[ 1 luglio ]
Domani inizia a Chianciano Terme l'assemblea seminariale di Programma 101.
Domani inizia a Chianciano Terme l'assemblea seminariale di Programma 101.
E' un'occasione preziosa per tutti i militanti sovranisti rivoluzionari, visti i temi trattati e la qualità dei relatori, di formazione politica e teorica.
Eh sì, perché mai come ora, in questi tempi in cui circolano tanti azzeccagarbugli politici, è valida la massima di un certo Lenin per cui "non c'è azione rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria".
Qui sotto la traccia dell'intervento del compagno Norberto Fragiacomo (BRiM), relatore, assime a Moreno Pasquinelli nella sessione: Crisi sistemica, sollevazione popolare, rivoluzione democratica.
I. Una crisi
estremamente “opportuna” (e pertanto da alimentare)
Da quasi un decennio ci
dibattiamo nella tela vischiosa di una crisi dalle mutevoli fattezze, che si
manifesta con improvvise impennate dello spread
(chi se ne ricorda? Attenzione: potremmo sperimentarne presto di nuove), diktat
di direttori internazionali, morie di imprese considerate floride fino alla
settimana prima. Talvolta sembra chetarsi, quasi volesse incoraggiare gli
“sforzi” fatti da governi diligenti e allineati, ma quando emerge l’esigenza di
piegare opinioni pubbliche non sufficientemente inquadrate torna a ergersi
minacciosa e inesorabile. Soprattutto colpisce a senso unico: precipita i
poveri nella miseria più abbietta, proletarizza il ceto medio, spazza via le
produzioni locali ma regala alle élite
nuove opportunità di arricchimento. La parola «opportunità» non l’ho scelta a
caso: assieme a «giudizio» e – naturalmente – a crisi è uno dei significati che
gli antichi greci attribuivano al vocabolo κρισις.
Cosa intenda dire lo capirete tra breve.
Conosciamo la genesi di
questa crisi economica, quando e dove è nata: figlia della finanza creativa di
Wall Street, esplode negli USA a causa dei mutui spazzatura (2007) e, più in
generale, dell’insostenibilità di un sistema affaristico che pretendeva di
trasformare il nulla in oro. I
principali responsabili sono banche d’affari e professionisti della
speculazione: dopo qualche spettacolare fallimento (pochi), lo Stato americano
corre ai ripari e presta agli istituti enormi quantità di denaro vero – denaro
pubblico. Sarà imitato – non appena il contagio si diffonde oltreoceano – dalla
maggioranza degli esecutivi europei, che per garantire la salvezza alle banche
si indebitano pesantemente. Il debito pubblico cresce ovunque a dismisura, e da
medicina diventa a sua volta patologia da curare. Le colpe dei finanzieri
passano in secondo piano: influenti economisti e autorità cominciano ad
indicare nei debiti nazionali la radice di ogni male. I Paesi indebitati più
gravemente e da più tempo entrano nel mirino: il destino inflitto alla Grecia è
solo l’antipasto di un banchetto riservato a pochissimi. La crisi è anzitutto
un giudizio morale: interi popoli vengono
bollati come mangiapane a ufo, in sostanza come parassiti di un’economia che si
vuole in declino. La cosmesi di bilancio suggerita al governo greco da Goldman
Sachs assurge a delitto collettivo, imputabile - anziché ai consulenti,
capitati ad Atene per caso - ad ogni singolo cittadino ellenico: giornalisti
compiacenti e compiaciuti ostentano stupore per il fatto che “i greci non
capiscano che le responsabilità sono tutte interne al paese[1]”
e che soltanto la generosità di FMI e
Commissione Europea ha permesso alla Grecia di restare a galla. La crisi come
colpevolizzazione, quindi, ma anche come pungolo a determinate “riforme” – cioè
come opportunità. Da almeno un quarto di secolo le riviste economiche
anglosassoni puntano il dito contro il welfare
all’europea: restrizioni sui licenziamenti, sistemi pensionistici pubblici e
servizi troppo generosi farebbero da freno ad una crescita economica che si
postula insufficiente (rispetto a cosa? al decollo cinese, ad esempio, vale a
dire ai tassi di sviluppo di una nazione che negli anni ’70, pur avendo la
bomba, era preindustriale). La disintegrazione dello Stato sociale,
presentataci come una privatizzazione assiomaticamente “benefica”, costituisce,
sin dai primi segni di cedimento dell’URSS, il principale obiettivo dei
potentati economici sovranazionali, che da almeno un quarto di secolo spingono
per una riduzione delle tutele sociali in ogni campo: l’instaurazione, nelle
democrazie europee, di un bipolarismo apparente, ovunque basato su partiti o
coalizioni ideologicamente speculari, ha favorito l’attuazione di politiche di
spoliazione dei ceti popolari, che per i gusti dei patrocinatori, tuttavia, procedevano
troppo a rilento. In Italia, ad esempio, lo spauracchio del maxi debito veniva
agitato ad ogni piè sospinto: il problema è che in una situazione di relativa
floridezza è più difficile giustificare tagli e arretramenti (che pure ci
furono), specie se posti in essere da forze che usurpano una tradizione di
sinistra. La crisi iniziata nel 2007/2008 cade allora a fagiolo, perché crea –
come direbbero i giuristi – una condizione di “urgenza qualificata” che
consente di derogare alle regole del confronto pubblico e di imporre soluzioni
emergenziali in tempi drasticamente ridotti. Per le anime belle l’austerità è
un errore, frutto di miopia: al contrario, essa rappresenta l’alimentazione più
indicata per una crisi che si ha tutto l’interesse a mantenere in vita, visto
che si sta rivelando un eccellente strumento per conseguire gli scopi dell’élite.
In epoche “normali” proteste di piazza come quelle svoltesi in Grecia
nell’ultimo lustro (per non parlare del referendum del 2015) avrebbero
costretto ad una pudica ritirata governi e istituzioni: oggidì non sortiscono
effetto alcuno, sono rumori di fondo.
Per comprendere dove
stiamo andando (dove vogliono condurci) non occorre avere la sfera di
cristallo, né leggere saggi ponderosi: è sufficiente vivere la quotidianità. Dopo decenni di crescita, la speranza di
vita segna il passo, anche perché un italiano su sei rinuncia ormai a curarsi,
a causa del fatto che – complici le continue sforbiciate di bilancio – la
sanità pubblica eroga prestazioni rarefatte a prezzi vicini a quelli di
mercato; i comuni non riescono più ad assolvere ai propri compiti, e vengono
forzosamente accorpati, coi corollari dello svuotamento delle elezioni e della
cancellazione delle identità locali; aumenta, in genere, il costo dei servizi
pubblici, con ripercussioni sulla capacità di spesa delle famiglie, mentre il
“privilegio” del posto fisso – sorta di Atlantide in procinto di sprofondare
nell’oceano del precariato – costerà carissimo ai cinquanta-sessantenni,
condannati ad andare in pensione in età sempre più avanzata e con assegni
ridottissimi. Per i quarantenni la prospettiva è una vecchiaia da indigenti,
per i nati dagli anni ’80 in poi semplicemente la servitù, cui già vengono
convenientemente addestrati in istituzioni scolastiche ridotte a centri di
formazione professionale (non per caso le più recenti riforme impongono stage
gratuiti in azienda agli studenti). Lo scopo è chiaro: drenare il risparmio
delle famiglie che, specialmente in Italia, risulta piuttosto cospicuo.
In sostanza, gli europei daranno fondo alle risorse accumulate dalle
generazioni precedenti per “consumare” servizi essenziali in una società
totalmente privatizzata. Si tratta, in pratica, di lavorare sodo sino alla fine
dei propri giorni, per poi lasciare in eredità all’economia (Stato e fondi
privati) un ragguardevole gruzzolo di contributi versati. Ai giovani andrà
molto peggio: dissoltasi l’eredità dei nonni, condurranno un’esistenza da
precari a tempo indeterminato, senza alcuna prospettiva – a parte quella di un
precoce invecchiamento. Non avranno pensione, l’abbiamo detto, ma neppure casa
di proprietà: abiteranno cubicoli in affitto come gli italiani alla vigilia del
boom economico, con la sostanziosa differenza che non potranno far conto sulla
solidarietà familiare, perché le famiglie si saranno già liquefatte da un
pezzo. Al pari degli operai descritti da Zola, sfrutteranno per divertimenti e acquisti (in centri
commerciali aperti h 24) le domeniche e i pochi giorni festivi, quando sarà
loro concesso di esistere come “consumatori” abbrutiti e rigorosamente low cost. Verranno offerti alle masse
merci ed alimenti adatti ad un pubblico povero, come già avviene negli Stati
Uniti d’America: tra le alternative ai polli al cloro - generosamente
ammannitici dal Ttip caro a mister Obama - e agli hamburger serviti nei
McDonald’s (che soppianteranno definitivamente trattorie e ristorantini non di
lusso) troveranno spazio gli insetti, di cui solerti nutrizionisti magnificano
in anticipo le virtù – tacendo del fatto che la principale consiste nell’infimo
costo di produzione di questo “cibo” da incubo. D’altra parte, se il salario
paga non il lavoro effettuato, ma solamente le risorse indispensabili a
mantenere il lavoratore attivo per tot
anni, la moda di mangiare libellule consentirà ai datori di lavoro gustosi
risparmi. Finché lavorerà, al precario saranno garantite (a pagamento) cure
sanitarie di base, ma non quelle per le patologie più gravi o invalidanti: il
gioco non varrebbe la candela. E dopo? Dopo c’è il camposanto, ammesso che le
multinazionali – che si stanno comprando pianure e territori fertili[2],
con buona pace di chi fantastica di un “ritorno alla terra” – lascino libero
qualche metro quadro.
Che senso ha, ci si
potrebbe chiedere, questo gioco al massacro sociale? Il keynesismo a rovescio
che anima le politiche economiche in atto e annunciate dovrebbe sortire
l’inevitabile effetto di mortificare la domanda aggregata, impedendo quella
crescita del PIL che parrebbe essere, a sentire gli economisti embedded, l’unica alternativa al
declino. D’altra parte, molti commentatori osservano che la ricrescita
economica verificatasi negli Stati Uniti nell’ultimo lustro ha avuto luogo in
assenza di tutele giuslavoristiche, di protezioni sociali e di alti salari: una
volta persuasosi che di risparmiare non vale la pena (poiché l’acquisto di un
immobile non è alla portata di un precario, costretto fra l’altro al
“nomadismo” lavorativo), il cittadino medio si adatterebbe, quasi per forza
d’inerzia, a devolvere l’intero suo reddito al consumo – un consumo povero,
come detto, ma privo di reali alternative. Non è affatto certo, tuttavia, che
il lavoratore europeo si rassegni al nuovo corso con la stessa docilità dello yankee (che dà comunque eloquenti segni
di scontento: si tengano presenti i fenomeni Trump e Sanders, per certi versi
speculari): noi siamo avvezzi a standard di vita più elevati, a ritenere certe
prestazioni un diritto, a non anteporre le esigenze della produzione a quelle
della vita privata – si pensi al sabato festivo e alle ferie, in America
praticamente sconosciute. Saremmo dunque di fronte ad un pericoloso azzardo
dell’élite, che potrebbe non aver valutato correttamente le probabili
conseguenze del suo agire. In fondo, contrariamente a quanto vorrebbero farci
credere, i nostri oppressori sono dei comuni mortali, nient’affatto infallibili
ed anzi capaci, al pari di noialtri, di grossolani errori, senz’altro agevolati
dalla cupidigia che li divora. Ritengo che liberarsi della paura (quella freddamente auspicata da Francesco Starace, manager
di Stato che “fa onore” al proprio cognome) e persino del timore reverenziale
sia indispensabile, ma sottovalutare i nostri avversari sarebbe esiziale. Grazie
ai mezzi illimitati, questa superclasse sovranazionale (ma gravitante intorno a
Washington e Bruxelles) è in grado di assoldare i migliori cervelli in vendita
in ogni campo, dalla scienza all’informazione, dalla “cultura” alla strategia
militare. Che tutti costoro credano nelle virtù salvifiche del PIL è
inverosimile: una riduzione della torta costituirebbe un problema soltanto dal
punto di vista della comunicazione, visto che ad andare in briciole sarebbero
comunque le produzioni piccole e medie (come sta puntualmente avvenendo: è in
atto una gigantesca concentrazione del capitale) e che i tre quarti di mezza
torta sono comunque più appetibili di una pur bella fetta del dolce intero.
Si tratterebbe, in ogni
caso, di una strategia dal fiato corto: l’Europa è ancora oggi il principale
mercato mondiale. Il Capitale guarda però lontano, anche se non fino a Marte e alla
cintura degli asteroidi: la nuova terra di conquista è la Cina, il Ttip non
servirà solamente ad inondare il Vecchio Continente di prodotti dannosi ma dal
prezzo imbattibile.
Carlo Calenda, il nuovo
ministro (renziano e iperliberista: è un’endiadi) dello Sviluppo economico,
chiarisce in un’intervista a L’Espresso[3]
del 2 giugno qual è “lo scopo principale
del Ttip: non la liberalizzazione spinta del commercio tra le due sponde
dell’Atlantico”, bensì “la costruzione di un’area che, nel diventare
economicamente la più grande ed avanzata del globo, possa imporre i suoi standard economici e legali sulle altre economie
mondiali”. Nel mirino c’è il colosso cinese, come lo stesso Calenda
candidamente rivela: “potremo a quel punto (dopo la sottoscrizione dell’accordo
ndr) dire alla Cina: negli ultimi
trent’anni ti abbiamo aiutato a
crescere e a creare una classe media,
facilitando le tue esportazioni. Ora è
tempo che apri i tuoi mercati ai nostri prodotti.” Il Ttip quindi è stato
concepito (anche) come un’arma geopolitica, da realizzarsi obbligatoriamente in
tempi brevi, perché – continua il negoziatore – “se non riusciremo a farlo
adesso, tra 15 anni non ne avremo più la
possibilità e la forza, e i cinesi
si potranno tenere i loro dazi alti e
non fare entrare le nostre merci.”
La strategia è quindi
sufficientemente chiara: creare un unico (super)mercato euro-asiatico,
omologando le condizioni di vita di uno, forse due miliardi di consumatori -
ben lungi dal rimpicciolirsi, insomma, la torta triplica di dimensioni, anche
se tra gli ingredienti trovano posto lombrichi, cavallette e sostanze chimiche.
Alla produzione low cost, su cui ci
siamo già soffermati, se ne affiancherà una di alta gamma, destinata a
minoranze ridottissime ma principescamente ricche e accomunate – da New York a
Pechino, da Mumbai a Francoforte – da gusti e desideri affini. Il trionfo della
globalizzazione, ottenuto togliendo di mezzo[4]
qualsiasi élite nazionale dissenziente, porterà all’Ordine Mondiale ultimo: le
Nazioni Unite del Capitale.
Non dubito
di imbattermi in qualcuno che, lette queste mie note, le bollerà ghignando come
farneticanti elucubrazioni, frutti poco appetibili di una fantasia complottista[5]. Forniscici degli elementi certi!
intimeranno i contraddittori in malafede, ben sapendo che una rigorosa
dimostrazione documentale è nel caso di specie impossibile; altri muoveranno
l’obiezione, in apparenza sensata, che i fatti sono variamente interpretabili,
e che comunque non è giustificato parlare di “regresso” a proposito di un’epoca
in cui diritti umani e diritti civili appaiono al centro dell’attenzione dei
governanti (proprio quest’ultimo dato, in realtà, corrobora la mia tesi).
Qualcuno potrebbe sottilmente osservare che la stessa pubblica “confessione” di
Calenda non prova nulla, dal momento che, secondo la mia impostazione, i
politici occidentali mentono o sono reticenti per scelta strategica[6], e dunque l’accenno alla Cina potrebbe
costituire un escamotage per sviare l’attenzione dalle difficoltà che ci
troveremo ad affrontare in Europa. Fermo restando che il neoministro amplia
l’oggetto della discussione senza negare l’evidenza (anche se non il
principale, “la liberalizzazione spinta del commercio tra le due sponde
dell’Atlantico” è uno scopo del Ttip), rimane il fatto che, sin dai suoi
albori, il Capitalismo è alla perenne ricerca di nuovi mercati e che,
oggigiorno, l’ex Celeste Impero rappresenta, insieme all’India, il boccone più
appetitoso.
In generale,
mi sento di affermare quanto segue: la spiegazione offerta è l’unica in grado
di dare un senso a condotte ed eventi che, se considerati isolatamente e in
maniera acritica, comproverebbero soltanto un’inadeguatezza delle élite
governanti che sconfina nella cecità o nella demenza (si vedano, a mero titolo
di esempio, lo spettacolare aumento dei debiti pubblici italiano e greco sotto
i governi della Troika e le scriteriate, rovinose sanzioni inflitte alla
Russia, costretta a reagire alle provocazioni della NATO in Ucraina e
nell’est). Può un essere umano ragionevole accogliere la versione mainstream
di un’interminabile sequela di “errori” di valutazione che invariabilmente
penalizzano chi sta in basso? La scienza giuridica ha elaborato, nel corso dei
secoli, l’istituto delle c.d. presunzioni semplici, intese come fatti noti da
cui si desume, sulla base di un ragionamento logico, l’esistenza di un fatto ignoto
– sempre a condizione che gli elementi di partenza siano gravi, precisi e
concordanti. Ebbene: gravità, precisione e concordanza sono innegabili, e
suggeriscono – mi ripeto - l’avvenuta elaborazione di una strategia (non di un
piano dettagliato, né tantomeno di un gombloddo da operetta) che
risponde in pieno al desiderio delle classi egemoni di sbafarsi tutta intera la
famosa torta, canditi compresi.
Che qualche
volta poi i membri dell’establishment politico-affaristico occidentale
contrastino fra loro non deve minimamente stupire: al netto dei conflitti
“rappresentati” a beneficio degli spettatori (es. gli innocui capricci di Renzi
a Bruxelles), è inevitabile che in un mondo retto dalla cupidigia gli interessi
di un gruppo interferiscano stabilmente con quelli dei concorrenti, e persino
che occasionalmente le divergenze si manifestino in maniera fragorosa (si veda
la “punizione” della Volkswagen, verosimilmente un monito alla Germania troppo
sicura di sé). Volessimo azzardare un paragone spiacevole, potremmo concludere
che il Gotha capitalistico assomiglia al fenomeno mafia nel suo complesso
(moltiplicato per diecimila), non ad una singola famiglia mafiosa.
Ho alluso,
nel precedente capoverso, ad una rappresentazione: sotto un certo punto
di vista, l’elemento caratterizzante la contemporaneità è proprio
l’appannamento del reale, la sua cosciente falsificazione ad opera dei
professionisti dell’immagine e della parola. Pensiamo alla dicotomia
destra-sinistra, pregna di significato finché era presente in Europa un
agguerrito movimento comunista, ma oggi adoperata per indicare forze politiche gemellate
da una visione della società affine se non identica; alla rivoltante retorica
dei diritti umani, che “loro”, “gli altri” non rispettano e “noi” invece sì
(invito a meditare sul passaggio della requisitoria in cui il Procuratore
generale Rubolino ha clamorosamente paragonato le sorte di Cucchi a quella di
Giulio Regeni[7]); alle rassicuranti banalità su una
“democrazia” oggi messa ai margini in Europa occidentale non meno che in Russia
o in Cina (esempio terra terra: la sostanziale indifferenza nei confronti degli
esiti del referendum sull’acqua del 2011); infine – per evitare di dilungarci
troppo – alla grottesca messinscena sul debito pubblico, spacciato per una sorta
di male incurabile dell’organismo statale.
Evitiamo
fraintendimenti: il debito è sempre un problema con cui confrontarsi, dal
momento che limita la libertà d’azione politica di qualsiasi Stato, per quanto patrimonialmente
solido esso sia (e l’Italia lo è senz’altro, essendo censita fra le prime dieci
economie del pianeta). In cosa consiste tale limitazione? Nell’indisponibilità
delle somme destinate al rimborso dei prestiti, che non possono essere
adoperate per altri fini. Non vi è probabilmente cittadino che non abbia
sperimentato, nel corso della sua esistenza, siffatto inconveniente: quando stipula
un mutuo vincola, di fatto, una quota del suo reddito al pagamento delle rate. Se
il prestito è stato contratto per uno scopo ragionevole (ad es., l’acquisto
della prima casa) non è il caso di dispiacersi troppo, anzi: è grazie al
credito bancario che quasi tutte le famiglie italiane possiedono oggi
un’abitazione e, di conseguenza, vivono meglio delle generazioni d’anteguerra. Diverso
è il caso del consumatore compulsivo, che s’indebita per acquistare un bene
voluttuario - come un Suv BMW o Mercedes – cui altrimenti non avrebbe accesso:
dargli dello sciocco è il minimo sindacale, ma il giudizio non implica di
necessità una prognosi infausta sul suo destino di debitore, visto che in
assenza di eventi straordinari egli sarà probabilmente in grado di onorare
l’obbligazione, magari stringendo la cinghia (e lasciando invecchiare il
macchinone nel box, ammesso che ne abbia uno!). L’insolvenza non è scontata per
un motivo semplicissimo: per quanto la somma presa a mutuo possa superare gli
introiti annui del nostro incauto acquirente di cinque, sei o sette volte essa
non va restituita (con l’aggravio degli interessi) in un’unica soluzione, bensì
– a rate – in dieci, quindici o venti anni. Per l’effetto, asserire che un
debito è insostenibile soltanto perché supera (di poco o di tanto) il reddito
annuo equivale a un’insensatezza: a decretare la messa in mora saranno
eventualità eccezionali, come un licenziamento, un marchiano errore di calcolo
o l’atteggiamento persecutorio di un banchiere alla Montecristo. Per gli Stati
e il loro debito pubblico dovrebbe valere un ragionamento simile: solo un
totale collasso dell’economia, provocato dalla natura o dall’uomo (es.: un ferreo embargo concertato a livello
internazionale), potrebbe condurre all’insolvenza. In linea di principio, il
creditore medio non ha motivo di augurarsi che ciò avvenga, soprattutto se
l’obbligato è un Paese progredito che, come l’Italia, ha sempre versato
puntualmente le rate di debito. Un mutuo elevato non è affatto una tragedia,
specie se buona parte del denaro preso a prestito è stato utilizzato per
arredare la casa comune (fuor di metafora: per costruire lo Stato sociale, che
innalza il suddito a cittadino) e non, invece, per soddisfare la brama di una
fuoriserie (ipotesi: per armarsi fino ai denti in un contesto geopolitico che
non lo impone).
Sono pochi i
cattedratici, oggi, che rifiutano di affibbiare al debito l’etichetta di “male
assoluto”, ma solamente tre decenni fa la loro sicumera avrebbe suscitato,
anche fra i colleghi, incredulità e qualche battuta ironica. Nell’Unione
Sovietica in via di dissolvimento, un economista (assai critico verso il
sistema di allora) non mostrava alcun timore nei confronti del debito: la sua è
una testimonianza che merita riportare.
Al Primo Congresso dei
Deputati del Popolo dell’URSS, tenutosi a Mosca dal 25 maggio al 9 giugno ’89,
l’economista N.P. Shmelev affermò quanto segue: “Nikolai Ivanovic (Ryzkov) dice
di non voler lasciare debiti ai suoi
nipoti. Posso capirlo. Però in questo c’è qualcosa di provinciale. Adesso
tutti vivono, come dire, sui debiti. E non
succederà nulla di irrimediabile, se
ci faremo prestare una certa somma. Come
restituirla? Se vogliamo essere pratici (qualsiasi tecnico delle finanze mi
capisce) adesso nessuno rende più niente. Non
c’è bisogno di rendere. Bisogna soltanto sostenere il pagamento degli interessi
(…)[8]”.
Appunto: bisogna
soltanto sostenere il pagamento degli interessi – ma la quota annua da pagare
(finora, lo sottolineo, sempre pagata) fa molta meno impressione, è molto meno mediatica della cifra di duemila
miliardi e rotti di debito complessivo che, come uno spettro visto da
pochissimi ma da molti evocato, con la sola fama atterrisce (e induce a
qualsiasi sacrificio) gli abitanti del Paese per cui spergiurano si aggiri.
II. Un
Capitalismo “giovanile” (grazie al lifting) e i suoi strumenti di autotutela
contro la montante opposizione popolare
Appurato che
l’èlite transnazionale sa utilizzare con abilità tutti i mezzi di
comunicazione, resta anzitutto da domandarsi se essa conservi quella spinta
propulsiva all’innovazione che Karl Marx le riconosceva, sinceramente ammirato,
un secolo e mezzo fa. La risposta non può che essere di segno negativo:
l’offensiva a cui stiamo assistendo è volta non già a “reinventare” rapporti di
produzione superati, bensì a riappropriarsi di quei margini di profitto cui
nella seconda metà del dopoguerra la crème è stata – dalle circostanze –
parzialmente costretta a rinunciare. La c.d. rivoluzione neoliberista è una
controrivoluzione a tutti gli effetti, perseguendo lo scopo di cancellare le
conquiste sociali del ‘900 per resuscitare un “paradiso perduto” di stampo
ottocentesco (supremazia incondizionata del Capitale sul Lavoro). E’
indiscutibile che la classe dominante si sia evoluta – come previsto ne Il
Capitale -, dimostrando notevoli capacità di superare i numerosi ostacoli
disseminati sul suo cammino dalla storia recente, ma gli stupefacenti giochi di
prestigio finanziari inscenati nelle ultime decadi e il progressivo passaggio
da un imperialismo nazional-militare ad uno “privatizzato” di matrice economica
(che non disdegna però di far scendere in campo gli eserciti) non può celare il
dato che il grande imprenditore si è ormai trasformato in rentier, anche
se si tratta di un rentier più dinamico e spregiudicato di quello
intravisto da Marx. Lascio ai competenti in materia analisi e considerazioni
sulle attuali tendenze del tasso di profitto: che il reddito dei top manager
contemporanei sia basato solo in minima parte sui successi produttivi aziendali
è tuttavia un dato ben noto anche ai profani. Una classe davvero rivoluzionaria
non potrebbe che approfittare dello strabiliante progresso tecnologico verificatosi
negli ultimi decenni, avviando senza indugi una progressiva sostituzione di
operai e impiegati con robot “intelligenti”, ma una scelta siffatta ucciderebbe
i profitti, rendendo poco conveniente in generale la produzione di beni e
servizi, senza la quale, purtuttavia, l’impalcatura finanziaria crollerebbe
come un castello di carte. Più probabile, dunque, che l’ipotetica concorrenza
di automi pensanti venga brandita come un (ulteriore) argomento di pressione
nei confronti dei lavoratori in carne e ossa, forzati ad acconsentire – pur di
salvare il posto – a un nuovo peggioramento della loro condizione[9].
Preso atto
che gli odierni “riformisti” sono conservatori della peggior specie[10],
rimane sul tavolo la seguente questione: vi sono attualmente le condizioni per
un superamento del Capitalismo oppure – come sosteneva Giorgio Ruffolo in un
celebre saggio – il sistema ha “i secoli contati” (è cioè un anziano con una
vita ancor lunga davanti)? Da un punto di vista strettamente oggettivo, i
presupposti per un ribaltamento dei rapporti parrebbero esserci: le
potenzialità produttive dell’industria mondo sono oggidì infinitamente
superiori a quelle dell’epoca in cui visse Marx, e basterebbero a garantire
un’esistenza decente, se non agiata, a ciascun abitante del globo. Secondo gli
studiosi, tuttavia, a far difetto sarebbero le condizioni soggettive: la classe
chiamata al compito rivoluzionario semplicemente non esiste, frammentata
com’è in innumerevoli sottocategorie se non, addirittura, in un’infinità di
singoli individui. Questo anche a non tener conto del fatto che il filosofo di
Treviri assegnava un ruolo significativo al “direttore di fabbrica”, assurto
invece a membro di una classe egemone che ha esibito – almeno fino al termine
del secolo scorso - doti seduttive non comuni nei confronti di larghi strati
della popolazione lavoratrice.
Va detto che
la figura del capitalista charmant, la fascinazione inclusiva
appartengono al passato: l’esigenza di riprendersi tutto e subito non tollera
l’intralcio delle buone maniere. Come ho già osservato, non si punta più a
persuadere il cittadino che gli arretramenti sono “per il suo bene”, si
preferisce mettere sbrigativamente la vittima con le spalle al muro. Negli
ultimi anni il messaggio alle masse di governanti e autorità è mutato sia nei
contenuti che nel tono, e suona adesso pressappoco così: o vi adeguate o
saranno guai (ci sarà la guerra, perderete il diritto all’assistenza, i vostri
figli resteranno senza lavoro ecc.)! Dato che salvare le apparenze è ormai
impossibile, si ricorre all’intimidazione nei confronti di chi, per quotidiana
esperienza, non può più ingannarsi sulla reale natura delle politiche in atto.
Al
diffondersi negli strati sociali medio-bassi di quella paura cieca che
paralizza la preda e la pone alla mercé dell'aggressore si presta mirabilmente
la sovraesposizione mediatica del terrorismo islamico e della sua manovalanza
barbuta, delirante e aliena. La presenza di sigle come l'IS
"giustifica" altresì una drammatica riduzione delle libertà civili,
che si ripercuote più sui cittadini indignati che sui bombaroli (si pensi alle
norme contro i manifestanti varate dal franchista Aznar in Spagna), e la spesa
di ingenti risorse per munire soldati e forze speciali di equipaggiamenti
avveniristici, adatti più a fronteggiare le sommosse urbane che un nemico
convenzionale. I fantaccini di centocinquanta anni fa, con i loro fucili
monocolpo, si trovavano spesso a malpartito nelle strade; un manipolo di
"supersoldati", capaci grazie alla tecnologia di prestazioni sovrumane[11], incontrerebbe difficoltà assai minori nel
tenere a bada la folla.
La cronaca di questi ultimi mesi ed in particolare le note
vicende d'oltralpe[12] testimoniano però il crescere della consapevolezza e
dell'opposizione civica alle politiche vessatorie dell'élite. Assistiamo, dopo
gli scioperi greci (e il NO tradito al referendum dell'estate scorsa), dopo la
mobilitazione degli Indignados iberici, a un moto popolare che segna un
autentico salto di qualità: in Francia studenti e lavoratori uniscono le forze
per contrastare il disegno dell'esecutivo "socialista" (in verità
iperliberista e prono ai desideri della grande impresa) di mettere fuori gioco
il contratto collettivo nazionale e facilitare i licenziamenti. Lo sciopero a
oltranza, condito da picchettaggi e manifestazioni quotidiane, assomiglia
pochissimo alle “scampagnate” più o meno pacifiche (ma sempre una tantum)
cui ci ha abituato il nuovo millennio: questa forma “antica” di lotta può
ancora ottenere risultati apprezzabili ove coinvolga varie categorie e
interessi settori strategici dell’economia. E’ troppo presto per dire se la
protesta francese avrà successo, ma già il fatto che i media denuncino la
“paralisi” del Paese (oltre a scontri tra polizia e scioperanti non
assimilabili ai sempre graditi “facinorosi” in nero[13]) indica che è stata imboccata la via giusta, resa più
agevole dal convinto appoggio alle dimostrazioni assicurato dai giovani e
giovanissimi della “notte in piedi”. Accennavo prima ad una crescita della
consapevolezza: oltre a saper dialogare benissimo con i loro coetanei stranieri
(greci, tedeschi, spagnoli ecc.), gli studenti transalpini si dimostrano
sorprendentemente impermeabili alla manipolativa narrazione mediatica e assai
più critici verso il sistema di quanto non fossero i precursori spagnoli, non
sempre capaci di vedere al di là della loro “casta” partitica[14]. Sentire dei ventenni che, intervistati, sostengono senza
mezzi termini che l’esecutivo Valls-Hollande è “di destra”, che quello del
terrorismo è un falso problema, utile a sviare l’attenzione dal massacro dei
diritti in atto[15], che – addirittura – il
sistema capitalista andrebbe abbattuto suscita impressione in chi ascolta,
indipendentemente dal fatto noto che il popolo francese è molto più combattivo,
cosciente e fiero di quello italiano (ce lo insegna la Storia).
D’altro canto non è
lecito sostenere che la protesta transalpina sia un episodio isolato, o merito
esclusivo di una gioventù “eccezionale” e di un sindacato che, a differenza
delle confederazioni italiane, non si è adeguato alle “moderne” logiche
concertative[16]: cresce in
ogni angolo del continente l’opposizione a sfacciate politiche classiste,
apertamente dettate da un’Unione Europea che solo i propagandisti, oramai, si
ostinano a identificare con l’Europa. Il grande inganno è stato scoperto: la UE
è nient’altro che un gigantesco comitato d’affari al servizio delle maggiori
lobby capitaliste (per essere precisi: una stanza di compensazione degli
interessi delle multinazionali e dell’èlite economica degli Stati “forti”), e
come tale si comporta. In particolare, la gestione omertosa delle trattative
sul Trattato transatlantico e il palese disinteresse per le violazioni, ad
opera di alcuni governi, del principio della libertà di circolazione delle persone (a fronte della faccia feroce
mostrata da Commissione e Corte di Giustizia ogniqualvolta ci si azzarda a
mettere timidamente in discussione la circolazione di servizi e capitali, cioè
la “sostanza”) hanno aperto gli occhi a una vasta platea di ingenui, fino a
ieri persuasi che l’Europa fosse, malgrado tutto, un’affidabile garanzia contro
il dilettantismo vorace delle classi politiche nazionali. Un arbitro severo ma
giusto? No davvero: un giocatore scorretto, ipocrita e spietato.
Primo,
dirompente effetto concreto di questa
presa di coscienza è l’affermazione di misura (52%) del Leave nel referendum britannico del 23 giugno[17],
che mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della UE, dal momento che
potrebbe innescare una reazione a catena (pare che anche l’Olanda abbia velleità
di fuoriuscita). Il messaggio lanciato da inglesi e gallesi è che l’appartenenza
all’Unione non è un destino
ineluttabile, una condanna all’ergastolo: non meravigliano, dunque, gli
immediati attacchi del terrorismo finanziario alla sterlina (e all’euro) e gli
spettacolari maremoti in borsa, tesi soprattutto a dissuadere gli altri popoli
europei dal commettere il medesimo, deleterio “errore” in un futuro vicino. Colpirne
uno per educarne ventisette - è lo schema Grecia 2015, attuato però nei
confronti di uno Stato incomparabilmente più forte, che ha conservato la
propria moneta e riveste un rango assai elevato nella gerarchia informale
dell’Alleanza Atlantica: osserviamo perciò con attenzione i prossimi sviluppi, cercando
di trarne utili ammaestramenti e tenendo altresì presente che un’ipotetica
secessione dal Regno Unito di Scozia e Ulster (che hanno votato per il Remain) rischia di incrinare il rapporto
simbiotico tra UE e NATO, o almeno di certificare la sudditanza della prima nei
confronti della seconda.
Qualcuno
proverà a minimizzare la portata della Brexit, asserendo che il regno isolano,
per una congerie di motivazioni storiche, non si è mai sentito davvero parte della
c.d. Europa Unita. Ora, sarà anche vero che l’isolazionismo vanta solide radici
in Inghilterra, nondimeno la Gran Bretagna godeva, nell’ambito dell’Unione, di
un’autonomia pressoché totale, avendo conservato la sterlina, ridotto il
proprio contributo annuo in deroga alle regole vigenti – per gli altri – e
strappato, nelle recenti contrattazioni, ulteriori condizioni di favore tali da
rafforzarne lo status di membro privilegiato[18]:
insomma, in assenza di concrete ragioni per abbandonare, il voto
“indipendentista” di una metà abbondante dei cittadini segnala anzitutto un
atteggiamento di rifiuto nei confronti di un’istituzione oggetto di antipatia e
sospetti anche da parte di coloro cui le circostanze le impediscono di recar
danno.
Alla perdita
di credibilità di una UE in irreversibile declino fa riscontro l’estrema impopolarità delle
forze politiche (specie di quelle sedicenti progressiste) che ad essa si
avvinghiano. La sottrazione dei diritti sociali in nome della produttività e
della “promozione della concorrenza” (che Renzi ha inserito a forza nel Titolo
V della Costituzione repubblicana) non è più compensabile con la moneta falsa
dei diritti civili[19], che al
sistema non costano nulla e consentono talvolta l’apertura di nuovi mercati di
nicchia[20]:
a chi stenta ad arrivare a fine mese interessa poco dei matrimoni omosessuali,
che comunque restano l’estremo rifugio di politicanti farabutti[21].
Gli apologeti
dell’Unione pubblicizzano adesso il loro prodotto con diminuito entusiasmo,
senza rinunciare a vacui appelli agli Stati Uniti d’Europa (che, a parte la
Boldrini, nessuno si augura) e ad un omaggio di prammatica al “vate” Spinelli
che, al netto delle mistificazioni, auspicava la nascita di un super-stato
continentale a economia di mercato.
Dicono in sostanza: è
vero, l’Unione è piena di pecche (di solito si soffermano su quelle secondarie,
glissando sulla totale assenza di democrazia interna e sull’asservimento agli
interessi statunitensi), ma, se non ci fosse, la situazione politica ed
economica del continente sarebbe incomparabilmente peggiore. Più che addurre
delle prove, affermano l’impossibilità di affrontare e gestire le sfide della
contemporaneità a livello locale. Non si tratta solo del terrorismo islamico:
l’establishment cerca di sfruttare a proprio favore anche fenomeni
interconnessi come l’ondata migratoria e la crescita nei paesi europei della
destra c.d. populista e xenofoba.
Senza esserne
consapevoli, gli immigrati hanno “virtù” inestimabili: consentono al politicume
uno sfoggio di umanità a buon mercato, penalizzano i lavoratori europei
accontentandosi di salari più bassi[22]
e andando a infoltire le schiere dell’esercito di riserva, si inseriscono nelle
comunità come corpi estranei, favorendone la disgregazione; infine, catalizzano
su di sé l’odio e la rabbia degli autoctoni, vittime al pari di loro della
politica predatoria dell’èlite. Se combattono contro il sistema lo fanno a modo
loro, magari arruolandosi nell’IS: la loro stessa presenza, dunque, osta al
sorgere di una resistenza popolare di massa.
Per questa somma di
ragioni le istituzioni europee favoriscono l’ingresso di profughi e migranti:
certo, la situazione potrebbe sfuggire di mano – come capitò all’imperatore
romano Valente 16 secoli fa – ma, agli occhi dei dominanti, il gioco vale la
candela.
Altri alleati a loro
insaputa del ceto egemone sono i partiti nazionalisti di destra, che ovunque
aumentano i consensi ma poi, alla prova dei fatti, soccombono a raffazzonate
alleanze sistemiche che proprio la sussistenza di un (presunto) “pericolo per
la democrazia” va a legittimare. In pratica formazioni come il FN contribuiscono
involontariamente, per il momento, a tenere in piedi un sistema marcio, che si
presenta all’elettorato come un argine alla deriva populista e, nello sconforto
generale, si erge a poco credibile paladino di quei valori che esso medesimo ha
calpestato e calpesta. I motivi per cui la nuova destra ha successo
costituiscono anche il suo limite: l’analisi schematica si traduce in parole
d’ordine che proprio per la loro rozzezza fanno breccia[23],
ma galvanizzano più che convincere masse allo sbando, suscitando al contempo la
ripulsa dei nostalgici della politica delle buone maniere. Va detto che
aumentano i consensi non soltanto i nazionalisti, ma anche formazioni ad essi
non accostabili[24], e che non
meno degno di nota è l’affermarsi di un astensionismo di tipo nuovo,
espressione non già di qualunquismo, bensì di un diffuso rigetto nei confronti
di un modello di società sperequata e irriformabile.
E se gli Hofer e le
Marie incominciassero a trionfare sul serio? Difficile dire che accadrebbe, ma
ritengo che un accordo fra vecchi e “nuovi” non sarebbe irraggiungibile, un po’
perché storicamente i fascismi sorgono e si sviluppano col supporto del
Capitale (di quello locale e nazionale però!), molto perché, di conseguenza, il
loro progetto autoritario non contempla la liberazione del lavoro e
l’accantonamento della logica del profitto. Manovalanza erano e manovalanza
restano, malgrado i proclami pseudo rivoluzionari.
In ogni modo, l’Unione
Europea sarà scossa nei giorni a venire da violente turbolenze: la crisi ha
inciso in profondità, gettando sul lastrico un vasto numero di produttori prima
benestanti, e oramai solo chi è a libro paga dell’establishment può desiderare
che le cose continuino ad andare avanti come stanno andando.
Naturalmente questa
confusa smania di cambiamento potrebbe portare ad inquietanti arroccamenti
nazionali o esplodere in sanguinose e sterili sommosse – ma anche evolversi in
un anelito rivoluzionario capace di immaginare un nuovo patto sociale, nuovi
diritti e nuova solidarietà tra europei accomunati da due millenni di
fruttifera convivenza.
III. Che fare? E con chi
farlo?
Come mi figuro
l’implosione dell’Unione Europea, la messa sotto scacco del suo suggeritore
occulto (la NATO americana), la defenestrazione del ristretto gruppo di
parassiti che prospera alle nostre spalle?
Potessi scegliere,
vorrei partecipare ad uno sciopero insurrezionale di dimensioni inaudite, con
decine di milioni di cittadini in strada dal Tevere alla Vistola, da Lisbona
alle città dei Balcani: significherebbe la paralisi del sistema.
Visto che però non sto
scrivendo il seguito de “La Rivoluzione di settembre”[25]
ma sono impegnato in un’analisi, sia pure a largo raggio, tocca confrontarsi
con la realtà - e la realtà ci dice che una rivoluzione continentale è evento oggigiorno
altamente improbabile. Primo dato: i moti cui abbiamo assistito e assistiamo rivelano
uno schietto carattere nazionale, pur non essendo affatto improntati a un
becero nazionalismo. La precisazione
è rilevante, poiché segnala l’immensa distanza che separa questi fenomeni (Nuit debout, Indignados, ma alludo anche alla mobilitazione per il referendum
ellenico della scorsa estate) dalla protesta elettorale incarnata dalla nuova
destra, inetta per sua natura a formulare proposte di rottura in campo
economico-sociale. Mettiamola così: si afferma una protesta “di sinistra” (di
sinistra perché improntata a valori di solidarietà, eguaglianza e alla difesa
arrabbiata dei diritti sociali) in paradossale concomitanza con il tracollo
nelle urne dei partiti che avrebbero dovuto guidarla, e restano invece tagliati
fuori, essendosi ridotti a salmodiare slogan che andavano bene tre-quattro
decenni fa.
Moti nazionali, dunque,
ma allo stesso tempo inclusivi: la
piazza parigina ospita compagni greci e spagnoli, nel giugno di Atene si
parlavano tutte le lingue del continente ecc. Il limite di queste inebrianti esperienze è scritto nel loro DNA di
movimenti spontanei, non organizzati: nascono, si irrobustiscono ed
eventualmente declinano ciascuno per conto suo, senza contatti con l’esterno
che non siano episodici. Accennavo ad Atene 2015: molti attivisti visitarono la
capitale greca in quei giorni, solidarizzando concretamente con il Popolo
ellenico, ma se negli altri stati si fossero susseguiti scioperi d’appoggio e contro
il ricatto finanziario forse – dico
forse – la pressione sul debole esecutivo Tsipras sarebbe stata meno
formidabile, e il 60% e rotti di ΟΧΙ non sarebbe stato
ignobilmente tradito.
Il fatto è che tutti
(greci, spagnoli, francesi, portoghesi ecc.) scendono in strada per ragioni simili, ma non identiche, e ciascun
movimento combatte la propria peculiare battaglia. Facciamo l’esempio del jobs act in salsa francese: lavoratori e
studenti d’oltralpe si sono sentiti defraudati da uno Stato fino a ieri
generoso, e di cui si fidavano – la risposta è stata decisa, e per un italiano
strabiliante. Nella Penisola, un analogo atto di violenza contro i diritti dei
cittadini-lavoratori ha suscitato sommessi mugugni e una maratonina romana: in
pratica, nessuna reazione. E’ vero che da noi i sindacati rimasti tali sono
entità piccolissime (USB, Cobas…), ma sudditanza delle confederazioni, ignavia
e l’inafferrabile concetto di “carattere nazionale” non bastano a spiegare ogni
cosa. Azzardo un’ipotesi: forse, per quanto riguarda il lavoro, gli italiani
sono più di bocca buona rispetto ai francesi, si accontentano di averne uno,
anche se non adeguatamente garantito. Siamo dunque geneticamente amorfi? Non
tutti e non sempre: rammento la grande mobilitazione del 2011 per il referendum
sull’acqua pubblica e quella – duratura, anche se localizzata nel settentrione
– per dire no alla TAV[26].
Ricaviamo da questi esempi una particolare sensibilità nei confronti
dell’ambiente e dei c.d. beni comuni; più in generale, i connazionali mostrano
grande affetto per la Costituzione repubblicana[27],
che non a caso Bersani si compiaceva di definire “la più bella del mondo”
(sciovinismo da provinciale, ma indicativo di un modo di sentire diffuso).
Poniamo che si riesca ad
aggregare moltitudini intorno alla salvaguardia della Carta fondamentale
(esporrò nel prossimo capoverso la mia proposta sul tema): quale scopo ci si
dovrebbe prefiggere? L’incitamento a una rivoluzione socialista cadrebbe nel
vuoto: saremmo presi per dei visionari fuori dal mondo. Uno degli argomenti
dibattuti a Chianciano è l’attuabilità di una rivoluzione democratica: come dobbiamo interpretare questa formula?
Non nel senso classico di rivoluzione borghese: l’unico ceto parassitario da
mandare a casa oggi è quello di cui fanno parte Lapo Elkann e Marchionne… ma
questo ci riporterebbe alla rivoluzione socialista, che - come abbiamo
riconosciuto – al momento è un “prodotto” non assistito da domanda. Uno spunto
prezioso ci viene offerto da un’opera pressoché dimenticata, scritta da Dante
Livio Bianco (“Livio”), un comandante partigiano di Giustizia e Libertà.
A
pagina 20 di “Guerra Partigiana”[28]
l’autore così si esprime: “I fatti l’hanno poi dimostrato, dando ragione a
coloro che vedevan la guerra di liberazione non come una guerra fra stati, fra
«nazioni» e «potenze» e «governi» in conflitto, ma come una vera guerra civile,
una guerra ideologica e politica
quant’altre mai, una guerra destinata
(…) a gettare le basi per un ordine nuovo
politico e sociale (…) niente apoliticità delle formazioni, ma anzi, necessità assoluta di una coscienza
politica, d’una consapevolezza delle
ragioni profonde della lotta e degli obiettivi veri da raggiungere (…) che si compendiavano, per noi, in due parole: rivoluzione democratica.” Dal memorandum sottoscritto il 7 agosto
’44 a Villa Pesio dai comandanti partigiani di GL e di alcune formazioni
autonome estrapoliamo passaggi illuminanti[29]:
“Siamo perciò contro la dittatura della
reazione (grosso capitale, alta finanza, agrari, militaristi ecc.) non meno che contro
quella del proletariato o di qualsiasi altra classe o gruppo. Lottiamo per l’instaurazione di una sana
democrazia, colla salvaguardia piena della libertà, il rispetto della dignità
umana, l’abolizione di qualsiasi privilegio, il conseguimento della giustizia sociale (…)”. Ecco la proposta
rivoluzionaria democratica e dichiaratamente NON socialista di Giustizia e
Libertà: possiamo accoglierla e farla nostra, pur in un quadro storico senz’altro
mutato? Io onestamente sottoscriverei i suoi contenuti, anche perché – come
dimostrarono con le loro azioni gli estensori del documento – non si trattava
di vuote parole. Ma c’è anche un’altra considerazione da fare. In un
bell’articolo dedicato al “socialismo” di Bernie Sanders[30],
il saggista americano William Blum riporta un gustoso aneddoto: “Mark
Brzezinski, figlio di Zbigniew, era un docente della Fulbright[31]
a Varsavia alla fine della guerra fredda: «chiesi ai miei studenti di definire
la democrazia. Aspettandomi una
discussione sulle libertà individuali e le istituzioni autenticamente elette
(cioè sul ciarpame che viene spacciato per democrazia, ndr), fui sorpreso nell’udire i miei studenti rispondere che per loro democrazia significa l’obbligo per il
governo di mantenere un certo standard di condizioni di vita e di fornire cure
sanitarie, educazione e alloggi per tutti. In altre parole, socialismo.» E’ questa la democrazia per cui vale
la pena battersi e fare una rivoluzione con o senza aggettivo? Opino di sì,
persuaso che tanto Sanders (che è un socialdemocratico nel senso più nobile del
termine) quanto “Livio”, se vivesse ancora, sarebbero d’accordo. Ma il prezioso
Will Blum[32]
aggiunge un elemento di cui dobbiamo assolutamente tener conto: “ogni miglioramento del sistema deve iniziare
con un forte impegno per ridurre radicalmente, se non eliminare completamente,
la logica del profitto[33].”
Sintetizzo il mio pensiero: in un mondo dolorosamente assoggettato alla “dittatura
della reazione (grosso capitale, alta finanza, militaristi” – lasciamo perdere
gli “agrari” assai meno influenti rispetto all’anteguerra) la prospettiva di
una rivoluzione democratica potrebbe attrarre lo strato cosciente delle masse
popolari in difficoltà, che costituisce oggidì, a parere di chi scrive, l’unica
“classe rivoluzionaria” potenzialmente disponibile. Quest’ipotetica rivoluzione
non potrebbe che condurre – gradualmente - verso una società di tipo socialista,
per il semplice motivo che la “logica del profitto” appare in insanabile
conflitto con quella, ben tratteggiata da Bianco, che sta alla base di
un’effettiva democrazia. Non piace il termine “socialismo”? A me piace, ma poco
importa, facciamone a meno: in fondo, nomina
sunt consequentia rerum, non viceversa.
Il quesito essenziale da
porsi è il seguente: c’è da qualche parte un modello che possa fare al caso
nostro? La risposta è affermativa, e ci riporta alla Costituzione del ’48. Il
rifiuto del profit motive è
lapidariamente scolpito negli articoli 41 e 42 della Carta, in cui leggiamo che
l’iniziativa economica privata, pur libera, “non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana” e che la tutela dello stesso diritto di proprietà non è
assoluta, ma serve ad assicurare la funzione sociale di quest’ultima e a
renderla accessibile a tutti. Brzezinski direbbe che questo è “socialismo”, per
il sottoscritto si tratta di un fondamentale punto di partenza. La Costituzione
contiene numerosi altri principi che, ove messi in pratica, plasmerebbero una
società antitetica rispetto a quella verso la quale rapidamente scivoliamo:
penso al riferimento alla salute come “fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività” (art. 32); al diritto per “capaci e meritevoli,
anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34),
con ciò che ne consegue sotto il profilo dell’innalzamento sociale; ai “mezzi
adeguati alle esigenze di vita” da fornire a pensionati, invalidi, disoccupati
(art. 38); ancora, al diritto ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente a
garantire” al lavoratore e ai suoi cari “una esistenza libera e dignitosa”
(art. 36), indipendentemente dalle fumisterie pseudoscientifiche del
neoliberismo imperante. L’opportunità di “tornare alla Costituzione” e brandirla
come arma di lotta ci viene offerta, su un piatto d’argento, dalla cricca
renziana, che ha arrogantemente voluto un referendum cui, dopo il disastro
delle amministrative, si presenterà con le ossa rotte. Mi si obbietterà che la
riforma Boschi non tocca la prima parte, da cui ho estratto gli articoli citati:
di modificarla, d’altro canto, non avevano soverchio bisogno, visto che il
combinato disposto del nuovo articolo 81 (quello che obbliga all’equilibrio di
bilancio) e del nuovissimo articolo 117 (che pone la UE sopra la Costituzione,
e incarica il legislatore di “promuovere” la concorrenza, creando un mercato
ovunque vi sia domanda) suggellerà la già avvenuta abrogazione di fatto dei principi fondamentali e delle tutele
contenute nei primi quattro titoli, una “abrogazione” che ha incontrato scarsa
opposizione da parte della Consulta. Faccio notare che l’occasione è troppo
propizia per non essere colta, e che quindi conviene alzare la posta,
approfittando del nervosismo dell’avversario per prenderlo in contropiede, veicolando
attraverso i comitati l’idea che l’unica maniera di salvare la Carta sia quella
di attuarla integralmente, sterilizzando tutte le norme europee ed
internazionali che risultino con essa incompatibili. Scrissi, sette anni fa, che si poteva costruire “un Socialismo a
Costituzione (quasi) invariata”: permango di quest’avviso, e sottolineo che
quella regalataci dal referendum è forse l’ultima occasione di riscatto. Non
sottovaluto le difficoltà: il tempo è poco, e il fatto che a moltissimi
cittadini stia cadendo la benda dagli occhi non comporterà automaticamente una
disponibilità alla lotta. Comprendere non equivale ad agire (si pensi all’asino
de “La fattoria degli animali”, che alla fine, comunque, una posizione
l’assume), ma dev’essere chiaro a tutti che, nella presente situazione, la
passività non garantisce alcun trattamento di favore.
Concludo con due rapide
riflessioni.
La prima riguarda i
“compagni di strada” nella lotta[34],
che nella migliore delle ipotesi sarà aspra (ma che potrebbe anche non esserci,
e sarebbe peggio). Mi viene in aiuto ancora Livio Bianco, che nel suo libro
racconta gli esordi dell’avventura partigiana. Dopo l’8 settembre la IV Armata
italiana, in fuga dalla Provenza, si riversa in Piemonte: l’autore, Duccio
Galimberti e pochi altri – professionisti, maestri e commercianti che non hanno
mai preso un’arma in mano – si rivolgono ai comandi militari chiedendo di
partecipare alla resistenza contro i tedeschi. Gli ufficiali di professione
trasecolano: cosa vorrà mai questo pugno di esaltati? Il Regio Esercito si
liquefa senza sparare un colpo, abbandonando mitra, fucili e carri armati L3; i
primi a mettersi in borghese sono i generali e i colonnelli. La delusione è
enorme, ma presto i nostri avvocati impareranno l’arte della guerra, da soli. Perché
ricordo questa vicenda? Perché il CLN di allora si costituì senza alcuna
collaborazione da parte dell’Italia “ufficiale”, troppo impegnata a pararsi il
sedere: furono soprattutto l’ardimento di singoli individui e l’efficienza di esigue
formazioni politiche temprate dalle persecuzioni e dalla clandestinità a
rendere possibile la riscossa. Oggi i partiti sono ridotti a conventicole o a
comitati elettorali, e lo stesso vale per i maggiori sindacati: pensare di
coinvolgerli in un Comitato di Liberazione Nazionale contro UE, NATO ecc. è
utopismo puro. Ha senz’altro più senso dialogare con qualche politico
indipendente (mi viene in mente de Magistris, che ha trionfato a Napoli) e con
i 5Stelle, che però si stimano autosufficienti, e i cui esponenti di punta sembrano
proclivi a una politica di compromesso col potere economico-finanziario (si
pensi agli incontri di Di Maio che, pur restando per il momento contrario
all’euro, riabilita con dolci parole l’Unione Europea[35]…
il che è come dire: sono ostile allo sfruttamento degli operai, ma gerarchie di
fabbrica, lavoro salariato e profitto non si toccano!). Per farla breve: il CLN si fa innanzitutto coi cittadini
consapevoli, singoli e associati, e se non si riesce ad “arruolarli” tutto è
perduto, al di là del numero di sigle che si sarà capaci di mettere
insieme.
Ultimissima annotazione:
sarei strafelice se ciascun popolo decidesse di combattere la propria specifica battaglia, perché ritengo che
l’alternativa sia non già una rivoluzione continentale (che rappresenterebbe
ovviamente l’optimum), bensì
un’inerzia rotta, di tanto in tanto, da controllabilissimi scoppi di rabbia
collettiva, che ci riporterebbero forse all’età dei pogrom. Per avere qualche
speranza di riuscita, tuttavia, le insurrezioni dovrebbero scoppiare quasi
contemporaneamente, o per lo meno alimentarsi e sorreggersi l’un l’altra: sono
quindi indispensabili forme di coordinamento sovranazionale, che nell’era di
internet e dei collegamenti aerei sono facilmente realizzabili, ove non faccia
difetto la volontà. L’esempio ci viene ancora una volta dal passato: i
partigiani piemontesi si proponevano di cacciare l’invasore dall’Italia, ma
collaborarono strettamente con i maquis
francesi; un secolo prima, uomini come Garibaldi e Jòzef Bem abbracciarono la
causa di popoli di cui a stento capivano la lingua.
A cose fatte ciascuno
potrà anche scegliere di andare per la sua strada o, più ragionevolmente, si
potrà optare per un processo di progressiva integrazione su base volontaria e
democratica – ciò che mi sento di escludere è che vi siano popoli e Paesi in
grado di fare tutto da soli. Il sistema ha risorse sufficienti a schiacciare senza
affanno proteste e sollevazioni isolate: la mestissima conclusione di quel
miracolo chiamato ΟΧΙ sia di monito per noi
tutti.
NOTE
[2] Dalla Croazia rimbalza la notizia che il premier (sfiduciato
per fortuna dopo appena 5 mesi, malgrado l’interessata difesa d’ufficio degli
europarlamentari croati) Orešković, manager di una multinazionale farmaceutica
attualmente nelle vesti di politico “riformista”, avrebbe offerto all’americana
Monsanto - produttrice del glifosato, ma, stando al sito web, paladina degli immancabili diritti umani -10 mila ettari di
terra in Slavonia. L’Europa come l’America latina: è solo questione di tempo. http://www.dnevno.hr/planet-x/hrvatska-probudi-se-oreskovic-planira-slavoniju-dati-monsantu-korporaciji-koja-ubija-ljude-910123
[3] L’articolo di Federica Bianchi si intitola
significativamente Patto avvelenato (pagg. da 12 a 19 della rivista).
[4] Con guerre economiche, rivoluzioni colorate ecc.
[5] L’accusa di “complottismo”
fa il paio con quella, ultimamente assai in voga (a sinistra), di
“rossobrunismo”: è comodissima, perché nel dibattito pubblico rovescia di fatto
l’onere della prova, esimendo chi la rivolge dal fastidio di entrare nel merito
delle questioni. Come scrissi nel mio “Invito al Socialismo” (del 2009), i
regimi capitalistici non hanno nessun bisogno dei gulag per tacitare gli
oppositori, potendoli ridurre al silenzio con la squalifica sociale e il
dileggio.
[6] Ma – sempre per scelta
strategica – talora dicono brutalmente il vero, o perlomeno quello che pensano
(v. certe dichiarazioni sulle Costituzioni dell’Europa mediterranea eccessivamente
“socialiste” e perciò da modificare), quando ritengono che ciò possa risultare
utile ai loro scopi. Osservo che se fino a qualche anno fa nel messaggio
pubblico prevalevano le blandizie - ricordiamo i “ristoranti pieni” di
Berlusconi e gli altri suoi messaggi ottimistici – oggi si preferisce ricorrere
a rimproveri e velate minacce: più che alimentare il consenso si punta a
diffondere la “paura” cara a Starace e un atteggiamento di rassegnato fatalismo
nei confronti dei mutamenti peggiorativi in corso.
[7] A proposito di quest’ultimo
mi preme sottolineare che il contegno dei professori e delle autorità
accademiche di Cambridge è stato non meno reticente, nei confronti della
giustizia italiana, di quello di polizia e magistrati egiziani: il povero
Regeni ha pagato, con ogni probabilità, l’inconsapevole coinvolgimento in una
partita troppo più grande di lui, condotta con eguale cinismo dai due
“giocatori”.
[8] Tratto da L’OTTANTANOVE DI GORBACIOV (DOCUMENTI),
pagg. 239-240, L’Unità, 1989.
[9]
Rimando al mio articolo L’automa
e il Capitale (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2016/04/lautoma-e-il-capitale-di-norberto.html).
[10]
In quanto gli interessi della classe
che servono o alla quale direttamente appartengono contrastano
irrimediabilmente con lo “sviluppo incondizionato delle forze produttive” cui
per sua natura tende il modo di produzione capitalista.
[12]
La portata del fenomeno non è
sfuggita alla direzione de L’Espresso che, nel numero del 9 giugno, gli dedica
la copertina (“Parigi brucia!”) e un’approfondita, preoccupata analisi nelle
pagine interne. L’intento è quello di presentare la protesta come minoritaria e
antistorica (sono molti di meno che nel ’68, si oppongono all’inevitabile ecc.)
e screditarne i leader – in particolare il capo del sindacato comunista CGT -,
ma fra le righe dell’articolo non banale di Gigi Riva si coglie un senso di
sgomento di fronte a una situazione che, nella sua apparente “novità”, ricorda
molto le contestazioni novecentesche.
[13] Ai black bloc
(ma esisteranno davvero?) si sono aggiunti, nel mese di giugno, hooligans provenienti da mezza Europa,
che hanno messo a ferro e a fuoco le città francesi, malgrado l’Europeo 2016
non fosse esattamente un evento imprevisto. La polizia, sempre pronta ad
aggredire i picchetti operai, pare si sia lasciata sorprendere da una
“invasione” annunciata anche nelle proporzioni. Non mi sento di escludere
(anzi…) che questo sfoggio di inefficienza sia stato pianificato per generare,
nell’opinione pubblica, un sentimento di saturazione che conduca al rifiuto di qualsiasi
comportamento possa cagionare “incidenti”.
[14]
Ancor più miope è ovviamente il
movimento italiano dei 5 Stelle, che guardano il dito (i partiti politici)
anziché la luna (la UE e gli altri motori immobili di politiche che rassomigliano
a un format).
[15] Ricordo una risposta che suonava
pressappoco così: non è del terrorismo che mi preoccupo ma delle politiche del
nostro governo, perché è molto improbabile che io venga assassinato da un
terrorista, mentre il rischio che io viva un futuro da precario, senza diritti,
è quasi una certezza.
[16] Questo adeguamento, avvenuto nei primi anni ’90
(all’epoca dell’esecutivo Amato, quando il discredito dei partiti nazionali
raggiunse un momentaneo apice e il governo si trovò costretto a cercare
interlocutori più credibili) ha determinato la rinuncia al ruolo di
antagonista: le organizzazioni – non ultima la CGIL – hanno assunto la veste di
codecisore, si sono burocratizzate e hanno disimparato a lottare.
[17] Confesso: pur tifando per la Brexit, non
mi attendevo questo risultato “eversivo”. Ecco le mie previsioni, risalenti
alla metà di giugno: “Per il momento la permanenza della Gran Bretagna nella UE ha scongiurato
la catastrofe, ma i dati risicatissimi non possono rallegrare sul serio i
burocrati-manager di Bruxelles e chi li sponsorizza: abbiamo assistito alla
sofferta vittoria di una squadra arroccata in difesa, ottenuta minacciando
inverosimili cataclismi (comunque annunciati da scosse borsistiche) e
sfruttando – in parte – l’ondata di emozione suscitata dal brutale assassinio
della deputata europeista Jo Cox, già in odor di santità per il suo impegno in
favore dei diritti umani.”
[18] Sui motivi per cui alla Gran Bretagna è stato
riconosciuto uno statuto speciale in seno alla UE mi soffermo nell’articolo Brexit? Yes,
why not? (http://sollevazione.blogspot.it/2016/05/brexit-yes-why-not-di-norberto.html)
[19] Consiglio la lettura dell’articolo di F. CAPALBO Il diritto amministrativo nei tempi della
crisi finanziaria (http://www.provincia.palermo.it/provpalermo/allegati/13847/6_Ferruccio_Capaldo_il-diritto-nei-tempi-di-crisi-finanziaria.pdf)
[20]
Penso alla spiaggia riservata ai gay che il “guru”
catalano Ejarque proponeva di aprire a Lignano Sabbiadoro (UD). Si può
definirla altrimenti che un ghetto alla moda?
[21] Si considerino, a titolo esemplificativo, le proposte
politiche del II Governo Tsipras, quello post referendum.
[22] Si accontentano ai
sensi di legge: la “generosità” di Frau Merkel ha deii limiti (http://www.repubblica.it/esteri/2016/04/15/news/migranti_la_germania_rilancia_via_alla_prima_legge_sull_integrazione-137678114/).
[23] A differenza dei balbettii della Sinistra marxista
tradizionale, che attacca la UE senza metterla davvero in discussione. Chi
coltiva dubbi amletici è meglio che si astenga dal fare politica (capito,
Ferrero?)…
[24] Tra queste ultime annovero il M5S, non etichettabile,
e nuove sinistre come Podemos e gli sloveni di Združena Levica. La sinistra
marxista tradizionale è invece dappertutto in via di estinzione, se si eccettua
il PCP portoghese, che ha il merito di non essersi mai fatto abbindolare dalla
propaganda europeista.
[25] Il racconto è scaricabile gratuitamente dal blog
Bandiera Rossa in Movimento (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/p/i-quaderni-di-bandiera-rossa.html).
[26] Non sottovaluterei nemmeno la convinta (e per me
positiva) difesa delle identità locali, testimoniata nel territorio in cui vivo
dal diniego popolare a ben tre proposte di fusioni comunali (19 giugno ’16).
[27] Osservo che in ogni lembo del territorio nazionale,
dalla Sicilia a Trieste, stanno sorgendo spontaneamente comitati per la difesa
della Legge fondamentale minacciata dalla c.d. Riforma Boschi.
[28] DANTE LIVIO BIANCO, Guerra partigiana, Einaudi, ult.
Rist. 2006.
[29] D. L. BIANCO, op. cit., pag. 105.
[31] Potremmo considerare i ricercatori del Programma
Fulbright come missionari del verbo neoliberista in terra (ancora) infidelium.
[32] Alla cui opera “Il Libro Nero degli Stati Uniti” ho
dedicato tre anni fa ho dedicato un’ammirata recensione (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/05/quid-est-america-la-versione-di-william.html).
[33] Mia traduzione dell’espressione inglese profit motive.
[34] Ma i “compagni di strada” di chi?, si starà
domandando il lettore curioso e un po’ spaesato. Chi sono questi fantomatici noi, che pretendono di condurre la
lotta, dialogare, “arruolare” ecc.? Rispondo che si tratta dei
movimenti/organizzazioni che si sono dati convegno a Napoli il 21 maggio (http://sollevazione.blogspot.it/2016/05/italexit-napoli-21-maggio.html)
e di altre realtà non fossilizzate della “sinistra radicale”, irriducibilmente
ostili – in ordine di importanza – al Capitale, alla NATO pilotata da
Washington, alla UE delle lobby, alla “sinistra” liberista europea e alla banda
Renzi. Riusciranno tutte queste tessere a comporre finalmente un mosaico o
cederanno, una volta ancora, al fascino irresistibile di un settarismo da età
prescolare? Nella disperata situazione odierna gelosie, ripicche e
atteggiamenti da primadonna sarebbero un delitto capitale, perciò mi proclamo ottimista
(e da Trieste sono sceso a Chianciano).
[35] Appaiono chiarificatrici alcune
dichiarazioni rese il 23 giugno, a urne aperte, dai maggiorenti 5 Stelle (blog
di Grillo, europarlamentare Borrelli ospite della maratona di Mentana): loro
sono a Bruxelles “per cambiare la UE dall’interno”. Si badi: è la stessa
identica filastrocca intonata, non appena se ne presenti il destro, dalla
Presidente Boldrini.
1 commento:
Ha citato Garibaldi...ma si può...per cortesia, nei riferimenti a figure storiche evitiamo le castronerie...
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