[ 12 luglio ]
Dopo la sparatoria di Dallas, l’opinione pubblica statunitense è terrorizzata dall’idea che possa ripresentarsi una situazione di guerra fra i corpi repressivi dello stato e una minoranza di militanti neri decisi a tutto, anche a usare le armi. La memoria risale alla fine degli anni Sessanta e a episodi come gli assassini di Martin Luther King, il leader del movimento non violento per i diritti civili, e di Malcolm X, il capo delle Black Panthers che aveva al contrario scelto la via della lotta rivoluzionaria.
Dopo la strage dei cinque poliziotti texani, il New York Post ha inalberato un titolo che recita senza eufemismi "Guerra civile", ma l’atteggiamento prevalente di politici e media, a parte il consueto florilegio di deprecazioni e condanne per quest’atto di violenza terroristica, è stato piuttosto quello della denegazione. A partire dalla descrizione del colpevole, l’ex soldato nero Micah Xavier Johnson, già schierato in Afghanistan, il quale è stato dipinto (al pari di quanto avviene puntualmente per i terroristi islamici) come persona disturbata, instabile e violenta. Un isolato, insomma, benché le proteste provocate dall’ennesimo omicidio a sangue freddo perpetrato da poliziotti bianchi (documentato da un’agghiacciante video girato dalla fidanzata della vittima) avessero già assunto forme di estrema radicalità (con decine di feriti e arresti) ancor prima della, o comunque in contemporanea alla, sparatoria.
Il primo a negare la realtà è il presidente Obama il quale ha dichiarato che "l’America non è così divisa come alcuni suggeriscono" e che "Non siamo improvvisamente tornati agli anni Sessanta, alle sommosse e alle repressioni". Sulle sommosse vediamo come andrà nei prossini giorni, ma quanto alle repressioni la bugia è di proporzioni colossali: come ha ricordato Gianni Riotta in un’intervista a Rai News 24, solo l’anno scorso la polizia ha ucciso 1000 persone, quasi tutti neri, e quest’anno siamo già a quota 500. Né va dimenticato che l’America "vanta", assieme a Cina e Russia, una sterminata popolazione carceraria (e anche qui i neri sono la schiacciante maggioranza). Forse i neri non hanno ancora dichiarato guerra allo stato, ma certamente lo stato l’ha dichiarata contro di loro: una "guerra di classe dall’alto", per usare le parole di Luciano Gallino, per reprimere e contenere la rabbia di una minoranza sottoposta a livelli intollerabili di emarginazione e sfruttamento.
Nella foto accanto militanti del New Black panther Party in una recente manifestazione
Anche il reverendo Jesse Jackson, l’erede di Martin Luther King, getta acqua sul fuoco dichiarando che questo assassinio di poliziotti è una cosa inconsueta e che "dobbiamo assicurarci che ciò che è accaduto resti un’eccezione e non si ripeta". Anche qui bugie: negli anni Sessanta episodi del genere sono accaduti eccome e, se la polizia continuerà a massacrare i negri a sangue freddo, è praticamente certo che accadranno ancora. Ai tempi ne erano protagonisti i giovani abitanti dei ghetti, alcuni dei quali reduci dalla guerra del Vietnam, e Johnson risponde al profilo: anche lui reduce di una delle tante guerre in cui i neri (in numero assai maggiore dei coetanei bianchi) vengono mandati a morire per cause non loro. Muhammad Alì, amico di Malcolm X, finì in galera perché si rifiutò di partire per il Vietnam e oggi, dopo quanto è successo, i panegirici bianchi per la sua morte recente suonano come insultanti ipocrisie.
Quello che rende ancora più inquieto l’establishment americano è il fatto che l’episodio sia avvenuto in concomitanza con una campagna presidenziale in cui, osserva preoccupato un articolo del "New York Times", nessuno dei due candidati appare abbastanza popolare né abbastanza credibile per ergersi all’uomo o alla donna capace di unificare una nazione divisa dall’odio razziale e di classe. Certo non Trump, con le sue sparate razziste, ma neanche la Clinton che vive di rendita sul tradizionale consenso di cui lei e il marito godono nell’establishment afroamericano, ma non fra i giovani neri, i quali avrebbero di gran lunga preferito vedere Sanders al suo posto (e invece è proprio loro che dovrebbe convincere, per evitare la radicalizzazione dello scontro).
Insomma: le condizioni per un ritorno delle Black Panthers ci sono tutte anche se, visto che la storia difficilmente si ripete, è presumibile che il fenomeno assuma forme inedite. Per evitarlo occorrerebbe un movimento di massa capace di integrare le lotte dei neri con quelle di bianchi impoveriti, studenti e altri movimenti sociali, qualcosa che, dopo la campagna di Sanders, appare meno impossibile ma comunque di là da venire.
Un’ultima annotazione: ancora una volta l’attenzione si è ossessivamente concentrata sulla facilità con cui i cittadini americani possono dotarsi di armi da fuoco. Il problema è reale, ma spesso mi pare venga ingigantito per distogliere l’attenzione dai veri problemi: le armi non sparano da sole, e in primo luogo occorre capire chi è e perché spara.
Dopo la sparatoria di Dallas, l’opinione pubblica statunitense è terrorizzata dall’idea che possa ripresentarsi una situazione di guerra fra i corpi repressivi dello stato e una minoranza di militanti neri decisi a tutto, anche a usare le armi. La memoria risale alla fine degli anni Sessanta e a episodi come gli assassini di Martin Luther King, il leader del movimento non violento per i diritti civili, e di Malcolm X, il capo delle Black Panthers che aveva al contrario scelto la via della lotta rivoluzionaria.
Dopo la strage dei cinque poliziotti texani, il New York Post ha inalberato un titolo che recita senza eufemismi "Guerra civile", ma l’atteggiamento prevalente di politici e media, a parte il consueto florilegio di deprecazioni e condanne per quest’atto di violenza terroristica, è stato piuttosto quello della denegazione. A partire dalla descrizione del colpevole, l’ex soldato nero Micah Xavier Johnson, già schierato in Afghanistan, il quale è stato dipinto (al pari di quanto avviene puntualmente per i terroristi islamici) come persona disturbata, instabile e violenta. Un isolato, insomma, benché le proteste provocate dall’ennesimo omicidio a sangue freddo perpetrato da poliziotti bianchi (documentato da un’agghiacciante video girato dalla fidanzata della vittima) avessero già assunto forme di estrema radicalità (con decine di feriti e arresti) ancor prima della, o comunque in contemporanea alla, sparatoria.
Il primo a negare la realtà è il presidente Obama il quale ha dichiarato che "l’America non è così divisa come alcuni suggeriscono" e che "Non siamo improvvisamente tornati agli anni Sessanta, alle sommosse e alle repressioni". Sulle sommosse vediamo come andrà nei prossini giorni, ma quanto alle repressioni la bugia è di proporzioni colossali: come ha ricordato Gianni Riotta in un’intervista a Rai News 24, solo l’anno scorso la polizia ha ucciso 1000 persone, quasi tutti neri, e quest’anno siamo già a quota 500. Né va dimenticato che l’America "vanta", assieme a Cina e Russia, una sterminata popolazione carceraria (e anche qui i neri sono la schiacciante maggioranza). Forse i neri non hanno ancora dichiarato guerra allo stato, ma certamente lo stato l’ha dichiarata contro di loro: una "guerra di classe dall’alto", per usare le parole di Luciano Gallino, per reprimere e contenere la rabbia di una minoranza sottoposta a livelli intollerabili di emarginazione e sfruttamento.
Nella foto accanto militanti del New Black panther Party in una recente manifestazione
Anche il reverendo Jesse Jackson, l’erede di Martin Luther King, getta acqua sul fuoco dichiarando che questo assassinio di poliziotti è una cosa inconsueta e che "dobbiamo assicurarci che ciò che è accaduto resti un’eccezione e non si ripeta". Anche qui bugie: negli anni Sessanta episodi del genere sono accaduti eccome e, se la polizia continuerà a massacrare i negri a sangue freddo, è praticamente certo che accadranno ancora. Ai tempi ne erano protagonisti i giovani abitanti dei ghetti, alcuni dei quali reduci dalla guerra del Vietnam, e Johnson risponde al profilo: anche lui reduce di una delle tante guerre in cui i neri (in numero assai maggiore dei coetanei bianchi) vengono mandati a morire per cause non loro. Muhammad Alì, amico di Malcolm X, finì in galera perché si rifiutò di partire per il Vietnam e oggi, dopo quanto è successo, i panegirici bianchi per la sua morte recente suonano come insultanti ipocrisie.
Quello che rende ancora più inquieto l’establishment americano è il fatto che l’episodio sia avvenuto in concomitanza con una campagna presidenziale in cui, osserva preoccupato un articolo del "New York Times", nessuno dei due candidati appare abbastanza popolare né abbastanza credibile per ergersi all’uomo o alla donna capace di unificare una nazione divisa dall’odio razziale e di classe. Certo non Trump, con le sue sparate razziste, ma neanche la Clinton che vive di rendita sul tradizionale consenso di cui lei e il marito godono nell’establishment afroamericano, ma non fra i giovani neri, i quali avrebbero di gran lunga preferito vedere Sanders al suo posto (e invece è proprio loro che dovrebbe convincere, per evitare la radicalizzazione dello scontro).
Militanti del New Black panther Party (NBPP) |
Insomma: le condizioni per un ritorno delle Black Panthers ci sono tutte anche se, visto che la storia difficilmente si ripete, è presumibile che il fenomeno assuma forme inedite. Per evitarlo occorrerebbe un movimento di massa capace di integrare le lotte dei neri con quelle di bianchi impoveriti, studenti e altri movimenti sociali, qualcosa che, dopo la campagna di Sanders, appare meno impossibile ma comunque di là da venire.
Un’ultima annotazione: ancora una volta l’attenzione si è ossessivamente concentrata sulla facilità con cui i cittadini americani possono dotarsi di armi da fuoco. Il problema è reale, ma spesso mi pare venga ingigantito per distogliere l’attenzione dai veri problemi: le armi non sparano da sole, e in primo luogo occorre capire chi è e perché spara.
* Fonte: Micromega
1 commento:
Malcom X capo delle Black Panthers non si può leggere.
Almeno chi ha scritto l'articolo poteva controllare le date.
Malcom X morì nel 1965, le Pantere Nere sono nate nel 1966.
I fondatori furono Huey P. Newton e Bobby Seale, il secondo risulta ancora vivente.
Saluti,
Carlo.
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