[ 11 luglio ]
Black Lives Matter. Le vite dei neri contano, è un movimento democratico e pacifico sorto nel 2013 quando un poliziotto venne prosciolto dall'accusa di omicidio di Trayvon Martin, un 17enne nero disarmato.
Micah Xavier Johnson (nella foto accanto) non ne faceva parte. Addestrato per fare fuori i talibani in Afghanistan, inferocito per la mattanza di neri —solo lo scorso anno sono state accoppate dai poliziotti 990 persone, di cui 258 di pelle nera— ha deciso di girare il suo fucile per puntarlo dalla parte opposta. E' stato ridotto in brandelli con una tecnica ben sperimentata in Iraq e Afghanistan, con un minirobot telecomandato e carico di esplosivo —gli unici shahid che l'Impero produce sono marchingegni elettronici. La stampa americana adesso tenta di farlo passare per malato di mente, come tanti reduci dalle guerre imperiali. La protesta intanto divampa negli USA, si radicalizza, andando ben al di la delle marce pacifiste di Black Lives Matter. E di allarga la repressione preventiva , con centinaia di arresti. Ci torna in mente Danilo Zolo, che ci suggeriva, già decenni addietro, come quello degli USA non fosse uno Stato di diritto bensì uno "Stato penale".
Sono diversi i columnist americani che parlano di guerra civile incipiente, con eufemismo: disruption.
Sarà vero? La plebe nera verso una rivolta armata generalizzata? Potrà questa plebe evitare di subire un'altra mattanza, se non scenderà in campo, contro la potentissima oligarchia WASP [White Anglo-Saxon Protestant] il popolo a stelle e strisce?
Utile quest'articolo di Massimo Gaggi, che ci ricorda quante mattanze hanno segnato la storia degli Stati Uniti, anche dopo la fine dello schiavismo e della segregazione razziale, dunque il totale fallimento della cosiddetta società multirazziale.
Abramo Lincoln che nel 1862 abolì la schiavitù. Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto introdotte da Lyndon Johnson negli anni Sessanta del secolo scorso che avrebbero dovuto porre fine a ogni forma di segregazione razziale, oltre a offrire ai neri pari opportunità nello studio e nell’accesso al lavoro. Di battaglie per l’integrazione della minoranza di colore la democrazia americana ne ha combattute tante, ma difficoltà e resistenze sono sempre state enormi e la ferita della questione razziale non si è mai rimarginata.
La schiavitù
La miscela di rapporti tra le diverse comunità del «melting pot» americano è cambiata più volte negli anni, ma ha sempre mantenuto qualche fattore esplosivo: dopo lo schiavismo, la segregazione delle «leggi Jim Crow» di fine Ottocento. Dopo la segregazione, la discriminazione. E poi, ancora, la povertà, il degrado urbano dei quartieri neri e, oggi, l’insofferenza davanti ai controlli di polizia sempre più frequenti e rudi. Ricucire è difficile anche perché, perfino davanti ai migliori tentativi di integrazione, molti afroamericani non riescono a scrollarsi di dosso il risentimento per il peccato originale che ha prodotto questa loro condizione: la deportazione degli avi dall’Africa.
Il pregiudizio
Quanto ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è quasi sempre un sentimento di diffidenza o la tendenza a mantenere le distanze. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Perfino tra neri con molti discendenti dei popoli del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono su un gradino più alto. C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che - anche se pesano povertà, degrado dei quartieri, scuole disastrate - a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.
Speranze e delusioni
Fino a quando gli eccessi degli agenti non provocano rivolte tra i neri e anche nelle coscienze dei bianchi. Le tensioni attuali, iniziate due anni fa dopo l’uccisione di un ragazzo disarmato a Ferguson, fin qui non avevano prodotto incendi paragonabili alle rivolte di Chicago e Tulsa dell’inizio del Novecento (in tutti e due i casi ci furono una quarantina di morti e centinaia di feriti). E nemmeno con quelle degli anni Sessanta: il decennio delle grandi speranze e delle grandi delusioni. Furono quelli gli anni in cui gli Stati Uniti sembrarono a un passo dall’impresa di rimarginare l’antica ferita: John Kennedy che imposta la riforma dei diritti civili mentre Martin Luther King - siamo nel ‘63 - pronuncia davanti a una folla immensa a Washington il suo celebre discorso: «I have a dream».
La boa degli anni Sessanta
Qualche mese dopo Kennedy viene assassinato ma Lyndon Johnson ne completa l’opera: pari diritti alle urne, nelle società, sul posto di lavoro. Nel 1966 viene eletto il primo senatore nero. Nel ‘67 tocca al primo giudice afroamericano della Corte Suprema. E’ anche l’anno di «Indovina chi viene a cena?», l’ironico film con il quale Sidney Lumet cerca di rompere gli steccati sulla questione dei matrimoni misti ormai previsti dalla legge, ma che rimangono ancora un tabù nella società americana. Ma è anche l’anno della rivolta di Newark, alle porte di New York: 23 morti e 700 feriti dopo che la polizia aveva massacrato un tassista nero. L’anno dopo, il 1968, le speranze d una convivenza più serena vengono ulteriormente scosse dall’assassinio di Martin Luther King e dell’altro Kennedy, Robert, lanciato verso la conquista della Casa Bianca.
La paura del futuro
Le violenze della polizia hanno prodotto negli anni altre rivolte, comprese le due che hanno insanguinato Los Angeles: quella di Watts del 1965 - sei giorni di guerriglia, 34 morti, 1032 feriti e l’intervento della Guardia Nazionale) e quella del 1992 dopo il caso Rodney King (un altro tassista malmenato dalla polizia). Al limite della guerra civile: quando tornò l’ordine sul campo erano rimasti 50 morti e duemila feriti. L’America ora teme che qualcosa del genere possa succedere di nuovo e proprio negli ultimi mesi della presidenza Obama. Il Paese ha più anticorpi - una vera classe dirigente nera capace di mitigare le tensioni com’è già avvenuto a Baltimora dopo i primi disordini successivi all’uccisione di un altro ragazzo nero disarmato. O come è avvenuto a Charleston, in South Carolina, dove non si è registrato alcun incidente dopo che un «suprematista» bianco ha fatto strage di neri in una chiesa. Ma i tempi sono per certi versi più difficili, le circostanze più insidiose. Oggi l’America è un Paese in armi: 300 milioni di fucili e pistole su 320 milioni di abitanti. E la diffusione dei video che provano gli abusi e a volte i crimini commessi da alcuni poliziotti, suscitano ondate d’indignazione. Venti difficili da controllare: c’è spazio per chi, come il killer di Dallas, va alla ricerca di micce alle quali dare fuoco.
Nel 1921 i disordini di Tulsa vennero spenti dopo giorni di guerriglia coi neri chiusi in campi d’internamento. Solo ricerche storiografiche recenti hanno dimostrato che quel conflitto fu assai più cruento, con molti neri massacrati anche da civili bianchi che volavano su di loro in aereo lanciando candelotti di dinamite. Cosa sarebbe successo, già allora in America, se il Paese avesse visto le immagini di quei feroci bombardamenti?
* Fonte: Il Corriere della Sera del 11 luglio
Black Lives Matter. Le vite dei neri contano, è un movimento democratico e pacifico sorto nel 2013 quando un poliziotto venne prosciolto dall'accusa di omicidio di Trayvon Martin, un 17enne nero disarmato.
Micah Xavier Johnson (nella foto accanto) non ne faceva parte. Addestrato per fare fuori i talibani in Afghanistan, inferocito per la mattanza di neri —solo lo scorso anno sono state accoppate dai poliziotti 990 persone, di cui 258 di pelle nera— ha deciso di girare il suo fucile per puntarlo dalla parte opposta. E' stato ridotto in brandelli con una tecnica ben sperimentata in Iraq e Afghanistan, con un minirobot telecomandato e carico di esplosivo —gli unici shahid che l'Impero produce sono marchingegni elettronici. La stampa americana adesso tenta di farlo passare per malato di mente, come tanti reduci dalle guerre imperiali. La protesta intanto divampa negli USA, si radicalizza, andando ben al di la delle marce pacifiste di Black Lives Matter. E di allarga la repressione preventiva , con centinaia di arresti. Ci torna in mente Danilo Zolo, che ci suggeriva, già decenni addietro, come quello degli USA non fosse uno Stato di diritto bensì uno "Stato penale".
Sono diversi i columnist americani che parlano di guerra civile incipiente, con eufemismo: disruption.
Sarà vero? La plebe nera verso una rivolta armata generalizzata? Potrà questa plebe evitare di subire un'altra mattanza, se non scenderà in campo, contro la potentissima oligarchia WASP [White Anglo-Saxon Protestant] il popolo a stelle e strisce?
Utile quest'articolo di Massimo Gaggi, che ci ricorda quante mattanze hanno segnato la storia degli Stati Uniti, anche dopo la fine dello schiavismo e della segregazione razziale, dunque il totale fallimento della cosiddetta società multirazziale.
Neri e bianchi in America
le radici di una frattura che non guarisce
Da Lincoln a Luther King, da Kennedy a Obama. La storia Usa è segnata dai nodi
della questione razziale. Tulsa, Los Angeles, Ferguson: perché il passato non passa?
di Massimo Gaggi
Abramo Lincoln che nel 1862 abolì la schiavitù. Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto introdotte da Lyndon Johnson negli anni Sessanta del secolo scorso che avrebbero dovuto porre fine a ogni forma di segregazione razziale, oltre a offrire ai neri pari opportunità nello studio e nell’accesso al lavoro. Di battaglie per l’integrazione della minoranza di colore la democrazia americana ne ha combattute tante, ma difficoltà e resistenze sono sempre state enormi e la ferita della questione razziale non si è mai rimarginata.
La schiavitù
La miscela di rapporti tra le diverse comunità del «melting pot» americano è cambiata più volte negli anni, ma ha sempre mantenuto qualche fattore esplosivo: dopo lo schiavismo, la segregazione delle «leggi Jim Crow» di fine Ottocento. Dopo la segregazione, la discriminazione. E poi, ancora, la povertà, il degrado urbano dei quartieri neri e, oggi, l’insofferenza davanti ai controlli di polizia sempre più frequenti e rudi. Ricucire è difficile anche perché, perfino davanti ai migliori tentativi di integrazione, molti afroamericani non riescono a scrollarsi di dosso il risentimento per il peccato originale che ha prodotto questa loro condizione: la deportazione degli avi dall’Africa.
Il pregiudizio
Quanto ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è quasi sempre un sentimento di diffidenza o la tendenza a mantenere le distanze. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Perfino tra neri con molti discendenti dei popoli del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono su un gradino più alto. C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che - anche se pesano povertà, degrado dei quartieri, scuole disastrate - a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.
Speranze e delusioni
Fino a quando gli eccessi degli agenti non provocano rivolte tra i neri e anche nelle coscienze dei bianchi. Le tensioni attuali, iniziate due anni fa dopo l’uccisione di un ragazzo disarmato a Ferguson, fin qui non avevano prodotto incendi paragonabili alle rivolte di Chicago e Tulsa dell’inizio del Novecento (in tutti e due i casi ci furono una quarantina di morti e centinaia di feriti). E nemmeno con quelle degli anni Sessanta: il decennio delle grandi speranze e delle grandi delusioni. Furono quelli gli anni in cui gli Stati Uniti sembrarono a un passo dall’impresa di rimarginare l’antica ferita: John Kennedy che imposta la riforma dei diritti civili mentre Martin Luther King - siamo nel ‘63 - pronuncia davanti a una folla immensa a Washington il suo celebre discorso: «I have a dream».
La boa degli anni Sessanta
Qualche mese dopo Kennedy viene assassinato ma Lyndon Johnson ne completa l’opera: pari diritti alle urne, nelle società, sul posto di lavoro. Nel 1966 viene eletto il primo senatore nero. Nel ‘67 tocca al primo giudice afroamericano della Corte Suprema. E’ anche l’anno di «Indovina chi viene a cena?», l’ironico film con il quale Sidney Lumet cerca di rompere gli steccati sulla questione dei matrimoni misti ormai previsti dalla legge, ma che rimangono ancora un tabù nella società americana. Ma è anche l’anno della rivolta di Newark, alle porte di New York: 23 morti e 700 feriti dopo che la polizia aveva massacrato un tassista nero. L’anno dopo, il 1968, le speranze d una convivenza più serena vengono ulteriormente scosse dall’assassinio di Martin Luther King e dell’altro Kennedy, Robert, lanciato verso la conquista della Casa Bianca.
La paura del futuro
Il leader nero Deray Mckesson, leader di Black Lives Matter |
Le violenze della polizia hanno prodotto negli anni altre rivolte, comprese le due che hanno insanguinato Los Angeles: quella di Watts del 1965 - sei giorni di guerriglia, 34 morti, 1032 feriti e l’intervento della Guardia Nazionale) e quella del 1992 dopo il caso Rodney King (un altro tassista malmenato dalla polizia). Al limite della guerra civile: quando tornò l’ordine sul campo erano rimasti 50 morti e duemila feriti. L’America ora teme che qualcosa del genere possa succedere di nuovo e proprio negli ultimi mesi della presidenza Obama. Il Paese ha più anticorpi - una vera classe dirigente nera capace di mitigare le tensioni com’è già avvenuto a Baltimora dopo i primi disordini successivi all’uccisione di un altro ragazzo nero disarmato. O come è avvenuto a Charleston, in South Carolina, dove non si è registrato alcun incidente dopo che un «suprematista» bianco ha fatto strage di neri in una chiesa. Ma i tempi sono per certi versi più difficili, le circostanze più insidiose. Oggi l’America è un Paese in armi: 300 milioni di fucili e pistole su 320 milioni di abitanti. E la diffusione dei video che provano gli abusi e a volte i crimini commessi da alcuni poliziotti, suscitano ondate d’indignazione. Venti difficili da controllare: c’è spazio per chi, come il killer di Dallas, va alla ricerca di micce alle quali dare fuoco.
Nel 1921 i disordini di Tulsa vennero spenti dopo giorni di guerriglia coi neri chiusi in campi d’internamento. Solo ricerche storiografiche recenti hanno dimostrato che quel conflitto fu assai più cruento, con molti neri massacrati anche da civili bianchi che volavano su di loro in aereo lanciando candelotti di dinamite. Cosa sarebbe successo, già allora in America, se il Paese avesse visto le immagini di quei feroci bombardamenti?
* Fonte: Il Corriere della Sera del 11 luglio
1 commento:
Se una risposta c'è, questa la può dare soltanto la storia: Spartacus.
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