le cinture. La Storia si è rimessa in moto. Ma non chiedetemi di fare previsioni sulla destinazione.
* Fonte: Palermo Grad
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