venerdì 1 luglio 2016

UNA CARTA PER LA RESISTENZA (Assemblea di P101) di Norberto Fragiacomo

[ 1 luglio ]

Domani inizia a Chianciano Terme l'assemblea seminariale di Programma 101.
E' un'occasione preziosa per tutti i militanti sovranisti rivoluzionari, visti i temi trattati e la qualità dei relatori, di formazione politica e teorica. 
Eh sì, perché mai come ora, in questi tempi in cui circolano tanti azzeccagarbugli politici, è valida la massima di un certo Lenin per cui "non c'è azione rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria".

Qui sotto la traccia dell'intervento del compagno Norberto Fragiacomo (BRiM), relatore, assime a Moreno Pasquinelli nella sessione: Crisi sistemica, sollevazione popolare, rivoluzione democratica.

 
Norberto Fragiacomo
I. Una crisi estremamente “opportuna” (e pertanto da alimentare)

Da quasi un decennio ci dibattiamo nella tela vischiosa di una crisi dalle mutevoli fattezze, che si manifesta con improvvise impennate dello spread (chi se ne ricorda? Attenzione: potremmo sperimentarne presto di nuove), diktat di direttori internazionali, morie di imprese considerate floride fino alla settimana prima. Talvolta sembra chetarsi, quasi volesse incoraggiare gli “sforzi” fatti da governi diligenti e allineati, ma quando emerge l’esigenza di piegare opinioni pubbliche non sufficientemente inquadrate torna a ergersi minacciosa e inesorabile. Soprattutto colpisce a senso unico: precipita i poveri nella miseria più abbietta, proletarizza il ceto medio, spazza via le produzioni locali ma regala alle élite nuove opportunità di arricchimento. La parola «opportunità» non l’ho scelta a caso: assieme a «giudizio» e – naturalmente – a crisi è uno dei significati che gli antichi greci attribuivano al vocabolo κρισις. Cosa intenda dire lo capirete tra breve.

Conosciamo la genesi di questa crisi economica, quando e dove è nata: figlia della finanza creativa di Wall Street, esplode negli USA a causa dei mutui spazzatura (2007) e, più in generale, dell’insostenibilità di un sistema affaristico che pretendeva di trasformare il nulla in oro. I principali responsabili sono banche d’affari e professionisti della speculazione: dopo qualche spettacolare fallimento (pochi), lo Stato americano corre ai ripari e presta agli istituti enormi quantità di denaro vero – denaro pubblico. Sarà imitato – non appena il contagio si diffonde oltreoceano – dalla maggioranza degli esecutivi europei, che per garantire la salvezza alle banche si indebitano pesantemente. Il debito pubblico cresce ovunque a dismisura, e da medicina diventa a sua volta patologia da curare. Le colpe dei finanzieri passano in secondo piano: influenti economisti e autorità cominciano ad indicare nei debiti nazionali la radice di ogni male. I Paesi indebitati più gravemente e da più tempo entrano nel mirino: il destino inflitto alla Grecia è solo l’antipasto di un banchetto riservato a pochissimi. La crisi è anzitutto un giudizio morale: interi popoli vengono bollati come mangiapane a ufo, in sostanza come parassiti di un’economia che si vuole in declino. La cosmesi di bilancio suggerita al governo greco da Goldman Sachs assurge a delitto collettivo, imputabile - anziché ai consulenti, capitati ad Atene per caso - ad ogni singolo cittadino ellenico: giornalisti compiacenti e compiaciuti ostentano stupore per il fatto che “i greci non capiscano che le responsabilità sono tutte interne al paese[1]” e che soltanto la generosità di FMI e Commissione Europea ha permesso alla Grecia di restare a galla. La crisi come colpevolizzazione, quindi, ma anche come pungolo a determinate “riforme” – cioè come opportunità. Da almeno un quarto di secolo le riviste economiche anglosassoni puntano il dito contro il welfare all’europea: restrizioni sui licenziamenti, sistemi pensionistici pubblici e servizi troppo generosi farebbero da freno ad una crescita economica che si postula insufficiente (rispetto a cosa? al decollo cinese, ad esempio, vale a dire ai tassi di sviluppo di una nazione che negli anni ’70, pur avendo la bomba, era preindustriale). La disintegrazione dello Stato sociale, presentataci come una privatizzazione assiomaticamente “benefica”, costituisce, sin dai primi segni di cedimento dell’URSS, il principale obiettivo dei potentati economici sovranazionali, che da almeno un quarto di secolo spingono per una riduzione delle tutele sociali in ogni campo: l’instaurazione, nelle democrazie europee, di un bipolarismo apparente, ovunque basato su partiti o coalizioni ideologicamente speculari, ha favorito l’attuazione di politiche di spoliazione dei ceti popolari, che per i gusti dei patrocinatori, tuttavia, procedevano troppo a rilento. In Italia, ad esempio, lo spauracchio del maxi debito veniva agitato ad ogni piè sospinto: il problema è che in una situazione di relativa floridezza è più difficile giustificare tagli e arretramenti (che pure ci furono), specie se posti in essere da forze che usurpano una tradizione di sinistra. La crisi iniziata nel 2007/2008 cade allora a fagiolo, perché crea – come direbbero i giuristi – una condizione di “urgenza qualificata” che consente di derogare alle regole del confronto pubblico e di imporre soluzioni emergenziali in tempi drasticamente ridotti. Per le anime belle l’austerità è un errore, frutto di miopia: al contrario, essa rappresenta l’alimentazione più indicata per una crisi che si ha tutto l’interesse a mantenere in vita, visto che si sta rivelando un eccellente strumento per conseguire gli scopi dell’élite. In epoche “normali” proteste di piazza come quelle svoltesi in Grecia nell’ultimo lustro (per non parlare del referendum del 2015) avrebbero costretto ad una pudica ritirata governi e istituzioni: oggidì non sortiscono effetto alcuno, sono rumori di fondo.

Per comprendere dove stiamo andando (dove vogliono condurci) non occorre avere la sfera di cristallo, né leggere saggi ponderosi: è sufficiente vivere la quotidianità. Dopo decenni di crescita, la speranza di vita segna il passo, anche perché un italiano su sei rinuncia ormai a curarsi, a causa del fatto che – complici le continue sforbiciate di bilancio – la sanità pubblica eroga prestazioni rarefatte a prezzi vicini a quelli di mercato; i comuni non riescono più ad assolvere ai propri compiti, e vengono forzosamente accorpati, coi corollari dello svuotamento delle elezioni e della cancellazione delle identità locali; aumenta, in genere, il costo dei servizi pubblici, con ripercussioni sulla capacità di spesa delle famiglie, mentre il “privilegio” del posto fisso – sorta di Atlantide in procinto di sprofondare nell’oceano del precariato – costerà carissimo ai cinquanta-sessantenni, condannati ad andare in pensione in età sempre più avanzata e con assegni ridottissimi. Per i quarantenni la prospettiva è una vecchiaia da indigenti, per i nati dagli anni ’80 in poi semplicemente la servitù, cui già vengono convenientemente addestrati in istituzioni scolastiche ridotte a centri di formazione professionale (non per caso le più recenti riforme impongono stage gratuiti in azienda agli studenti). Lo scopo è chiaro: drenare il risparmio delle famiglie che, specialmente in Italia, risulta piuttosto cospicuo. In sostanza, gli europei daranno fondo alle risorse accumulate dalle generazioni precedenti per “consumare” servizi essenziali in una società totalmente privatizzata. Si tratta, in pratica, di lavorare sodo sino alla fine dei propri giorni, per poi lasciare in eredità all’economia (Stato e fondi privati) un ragguardevole gruzzolo di contributi versati. Ai giovani andrà molto peggio: dissoltasi l’eredità dei nonni, condurranno un’esistenza da precari a tempo indeterminato, senza alcuna prospettiva – a parte quella di un precoce invecchiamento. Non avranno pensione, l’abbiamo detto, ma neppure casa di proprietà: abiteranno cubicoli in affitto come gli italiani alla vigilia del boom economico, con la sostanziosa differenza che non potranno far conto sulla solidarietà familiare, perché le famiglie si saranno già liquefatte da un pezzo. Al pari degli operai descritti da Zola, sfrutteranno per  divertimenti e acquisti (in centri commerciali aperti h 24) le domeniche e i pochi giorni festivi, quando sarà loro concesso di esistere come “consumatori” abbrutiti e rigorosamente low cost. Verranno offerti alle masse merci ed alimenti adatti ad un pubblico povero, come già avviene negli Stati Uniti d’America: tra le alternative ai polli al cloro - generosamente ammannitici dal Ttip caro a mister Obama - e agli hamburger serviti nei McDonald’s (che soppianteranno definitivamente trattorie e ristorantini non di lusso) troveranno spazio gli insetti, di cui solerti nutrizionisti magnificano in anticipo le virtù – tacendo del fatto che la principale consiste nell’infimo costo di produzione di questo “cibo” da incubo. D’altra parte, se il salario paga non il lavoro effettuato, ma solamente le risorse indispensabili a mantenere il lavoratore attivo per tot anni, la moda di mangiare libellule consentirà ai datori di lavoro gustosi risparmi. Finché lavorerà, al precario saranno garantite (a pagamento) cure sanitarie di base, ma non quelle per le patologie più gravi o invalidanti: il gioco non varrebbe la candela. E dopo? Dopo c’è il camposanto, ammesso che le multinazionali – che si stanno comprando pianure e territori fertili[2], con buona pace di chi fantastica di un “ritorno alla terra” – lascino libero qualche metro quadro.

Che senso ha, ci si potrebbe chiedere, questo gioco al massacro sociale? Il keynesismo a rovescio che anima le politiche economiche in atto e annunciate dovrebbe sortire l’inevitabile effetto di mortificare la domanda aggregata, impedendo quella crescita del PIL che parrebbe essere, a sentire gli economisti embedded, l’unica alternativa al declino. D’altra parte, molti commentatori osservano che la ricrescita economica verificatasi negli Stati Uniti nell’ultimo lustro ha avuto luogo in assenza di tutele giuslavoristiche, di protezioni sociali e di alti salari: una volta persuasosi che di risparmiare non vale la pena (poiché l’acquisto di un immobile non è alla portata di un precario, costretto fra l’altro al “nomadismo” lavorativo), il cittadino medio si adatterebbe, quasi per forza d’inerzia, a devolvere l’intero suo reddito al consumo – un consumo povero, come detto, ma privo di reali alternative. Non è affatto certo, tuttavia, che il lavoratore europeo si rassegni al nuovo corso con la stessa docilità dello yankee (che dà comunque eloquenti segni di scontento: si tengano presenti i fenomeni Trump e Sanders, per certi versi speculari): noi siamo avvezzi a standard di vita più elevati, a ritenere certe prestazioni un diritto, a non anteporre le esigenze della produzione a quelle della vita privata – si pensi al sabato festivo e alle ferie, in America praticamente sconosciute. Saremmo dunque di fronte ad un pericoloso azzardo dell’élite, che potrebbe non aver valutato correttamente le probabili conseguenze del suo agire. In fondo, contrariamente a quanto vorrebbero farci credere, i nostri oppressori sono dei comuni mortali, nient’affatto infallibili ed anzi capaci, al pari di noialtri, di grossolani errori, senz’altro agevolati dalla cupidigia che li divora. Ritengo che liberarsi della paura (quella freddamente auspicata da Francesco Starace, manager di Stato che “fa onore” al proprio cognome) e persino del timore reverenziale sia indispensabile, ma sottovalutare i nostri avversari sarebbe esiziale. Grazie ai mezzi illimitati, questa superclasse sovranazionale (ma gravitante intorno a Washington e Bruxelles) è in grado di assoldare i migliori cervelli in vendita in ogni campo, dalla scienza all’informazione, dalla “cultura” alla strategia militare. Che tutti costoro credano nelle virtù salvifiche del PIL è inverosimile: una riduzione della torta costituirebbe un problema soltanto dal punto di vista della comunicazione, visto che ad andare in briciole sarebbero comunque le produzioni piccole e medie (come sta puntualmente avvenendo: è in atto una gigantesca concentrazione del capitale) e che i tre quarti di mezza torta sono comunque più appetibili di una pur bella fetta del dolce intero.

Si tratterebbe, in ogni caso, di una strategia dal fiato corto: l’Europa è ancora oggi il principale mercato mondiale. Il Capitale guarda però lontano, anche se non fino a Marte e alla cintura degli asteroidi: la nuova terra di conquista è la Cina, il Ttip non servirà solamente ad inondare il Vecchio Continente di prodotti dannosi ma dal prezzo imbattibile.

Carlo Calenda, il nuovo ministro (renziano e iperliberista: è un’endiadi) dello Sviluppo economico, chiarisce in un’intervista a L’Espresso[3] del 2 giugno qual è “lo scopo principale del Ttip: non la liberalizzazione spinta del commercio tra le due sponde dell’Atlantico”, bensì “la costruzione di un’area che, nel diventare economicamente la più grande ed avanzata del globo, possa imporre i suoi standard economici e legali sulle altre economie mondiali”. Nel mirino c’è il colosso cinese, come lo stesso Calenda candidamente rivela: “potremo a quel punto (dopo la sottoscrizione dell’accordo ndr) dire alla Cina: negli ultimi trent’anni ti abbiamo aiutato a crescere e a creare una classe media, facilitando le tue esportazioni. Ora è tempo che apri i tuoi mercati ai nostri prodotti.” Il Ttip quindi è stato concepito (anche) come un’arma geopolitica, da realizzarsi obbligatoriamente in tempi brevi, perché – continua il negoziatore – “se non riusciremo a farlo adesso, tra 15 anni non ne avremo più la possibilità e la forza, e i cinesi si potranno tenere i loro dazi alti e non fare entrare le nostre merci.”

La strategia è quindi sufficientemente chiara: creare un unico (super)mercato euro-asiatico, omologando le condizioni di vita di uno, forse due miliardi di consumatori - ben lungi dal rimpicciolirsi, insomma, la torta triplica di dimensioni, anche se tra gli ingredienti trovano posto lombrichi, cavallette e sostanze chimiche. Alla produzione low cost, su cui ci siamo già soffermati, se ne affiancherà una di alta gamma, destinata a minoranze ridottissime ma principescamente ricche e accomunate – da New York a Pechino, da Mumbai a Francoforte – da gusti e desideri affini. Il trionfo della globalizzazione, ottenuto togliendo di mezzo[4] qualsiasi élite nazionale dissenziente, porterà all’Ordine Mondiale ultimo: le Nazioni Unite del Capitale.

Non dubito di imbattermi in qualcuno che, lette queste mie note, le bollerà ghignando come farneticanti elucubrazioni, frutti poco appetibili di una fantasia complottista[5]. Forniscici degli elementi certi! intimeranno i contraddittori in malafede, ben sapendo che una rigorosa dimostrazione documentale è nel caso di specie impossibile; altri muoveranno l’obiezione, in apparenza sensata, che i fatti sono variamente interpretabili, e che comunque non è giustificato parlare di “regresso” a proposito di un’epoca in cui diritti umani e diritti civili appaiono al centro dell’attenzione dei governanti (proprio quest’ultimo dato, in realtà, corrobora la mia tesi). Qualcuno potrebbe sottilmente osservare che la stessa pubblica “confessione” di Calenda non prova nulla, dal momento che, secondo la mia impostazione, i politici occidentali mentono o sono reticenti per scelta strategica[6], e dunque l’accenno alla Cina potrebbe costituire un escamotage per sviare l’attenzione dalle difficoltà che ci troveremo ad affrontare in Europa. Fermo restando che il neoministro amplia l’oggetto della discussione senza negare l’evidenza (anche se non il principale, “la liberalizzazione spinta del commercio tra le due sponde dell’Atlantico” è uno scopo del Ttip), rimane il fatto che, sin dai suoi albori, il Capitalismo è alla perenne ricerca di nuovi mercati e che, oggigiorno, l’ex Celeste Impero rappresenta, insieme all’India, il boccone più appetitoso.

In generale, mi sento di affermare quanto segue: la spiegazione offerta è l’unica in grado di dare un senso a condotte ed eventi che, se considerati isolatamente e in maniera acritica, comproverebbero soltanto un’inadeguatezza delle élite governanti che sconfina nella cecità o nella demenza (si vedano, a mero titolo di esempio, lo spettacolare aumento dei debiti pubblici italiano e greco sotto i governi della Troika e le scriteriate, rovinose sanzioni inflitte alla Russia, costretta a reagire alle provocazioni della NATO in Ucraina e nell’est). Può un essere umano ragionevole accogliere la versione mainstream di un’interminabile sequela di “errori” di valutazione che invariabilmente penalizzano chi sta in basso? La scienza giuridica ha elaborato, nel corso dei secoli, l’istituto delle c.d. presunzioni semplici, intese come fatti noti da cui si desume, sulla base di un ragionamento logico, l’esistenza di un fatto ignoto – sempre a condizione che gli elementi di partenza siano gravi, precisi e concordanti. Ebbene: gravità, precisione e concordanza sono innegabili, e suggeriscono – mi ripeto - l’avvenuta elaborazione di una strategia (non di un piano dettagliato, né tantomeno di un gombloddo da operetta) che risponde in pieno al desiderio delle classi egemoni di sbafarsi tutta intera la famosa torta, canditi compresi.

Che qualche volta poi i membri dell’establishment politico-affaristico occidentale contrastino fra loro non deve minimamente stupire: al netto dei conflitti “rappresentati” a beneficio degli spettatori (es. gli innocui capricci di Renzi a Bruxelles), è inevitabile che in un mondo retto dalla cupidigia gli interessi di un gruppo interferiscano stabilmente con quelli dei concorrenti, e persino che occasionalmente le divergenze si manifestino in maniera fragorosa (si veda la “punizione” della Volkswagen, verosimilmente un monito alla Germania troppo sicura di sé). Volessimo azzardare un paragone spiacevole, potremmo concludere che il Gotha capitalistico assomiglia al fenomeno mafia nel suo complesso (moltiplicato per diecimila), non ad una singola famiglia mafiosa.

Ho alluso, nel precedente capoverso, ad una rappresentazione: sotto un certo punto di vista, l’elemento caratterizzante la contemporaneità è proprio l’appannamento del reale, la sua cosciente falsificazione ad opera dei professionisti dell’immagine e della parola. Pensiamo alla dicotomia destra-sinistra, pregna di significato finché era presente in Europa un agguerrito movimento comunista, ma oggi adoperata per indicare forze politiche gemellate da una visione della società affine se non identica; alla rivoltante retorica dei diritti umani, che “loro”, “gli altri” non rispettano e “noi” invece sì (invito a meditare sul passaggio della requisitoria in cui il Procuratore generale Rubolino ha clamorosamente paragonato le sorte di Cucchi a quella di Giulio Regeni[7]); alle rassicuranti banalità su una “democrazia” oggi messa ai margini in Europa occidentale non meno che in Russia o in Cina (esempio terra terra: la sostanziale indifferenza nei confronti degli esiti del referendum sull’acqua del 2011); infine – per evitare di dilungarci troppo – alla grottesca messinscena sul debito pubblico, spacciato per una sorta di male incurabile dell’organismo statale.

Evitiamo fraintendimenti: il debito è sempre un problema con cui confrontarsi, dal momento che limita la libertà d’azione politica di qualsiasi Stato, per quanto patrimonialmente solido esso sia (e l’Italia lo è senz’altro, essendo censita fra le prime dieci economie del pianeta). In cosa consiste tale limitazione? Nell’indisponibilità delle somme destinate al rimborso dei prestiti, che non possono essere adoperate per altri fini. Non vi è probabilmente cittadino che non abbia sperimentato, nel corso della sua esistenza, siffatto inconveniente: quando stipula un mutuo vincola, di fatto, una quota del suo reddito al pagamento delle rate. Se il prestito è stato contratto per uno scopo ragionevole (ad es., l’acquisto della prima casa) non è il caso di dispiacersi troppo, anzi: è grazie al credito bancario che quasi tutte le famiglie italiane possiedono oggi un’abitazione e, di conseguenza, vivono meglio delle generazioni d’anteguerra. Diverso è il caso del consumatore compulsivo, che s’indebita per acquistare un bene voluttuario - come un Suv BMW o Mercedes – cui altrimenti non avrebbe accesso: dargli dello sciocco è il minimo sindacale, ma il giudizio non implica di necessità una prognosi infausta sul suo destino di debitore, visto che in assenza di eventi straordinari egli sarà probabilmente in grado di onorare l’obbligazione, magari stringendo la cinghia (e lasciando invecchiare il macchinone nel box, ammesso che ne abbia uno!). L’insolvenza non è scontata per un motivo semplicissimo: per quanto la somma presa a mutuo possa superare gli introiti annui del nostro incauto acquirente di cinque, sei o sette volte essa non va restituita (con l’aggravio degli interessi) in un’unica soluzione, bensì – a rate – in dieci, quindici o venti anni. Per l’effetto, asserire che un debito è insostenibile soltanto perché supera (di poco o di tanto) il reddito annuo equivale a un’insensatezza: a decretare la messa in mora saranno eventualità eccezionali, come un licenziamento, un marchiano errore di calcolo o l’atteggiamento persecutorio di un banchiere alla Montecristo. Per gli Stati e il loro debito pubblico dovrebbe valere un ragionamento simile: solo un totale collasso dell’economia, provocato dalla natura o dall’uomo (es.: un ferreo embargo concertato a livello internazionale), potrebbe condurre all’insolvenza. In linea di principio, il creditore medio non ha motivo di augurarsi che ciò avvenga, soprattutto se l’obbligato è un Paese progredito che, come l’Italia, ha sempre versato puntualmente le rate di debito. Un mutuo elevato non è affatto una tragedia, specie se buona parte del denaro preso a prestito è stato utilizzato per arredare la casa comune (fuor di metafora: per costruire lo Stato sociale, che innalza il suddito a cittadino) e non, invece, per soddisfare la brama di una fuoriserie (ipotesi: per armarsi fino ai denti in un contesto geopolitico che non lo impone).

Sono pochi i cattedratici, oggi, che rifiutano di affibbiare al debito l’etichetta di “male assoluto”, ma solamente tre decenni fa la loro sicumera avrebbe suscitato, anche fra i colleghi, incredulità e qualche battuta ironica. Nell’Unione Sovietica in via di dissolvimento, un economista (assai critico verso il sistema di allora) non mostrava alcun timore nei confronti del debito: la sua è una testimonianza che merita riportare.

Al Primo Congresso dei Deputati del Popolo dell’URSS, tenutosi a Mosca dal 25 maggio al 9 giugno ’89, l’economista N.P. Shmelev affermò quanto segue: “Nikolai Ivanovic (Ryzkov) dice di non voler lasciare debiti ai suoi nipoti. Posso capirlo. Però in questo c’è qualcosa di provinciale. Adesso tutti vivono, come dire, sui debiti. E non succederà nulla di irrimediabile, se ci faremo prestare una certa somma. Come restituirla? Se vogliamo essere pratici (qualsiasi tecnico delle finanze mi capisce) adesso nessuno rende più niente. Non c’è bisogno di rendere. Bisogna soltanto sostenere il pagamento degli interessi (…)[8]”.
Appunto: bisogna soltanto sostenere il pagamento degli interessi – ma la quota annua da pagare (finora, lo sottolineo, sempre pagata) fa molta meno impressione, è molto meno mediatica della cifra di duemila miliardi e rotti di debito complessivo che, come uno spettro visto da pochissimi ma da molti evocato, con la sola fama atterrisce (e induce a qualsiasi sacrificio) gli abitanti del Paese per cui spergiurano si aggiri.

II. Un Capitalismo “giovanile” (grazie al lifting) e i suoi strumenti di autotutela contro la montante opposizione popolare

Appurato che l’èlite transnazionale sa utilizzare con abilità tutti i mezzi di comunicazione, resta anzitutto da domandarsi se essa conservi quella spinta propulsiva all’innovazione che Karl Marx le riconosceva, sinceramente ammirato, un secolo e mezzo fa. La risposta non può che essere di segno negativo: l’offensiva a cui stiamo assistendo è volta non già a “reinventare” rapporti di produzione superati, bensì a riappropriarsi di quei margini di profitto cui nella seconda metà del dopoguerra la crème è stata – dalle circostanze – parzialmente costretta a rinunciare. La c.d. rivoluzione neoliberista è una controrivoluzione a tutti gli effetti, perseguendo lo scopo di cancellare le conquiste sociali del ‘900 per resuscitare un “paradiso perduto” di stampo ottocentesco (supremazia incondizionata del Capitale sul Lavoro). E’ indiscutibile che la classe dominante si sia evoluta – come previsto ne Il Capitale -, dimostrando notevoli capacità di superare i numerosi ostacoli disseminati sul suo cammino dalla storia recente, ma gli stupefacenti giochi di prestigio finanziari inscenati nelle ultime decadi e il progressivo passaggio da un imperialismo nazional-militare ad uno “privatizzato” di matrice economica (che non disdegna però di far scendere in campo gli eserciti) non può celare il dato che il grande imprenditore si è ormai trasformato in rentier, anche se si tratta di un rentier più dinamico e spregiudicato di quello intravisto da Marx. Lascio ai competenti in materia analisi e considerazioni sulle attuali tendenze del tasso di profitto: che il reddito dei top manager contemporanei sia basato solo in minima parte sui successi produttivi aziendali è tuttavia un dato ben noto anche ai profani. Una classe davvero rivoluzionaria non potrebbe che approfittare dello strabiliante progresso tecnologico verificatosi negli ultimi decenni, avviando senza indugi una progressiva sostituzione di operai e impiegati con robot “intelligenti”, ma una scelta siffatta ucciderebbe i profitti, rendendo poco conveniente in generale la produzione di beni e servizi, senza la quale, purtuttavia, l’impalcatura finanziaria crollerebbe come un castello di carte. Più probabile, dunque, che l’ipotetica concorrenza di automi pensanti venga brandita come un (ulteriore) argomento di pressione nei confronti dei lavoratori in carne e ossa, forzati ad acconsentire – pur di salvare il posto – a un nuovo peggioramento della loro condizione[9].

Preso atto che gli odierni “riformisti” sono conservatori della peggior specie[10], rimane sul tavolo la seguente questione: vi sono attualmente le condizioni per un superamento del Capitalismo oppure – come sosteneva Giorgio Ruffolo in un celebre saggio – il sistema ha “i secoli contati” (è cioè un anziano con una vita ancor lunga davanti)? Da un punto di vista strettamente oggettivo, i presupposti per un ribaltamento dei rapporti parrebbero esserci: le potenzialità produttive dell’industria mondo sono oggidì infinitamente superiori a quelle dell’epoca in cui visse Marx, e basterebbero a garantire un’esistenza decente, se non agiata, a ciascun abitante del globo. Secondo gli studiosi, tuttavia, a far difetto sarebbero le condizioni soggettive: la classe chiamata al compito rivoluzionario semplicemente non esiste, frammentata com’è in innumerevoli sottocategorie se non, addirittura, in un’infinità di singoli individui. Questo anche a non tener conto del fatto che il filosofo di Treviri assegnava un ruolo significativo al “direttore di fabbrica”, assurto invece a membro di una classe egemone che ha esibito – almeno fino al termine del secolo scorso - doti seduttive non comuni nei confronti di larghi strati della popolazione lavoratrice.

Va detto che la figura del capitalista charmant, la fascinazione inclusiva appartengono al passato: l’esigenza di riprendersi tutto e subito non tollera l’intralcio delle buone maniere. Come ho già osservato, non si punta più a persuadere il cittadino che gli arretramenti sono “per il suo bene”, si preferisce mettere sbrigativamente la vittima con le spalle al muro. Negli ultimi anni il messaggio alle masse di governanti e autorità è mutato sia nei contenuti che nel tono, e suona adesso pressappoco così: o vi adeguate o saranno guai (ci sarà la guerra, perderete il diritto all’assistenza, i vostri figli resteranno senza lavoro ecc.)! Dato che salvare le apparenze è ormai impossibile, si ricorre all’intimidazione nei confronti di chi, per quotidiana esperienza, non può più ingannarsi sulla reale natura delle politiche in atto.


La cronaca di questi ultimi mesi ed in particolare le note vicende d'oltralpe[12] testimoniano però il crescere della consapevolezza e dell'opposizione civica alle politiche vessatorie dell'élite. Assistiamo, dopo gli scioperi greci (e il NO tradito al referendum dell'estate scorsa), dopo la mobilitazione degli Indignados iberici, a un moto popolare che segna un autentico salto di qualità: in Francia studenti e lavoratori uniscono le forze per contrastare il disegno dell'esecutivo "socialista" (in verità iperliberista e prono ai desideri della grande impresa) di mettere fuori gioco il contratto collettivo nazionale e facilitare i licenziamenti. Lo sciopero a oltranza, condito da picchettaggi e manifestazioni quotidiane, assomiglia pochissimo alle “scampagnate” più o meno pacifiche (ma sempre una tantum) cui ci ha abituato il nuovo millennio: questa forma “antica” di lotta può ancora ottenere risultati apprezzabili ove coinvolga varie categorie e interessi settori strategici dell’economia. E’ troppo presto per dire se la protesta francese avrà successo, ma già il fatto che i media denuncino la “paralisi” del Paese (oltre a scontri tra polizia e scioperanti non assimilabili ai sempre graditi “facinorosi” in nero[13]) indica che è stata imboccata la via giusta, resa più agevole dal convinto appoggio alle dimostrazioni assicurato dai giovani e giovanissimi della “notte in piedi”. Accennavo prima ad una crescita della consapevolezza: oltre a saper dialogare benissimo con i loro coetanei stranieri (greci, tedeschi, spagnoli ecc.), gli studenti transalpini si dimostrano sorprendentemente impermeabili alla manipolativa narrazione mediatica e assai più critici verso il sistema di quanto non fossero i precursori spagnoli, non sempre capaci di vedere al di là della loro “casta” partitica[14]. Sentire dei ventenni che, intervistati, sostengono senza mezzi termini che l’esecutivo Valls-Hollande è “di destra”, che quello del terrorismo è un falso problema, utile a sviare l’attenzione dal massacro dei diritti in atto[15], che – addirittura – il sistema capitalista andrebbe abbattuto suscita impressione in chi ascolta, indipendentemente dal fatto noto che il popolo francese è molto più combattivo, cosciente e fiero di quello italiano (ce lo insegna la Storia).

D’altro canto non è lecito sostenere che la protesta transalpina sia un episodio isolato, o merito esclusivo di una gioventù “eccezionale” e di un sindacato che, a differenza delle confederazioni italiane, non si è adeguato alle “moderne” logiche concertative[16]: cresce in ogni angolo del continente l’opposizione a sfacciate politiche classiste, apertamente dettate da un’Unione Europea che solo i propagandisti, oramai, si ostinano a identificare con l’Europa. Il grande inganno è stato scoperto: la UE è nient’altro che un gigantesco comitato d’affari al servizio delle maggiori lobby capitaliste (per essere precisi: una stanza di compensazione degli interessi delle multinazionali e dell’èlite economica degli Stati “forti”), e come tale si comporta. In particolare, la gestione omertosa delle trattative sul Trattato transatlantico e il palese disinteresse per le violazioni, ad opera di alcuni governi, del principio della libertà di circolazione delle persone (a fronte della faccia feroce mostrata da Commissione e Corte di Giustizia ogniqualvolta ci si azzarda a mettere timidamente in discussione la circolazione di servizi e capitali, cioè la “sostanza”) hanno aperto gli occhi a una vasta platea di ingenui, fino a ieri persuasi che l’Europa fosse, malgrado tutto, un’affidabile garanzia contro il dilettantismo vorace delle classi politiche nazionali. Un arbitro severo ma giusto? No davvero: un giocatore scorretto, ipocrita e spietato.

Primo, dirompente effetto concreto di questa presa di coscienza è l’affermazione di misura (52%) del Leave nel referendum britannico del 23 giugno[17], che mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della UE, dal momento che potrebbe innescare una reazione a catena (pare che anche l’Olanda abbia velleità di fuoriuscita). Il messaggio lanciato da inglesi e gallesi è che l’appartenenza all’Unione non è un destino ineluttabile, una condanna all’ergastolo: non meravigliano, dunque, gli immediati attacchi del terrorismo finanziario alla sterlina (e all’euro) e gli spettacolari maremoti in borsa, tesi soprattutto a dissuadere gli altri popoli europei dal commettere il medesimo, deleterio “errore” in un futuro vicino. Colpirne uno per educarne ventisette - è lo schema Grecia 2015, attuato però nei confronti di uno Stato incomparabilmente più forte, che ha conservato la propria moneta e riveste un rango assai elevato nella gerarchia informale dell’Alleanza Atlantica: osserviamo perciò con attenzione i prossimi sviluppi, cercando di trarne utili ammaestramenti e tenendo altresì presente che un’ipotetica secessione dal Regno Unito di Scozia e Ulster (che hanno votato per il Remain) rischia di incrinare il rapporto simbiotico tra UE e NATO, o almeno di certificare la sudditanza della prima nei confronti della seconda.

Qualcuno proverà a minimizzare la portata della Brexit, asserendo che il regno isolano, per una congerie di motivazioni storiche, non si è mai sentito davvero parte della c.d. Europa Unita. Ora, sarà anche vero che l’isolazionismo vanta solide radici in Inghilterra, nondimeno la Gran Bretagna godeva, nell’ambito dell’Unione, di un’autonomia pressoché totale, avendo conservato la sterlina, ridotto il proprio contributo annuo in deroga alle regole vigenti – per gli altri – e strappato, nelle recenti contrattazioni, ulteriori condizioni di favore tali da rafforzarne lo status di membro privilegiato[18]: insomma, in assenza di concrete ragioni per abbandonare, il voto “indipendentista” di una metà abbondante dei cittadini segnala anzitutto un atteggiamento di rifiuto nei confronti di un’istituzione oggetto di antipatia e sospetti anche da parte di coloro cui le circostanze le impediscono di recar danno.
Alla perdita di credibilità di una UE in irreversibile declino fa riscontro l’estrema impopolarità delle forze politiche (specie di quelle sedicenti progressiste) che ad essa si avvinghiano. La sottrazione dei diritti sociali in nome della produttività e della “promozione della concorrenza” (che Renzi ha inserito a forza nel Titolo V della Costituzione repubblicana) non è più compensabile con la moneta falsa dei diritti civili[19], che al sistema non costano nulla e consentono talvolta l’apertura di nuovi mercati di nicchia[20]: a chi stenta ad arrivare a fine mese interessa poco dei matrimoni omosessuali, che comunque restano l’estremo rifugio di politicanti farabutti[21].

Gli apologeti dell’Unione pubblicizzano adesso il loro prodotto con diminuito entusiasmo, senza rinunciare a vacui appelli agli Stati Uniti d’Europa (che, a parte la Boldrini, nessuno si augura) e ad un omaggio di prammatica al “vate” Spinelli che, al netto delle mistificazioni, auspicava la nascita di un super-stato continentale a economia di mercato.
Dicono in sostanza: è vero, l’Unione è piena di pecche (di solito si soffermano su quelle secondarie, glissando sulla totale assenza di democrazia interna e sull’asservimento agli interessi statunitensi), ma, se non ci fosse, la situazione politica ed economica del continente sarebbe incomparabilmente peggiore. Più che addurre delle prove, affermano l’impossibilità di affrontare e gestire le sfide della contemporaneità a livello locale. Non si tratta solo del terrorismo islamico: l’establishment cerca di sfruttare a proprio favore anche fenomeni interconnessi come l’ondata migratoria e la crescita nei paesi europei della destra c.d. populista e xenofoba.

Senza esserne consapevoli, gli immigrati hanno “virtù” inestimabili: consentono al politicume uno sfoggio di umanità a buon mercato, penalizzano i lavoratori europei accontentandosi di salari più bassi[22] e andando a infoltire le schiere dell’esercito di riserva, si inseriscono nelle comunità come corpi estranei, favorendone la disgregazione; infine, catalizzano su di sé l’odio e la rabbia degli autoctoni, vittime al pari di loro della politica predatoria dell’èlite. Se combattono contro il sistema lo fanno a modo loro, magari arruolandosi nell’IS: la loro stessa presenza, dunque, osta al sorgere di una resistenza popolare di massa.
Per questa somma di ragioni le istituzioni europee favoriscono l’ingresso di profughi e migranti: certo, la situazione potrebbe sfuggire di mano – come capitò all’imperatore romano Valente 16 secoli fa – ma, agli occhi dei dominanti, il gioco vale la candela.

Altri alleati a loro insaputa del ceto egemone sono i partiti nazionalisti di destra, che ovunque aumentano i consensi ma poi, alla prova dei fatti, soccombono a raffazzonate alleanze sistemiche che proprio la sussistenza di un (presunto) “pericolo per la democrazia” va a legittimare. In pratica formazioni come il FN contribuiscono involontariamente, per il momento, a tenere in piedi un sistema marcio, che si presenta all’elettorato come un argine alla deriva populista e, nello sconforto generale, si erge a poco credibile paladino di quei valori che esso medesimo ha calpestato e calpesta. I motivi per cui la nuova destra ha successo costituiscono anche il suo limite: l’analisi schematica si traduce in parole d’ordine che proprio per la loro rozzezza fanno breccia[23], ma galvanizzano più che convincere masse allo sbando, suscitando al contempo la ripulsa dei nostalgici della politica delle buone maniere. Va detto che aumentano i consensi non soltanto i nazionalisti, ma anche formazioni ad essi non accostabili[24], e che non meno degno di nota è l’affermarsi di un astensionismo di tipo nuovo, espressione non già di qualunquismo, bensì di un diffuso rigetto nei confronti di un modello di società sperequata e irriformabile.

E se gli Hofer e le Marie incominciassero a trionfare sul serio? Difficile dire che accadrebbe, ma ritengo che un accordo fra vecchi e “nuovi” non sarebbe irraggiungibile, un po’ perché storicamente i fascismi sorgono e si sviluppano col supporto del Capitale (di quello locale e nazionale però!), molto perché, di conseguenza, il loro progetto autoritario non contempla la liberazione del lavoro e l’accantonamento della logica del profitto. Manovalanza erano e manovalanza restano, malgrado i proclami pseudo rivoluzionari.
In ogni modo, l’Unione Europea sarà scossa nei giorni a venire da violente turbolenze: la crisi ha inciso in profondità, gettando sul lastrico un vasto numero di produttori prima benestanti, e oramai solo chi è a libro paga dell’establishment può desiderare che le cose continuino ad andare avanti come stanno andando.
Naturalmente questa confusa smania di cambiamento potrebbe portare ad inquietanti arroccamenti nazionali o esplodere in sanguinose e sterili sommosse – ma anche evolversi in un anelito rivoluzionario capace di immaginare un nuovo patto sociale, nuovi diritti e nuova solidarietà tra europei accomunati da due millenni di fruttifera convivenza.

III. Che fare? E con chi farlo?

Come mi figuro l’implosione dell’Unione Europea, la messa sotto scacco del suo suggeritore occulto (la NATO americana), la defenestrazione del ristretto gruppo di parassiti che prospera alle nostre spalle?
Potessi scegliere, vorrei partecipare ad uno sciopero insurrezionale di dimensioni inaudite, con decine di milioni di cittadini in strada dal Tevere alla Vistola, da Lisbona alle città dei Balcani: significherebbe la paralisi del sistema.

Visto che però non sto scrivendo il seguito de “La Rivoluzione di settembre”[25] ma sono impegnato in un’analisi, sia pure a largo raggio, tocca confrontarsi con la realtà - e la realtà ci dice che una rivoluzione continentale è evento oggigiorno altamente improbabile. Primo dato: i moti cui abbiamo assistito e assistiamo rivelano uno schietto carattere nazionale, pur non essendo affatto improntati a un becero nazionalismo. La precisazione è rilevante, poiché segnala l’immensa distanza che separa questi fenomeni (Nuit debout, Indignados, ma alludo anche alla mobilitazione per il referendum ellenico della scorsa estate) dalla protesta elettorale incarnata dalla nuova destra, inetta per sua natura a formulare proposte di rottura in campo economico-sociale. Mettiamola così: si afferma una protesta “di sinistra” (di sinistra perché improntata a valori di solidarietà, eguaglianza e alla difesa arrabbiata dei diritti sociali) in paradossale concomitanza con il tracollo nelle urne dei partiti che avrebbero dovuto guidarla, e restano invece tagliati fuori, essendosi ridotti a salmodiare slogan che andavano bene tre-quattro decenni fa.

Moti nazionali, dunque, ma allo stesso tempo inclusivi: la piazza parigina ospita compagni greci e spagnoli, nel giugno di Atene si parlavano tutte le lingue del continente ecc. Il limite di queste inebrianti esperienze è scritto nel loro DNA di movimenti spontanei, non organizzati: nascono, si irrobustiscono ed eventualmente declinano ciascuno per conto suo, senza contatti con l’esterno che non siano episodici. Accennavo ad Atene 2015: molti attivisti visitarono la capitale greca in quei giorni, solidarizzando concretamente con il Popolo ellenico, ma se negli altri stati si fossero susseguiti scioperi d’appoggio e contro il ricatto finanziario forse – dico forse – la pressione sul debole esecutivo Tsipras sarebbe stata meno formidabile, e il 60% e rotti di ΟΧΙ non sarebbe stato ignobilmente tradito.

Il fatto è che tutti (greci, spagnoli, francesi, portoghesi ecc.) scendono in strada per ragioni simili, ma non identiche, e ciascun movimento combatte la propria peculiare battaglia. Facciamo l’esempio del jobs act in salsa francese: lavoratori e studenti d’oltralpe si sono sentiti defraudati da uno Stato fino a ieri generoso, e di cui si fidavano – la risposta è stata decisa, e per un italiano strabiliante. Nella Penisola, un analogo atto di violenza contro i diritti dei cittadini-lavoratori ha suscitato sommessi mugugni e una maratonina romana: in pratica, nessuna reazione. E’ vero che da noi i sindacati rimasti tali sono entità piccolissime (USB, Cobas…), ma sudditanza delle confederazioni, ignavia e l’inafferrabile concetto di “carattere nazionale” non bastano a spiegare ogni cosa. Azzardo un’ipotesi: forse, per quanto riguarda il lavoro, gli italiani sono più di bocca buona rispetto ai francesi, si accontentano di averne uno, anche se non adeguatamente garantito. Siamo dunque geneticamente amorfi? Non tutti e non sempre: rammento la grande mobilitazione del 2011 per il referendum sull’acqua pubblica e quella – duratura, anche se localizzata nel settentrione – per dire no alla TAV[26]. Ricaviamo da questi esempi una particolare sensibilità nei confronti dell’ambiente e dei c.d. beni comuni; più in generale, i connazionali mostrano grande affetto per la Costituzione repubblicana[27], che non a caso Bersani si compiaceva di definire “la più bella del mondo” (sciovinismo da provinciale, ma indicativo di un modo di sentire diffuso).

Poniamo che si riesca ad aggregare moltitudini intorno alla salvaguardia della Carta fondamentale (esporrò nel prossimo capoverso la mia proposta sul tema): quale scopo ci si dovrebbe prefiggere? L’incitamento a una rivoluzione socialista cadrebbe nel vuoto: saremmo presi per dei visionari fuori dal mondo. Uno degli argomenti dibattuti a Chianciano è l’attuabilità di una rivoluzione democratica: come dobbiamo interpretare questa formula? Non nel senso classico di rivoluzione borghese: l’unico ceto parassitario da mandare a casa oggi è quello di cui fanno parte Lapo Elkann e Marchionne… ma questo ci riporterebbe alla rivoluzione socialista, che - come abbiamo riconosciuto – al momento è un “prodotto” non assistito da domanda. Uno spunto prezioso ci viene offerto da un’opera pressoché dimenticata, scritta da Dante Livio Bianco (“Livio”), un comandante partigiano di Giustizia e Libertà. 

A pagina 20 di “Guerra Partigiana”[28] l’autore così si esprime: “I fatti l’hanno poi dimostrato, dando ragione a coloro che vedevan la guerra di liberazione non come una guerra fra stati, fra «nazioni» e «potenze» e «governi» in conflitto, ma come una vera guerra civile, una guerra ideologica e politica quant’altre mai, una guerra destinata (…) a gettare le basi per un ordine nuovo politico e sociale (…) niente apoliticità delle formazioni, ma anzi, necessità assoluta di una coscienza politica, d’una consapevolezza delle ragioni profonde della lotta e degli obiettivi veri da raggiungere (…) che si compendiavano, per noi, in due parole: rivoluzione democratica.” Dal memorandum sottoscritto il 7 agosto ’44 a Villa Pesio dai comandanti partigiani di GL e di alcune formazioni autonome estrapoliamo passaggi illuminanti[29]: “Siamo perciò contro la dittatura della reazione (grosso capitale, alta finanza, agrari, militaristi ecc.) non meno che contro quella del proletariato o di qualsiasi altra classe o gruppo. Lottiamo per l’instaurazione di una sana democrazia, colla salvaguardia piena della libertà, il rispetto della dignità umana, l’abolizione di qualsiasi privilegio, il conseguimento della giustizia sociale (…)”. Ecco la proposta rivoluzionaria democratica e dichiaratamente NON socialista di Giustizia e Libertà: possiamo accoglierla e farla nostra, pur in un quadro storico senz’altro mutato? Io onestamente sottoscriverei i suoi contenuti, anche perché – come dimostrarono con le loro azioni gli estensori del documento – non si trattava di vuote parole. Ma c’è anche un’altra considerazione da fare. In un bell’articolo dedicato al “socialismo” di Bernie Sanders[30], il saggista americano William Blum riporta un gustoso aneddoto: “Mark Brzezinski, figlio di Zbigniew, era un docente della Fulbright[31] a Varsavia alla fine della guerra fredda: «chiesi ai miei studenti di definire la democrazia. Aspettandomi una discussione sulle libertà individuali e le istituzioni autenticamente elette (cioè sul ciarpame che viene spacciato per democrazia, ndr), fui sorpreso nell’udire i miei studenti rispondere che per loro democrazia significa l’obbligo per il governo di mantenere un certo standard di condizioni di vita e di fornire cure sanitarie, educazione e alloggi per tutti. In altre parole, socialismo.» E’ questa la democrazia per cui vale la pena battersi e fare una rivoluzione con o senza aggettivo? Opino di sì, persuaso che tanto Sanders (che è un socialdemocratico nel senso più nobile del termine) quanto “Livio”, se vivesse ancora, sarebbero d’accordo. Ma il prezioso Will Blum[32] aggiunge un elemento di cui dobbiamo assolutamente tener conto: “ogni miglioramento del sistema deve iniziare con un forte impegno per ridurre radicalmente, se non eliminare completamente, la logica del profitto[33].” Sintetizzo il mio pensiero: in un mondo dolorosamente assoggettato alla “dittatura della reazione (grosso capitale, alta finanza, militaristi” – lasciamo perdere gli “agrari” assai meno influenti rispetto all’anteguerra) la prospettiva di una rivoluzione democratica potrebbe attrarre lo strato cosciente delle masse popolari in difficoltà, che costituisce oggidì, a parere di chi scrive, l’unica “classe rivoluzionaria” potenzialmente disponibile. Quest’ipotetica rivoluzione non potrebbe che condurre – gradualmente - verso una società di tipo socialista, per il semplice motivo che la “logica del profitto” appare in insanabile conflitto con quella, ben tratteggiata da Bianco, che sta alla base di un’effettiva democrazia. Non piace il termine “socialismo”? A me piace, ma poco importa, facciamone a meno: in fondo, nomina sunt consequentia rerum, non viceversa.

Il quesito essenziale da porsi è il seguente: c’è da qualche parte un modello che possa fare al caso nostro? La risposta è affermativa, e ci riporta alla Costituzione del ’48. Il rifiuto del profit motive è lapidariamente scolpito negli articoli 41 e 42 della Carta, in cui leggiamo che l’iniziativa economica privata, pur libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e che la tutela dello stesso diritto di proprietà non è assoluta, ma serve ad assicurare la funzione sociale di quest’ultima e a renderla accessibile a tutti. Brzezinski direbbe che questo è “socialismo”, per il sottoscritto si tratta di un fondamentale punto di partenza. La Costituzione contiene numerosi altri principi che, ove messi in pratica, plasmerebbero una società antitetica rispetto a quella verso la quale rapidamente scivoliamo: penso al riferimento alla salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32); al diritto per “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34), con ciò che ne consegue sotto il profilo dell’innalzamento sociale; ai “mezzi adeguati alle esigenze di vita” da fornire a pensionati, invalidi, disoccupati (art. 38); ancora, al diritto ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente a garantire” al lavoratore e ai suoi cari “una esistenza libera e dignitosa” (art. 36), indipendentemente dalle fumisterie pseudoscientifiche del neoliberismo imperante. L’opportunità di “tornare alla Costituzione” e brandirla come arma di lotta ci viene offerta, su un piatto d’argento, dalla cricca renziana, che ha arrogantemente voluto un referendum cui, dopo il disastro delle amministrative, si presenterà con le ossa rotte. Mi si obbietterà che la riforma Boschi non tocca la prima parte, da cui ho estratto gli articoli citati: di modificarla, d’altro canto, non avevano soverchio bisogno, visto che il combinato disposto del nuovo articolo 81 (quello che obbliga all’equilibrio di bilancio) e del nuovissimo articolo 117 (che pone la UE sopra la Costituzione, e incarica il legislatore di “promuovere” la concorrenza, creando un mercato ovunque vi sia domanda) suggellerà la già avvenuta abrogazione di fatto dei principi fondamentali e delle tutele contenute nei primi quattro titoli, una “abrogazione” che ha incontrato scarsa opposizione da parte della Consulta. Faccio notare che l’occasione è troppo propizia per non essere colta, e che quindi conviene alzare la posta, approfittando del nervosismo dell’avversario per prenderlo in contropiede, veicolando attraverso i comitati l’idea che l’unica maniera di salvare la Carta sia quella di attuarla integralmente, sterilizzando tutte le norme europee ed internazionali che risultino con essa incompatibili. Scrissi, sette anni fa, che si poteva costruire “un Socialismo a Costituzione (quasi) invariata”: permango di quest’avviso, e sottolineo che quella regalataci dal referendum è forse l’ultima occasione di riscatto. Non sottovaluto le difficoltà: il tempo è poco, e il fatto che a moltissimi cittadini stia cadendo la benda dagli occhi non comporterà automaticamente una disponibilità alla lotta. Comprendere non equivale ad agire (si pensi all’asino de “La fattoria degli animali”, che alla fine, comunque, una posizione l’assume), ma dev’essere chiaro a tutti che, nella presente situazione, la passività non garantisce alcun trattamento di favore.

Concludo con due rapide riflessioni.

La prima riguarda i “compagni di strada” nella lotta[34], che nella migliore delle ipotesi sarà aspra (ma che potrebbe anche non esserci, e sarebbe peggio). Mi viene in aiuto ancora Livio Bianco, che nel suo libro racconta gli esordi dell’avventura partigiana. Dopo l’8 settembre la IV Armata italiana, in fuga dalla Provenza, si riversa in Piemonte: l’autore, Duccio Galimberti e pochi altri – professionisti, maestri e commercianti che non hanno mai preso un’arma in mano – si rivolgono ai comandi militari chiedendo di partecipare alla resistenza contro i tedeschi. Gli ufficiali di professione trasecolano: cosa vorrà mai questo pugno di esaltati? Il Regio Esercito si liquefa senza sparare un colpo, abbandonando mitra, fucili e carri armati L3; i primi a mettersi in borghese sono i generali e i colonnelli. La delusione è enorme, ma presto i nostri avvocati impareranno l’arte della guerra, da soli. Perché ricordo questa vicenda? Perché il CLN di allora si costituì senza alcuna collaborazione da parte dell’Italia “ufficiale”, troppo impegnata a pararsi il sedere: furono soprattutto l’ardimento di singoli individui e l’efficienza di esigue formazioni politiche temprate dalle persecuzioni e dalla clandestinità a rendere possibile la riscossa. Oggi i partiti sono ridotti a conventicole o a comitati elettorali, e lo stesso vale per i maggiori sindacati: pensare di coinvolgerli in un Comitato di Liberazione Nazionale contro UE, NATO ecc. è utopismo puro. Ha senz’altro più senso dialogare con qualche politico indipendente (mi viene in mente de Magistris, che ha trionfato a Napoli) e con i 5Stelle, che però si stimano autosufficienti, e i cui esponenti di punta sembrano proclivi a una politica di compromesso col potere economico-finanziario (si pensi agli incontri di Di Maio che, pur restando per il momento contrario all’euro, riabilita con dolci parole l’Unione Europea[35]… il che è come dire: sono ostile allo sfruttamento degli operai, ma gerarchie di fabbrica, lavoro salariato e profitto non si toccano!). Per farla breve: il CLN si fa innanzitutto coi cittadini consapevoli, singoli e associati, e se non si riesce ad “arruolarli” tutto è perduto, al di là del numero di sigle che si sarà capaci di mettere insieme.

Ultimissima annotazione: sarei strafelice se ciascun popolo decidesse di combattere la propria specifica battaglia, perché ritengo che l’alternativa sia non già una rivoluzione continentale (che rappresenterebbe ovviamente l’optimum), bensì un’inerzia rotta, di tanto in tanto, da controllabilissimi scoppi di rabbia collettiva, che ci riporterebbero forse all’età dei pogrom. Per avere qualche speranza di riuscita, tuttavia, le insurrezioni dovrebbero scoppiare quasi contemporaneamente, o per lo meno alimentarsi e sorreggersi l’un l’altra: sono quindi indispensabili forme di coordinamento sovranazionale, che nell’era di internet e dei collegamenti aerei sono facilmente realizzabili, ove non faccia difetto la volontà. L’esempio ci viene ancora una volta dal passato: i partigiani piemontesi si proponevano di cacciare l’invasore dall’Italia, ma collaborarono strettamente con i maquis francesi; un secolo prima, uomini come Garibaldi e Jòzef Bem abbracciarono la causa di popoli di cui a stento capivano la lingua.

A cose fatte ciascuno potrà anche scegliere di andare per la sua strada o, più ragionevolmente, si potrà optare per un processo di progressiva integrazione su base volontaria e democratica – ciò che mi sento di escludere è che vi siano popoli e Paesi in grado di fare tutto da soli. Il sistema ha risorse sufficienti a schiacciare senza affanno proteste e sollevazioni isolate: la mestissima conclusione di quel miracolo chiamato ΟΧΙ sia di monito per noi tutti.


NOTE

[2] Dalla Croazia rimbalza la notizia che il premier (sfiduciato per fortuna dopo appena 5 mesi, malgrado l’interessata difesa d’ufficio degli europarlamentari croati) Orešković, manager di una multinazionale farmaceutica attualmente nelle vesti di politico “riformista”, avrebbe offerto all’americana Monsanto - produttrice del glifosato, ma, stando al sito web, paladina degli immancabili diritti umani -10 mila ettari di terra in Slavonia. L’Europa come l’America latina: è solo questione di tempo. http://www.dnevno.hr/planet-x/hrvatska-probudi-se-oreskovic-planira-slavoniju-dati-monsantu-korporaciji-koja-ubija-ljude-910123
[3] L’articolo di Federica Bianchi si intitola significativamente Patto avvelenato (pagg. da 12 a 19 della rivista). 
[4] Con guerre economiche, rivoluzioni colorate ecc.
[5] L’accusa di “complottismo” fa il paio con quella, ultimamente assai in voga (a sinistra), di “rossobrunismo”: è comodissima, perché nel dibattito pubblico rovescia di fatto l’onere della prova, esimendo chi la rivolge dal fastidio di entrare nel merito delle questioni. Come scrissi nel mio “Invito al Socialismo” (del 2009), i regimi capitalistici non hanno nessun bisogno dei gulag per tacitare gli oppositori, potendoli ridurre al silenzio con la squalifica sociale e il dileggio.
[6] Ma – sempre per scelta strategica – talora dicono brutalmente il vero, o perlomeno quello che pensano (v. certe dichiarazioni sulle Costituzioni dell’Europa mediterranea eccessivamente “socialiste” e perciò da modificare), quando ritengono che ciò possa risultare utile ai loro scopi. Osservo che se fino a qualche anno fa nel messaggio pubblico prevalevano le blandizie - ricordiamo i “ristoranti pieni” di Berlusconi e gli altri suoi messaggi ottimistici – oggi si preferisce ricorrere a rimproveri e velate minacce: più che alimentare il consenso si punta a diffondere la “paura” cara a Starace e un atteggiamento di rassegnato fatalismo nei confronti dei mutamenti peggiorativi in corso.
[7] A proposito di quest’ultimo mi preme sottolineare che il contegno dei professori e delle autorità accademiche di Cambridge è stato non meno reticente, nei confronti della giustizia italiana, di quello di polizia e magistrati egiziani: il povero Regeni ha pagato, con ogni probabilità, l’inconsapevole coinvolgimento in una partita troppo più grande di lui, condotta con eguale cinismo dai due “giocatori”.
[8] Tratto da L’OTTANTANOVE DI GORBACIOV (DOCUMENTI), pagg. 239-240, L’Unità, 1989.
[9] Rimando al mio articolo L’automa e il Capitale (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2016/04/lautoma-e-il-capitale-di-norberto.html).
[10] In quanto gli interessi della classe che servono o alla quale direttamente appartengono contrastano irrimediabilmente con lo “sviluppo incondizionato delle forze produttive” cui per sua natura tende il modo di produzione capitalista.
[11] http://www.robotiko.it/esoscheletro-da-combattimento/
[12] La portata del fenomeno non è sfuggita alla direzione de L’Espresso che, nel numero del 9 giugno, gli dedica la copertina (“Parigi brucia!”) e un’approfondita, preoccupata analisi nelle pagine interne. L’intento è quello di presentare la protesta come minoritaria e antistorica (sono molti di meno che nel ’68, si oppongono all’inevitabile ecc.) e screditarne i leader – in particolare il capo del sindacato comunista CGT -, ma fra le righe dell’articolo non banale di Gigi Riva si coglie un senso di sgomento di fronte a una situazione che, nella sua apparente “novità”, ricorda molto le contestazioni novecentesche.
[13] Ai black bloc (ma esisteranno davvero?) si sono aggiunti, nel mese di giugno, hooligans provenienti da mezza Europa, che hanno messo a ferro e a fuoco le città francesi, malgrado l’Europeo 2016 non fosse esattamente un evento imprevisto. La polizia, sempre pronta ad aggredire i picchetti operai, pare si sia lasciata sorprendere da una “invasione” annunciata anche nelle proporzioni. Non mi sento di escludere (anzi…) che questo sfoggio di inefficienza sia stato pianificato per generare, nell’opinione pubblica, un sentimento di saturazione che conduca al rifiuto di qualsiasi comportamento possa cagionare “incidenti”.
[14] Ancor più miope è ovviamente il movimento italiano dei 5 Stelle, che guardano il dito (i partiti politici) anziché la luna (la UE e gli altri motori immobili di politiche che rassomigliano a un format).
[15] Ricordo una risposta che suonava pressappoco così: non è del terrorismo che mi preoccupo ma delle politiche del nostro governo, perché è molto improbabile che io venga assassinato da un terrorista, mentre il rischio che io viva un futuro da precario, senza diritti, è quasi una certezza.
[16] Questo adeguamento, avvenuto nei primi anni ’90 (all’epoca dell’esecutivo Amato, quando il discredito dei partiti nazionali raggiunse un momentaneo apice e il governo si trovò costretto a cercare interlocutori più credibili) ha determinato la rinuncia al ruolo di antagonista: le organizzazioni – non ultima la CGIL – hanno assunto la veste di codecisore, si sono burocratizzate e hanno disimparato a lottare.
[17] Confesso: pur tifando per la Brexit, non mi attendevo questo risultato “eversivo”. Ecco le mie previsioni, risalenti alla metà di giugno:Per il momento la permanenza della Gran Bretagna nella UE ha scongiurato la catastrofe, ma i dati risicatissimi non possono rallegrare sul serio i burocrati-manager di Bruxelles e chi li sponsorizza: abbiamo assistito alla sofferta vittoria di una squadra arroccata in difesa, ottenuta minacciando inverosimili cataclismi (comunque annunciati da scosse borsistiche) e sfruttando – in parte – l’ondata di emozione suscitata dal brutale assassinio della deputata europeista Jo Cox, già in odor di santità per il suo impegno in favore dei diritti umani.”
[18] Sui motivi per cui alla Gran Bretagna è stato riconosciuto uno statuto speciale in seno alla UE mi soffermo nell’articolo Brexit? Yes, why not? (http://sollevazione.blogspot.it/2016/05/brexit-yes-why-not-di-norberto.html)
[19] Consiglio la lettura dell’articolo di F. CAPALBO Il diritto amministrativo nei tempi della crisi finanziaria (http://www.provincia.palermo.it/provpalermo/allegati/13847/6_Ferruccio_Capaldo_il-diritto-nei-tempi-di-crisi-finanziaria.pdf)
[20] Penso alla spiaggia riservata ai gay che il “guru” catalano Ejarque proponeva di aprire a Lignano Sabbiadoro (UD). Si può definirla altrimenti che un ghetto alla moda?
[21] Si considerino, a titolo esemplificativo, le proposte politiche del II Governo Tsipras, quello post referendum.
[22] Si accontentano ai sensi di legge: la “generosità” di Frau Merkel ha deii limiti (http://www.repubblica.it/esteri/2016/04/15/news/migranti_la_germania_rilancia_via_alla_prima_legge_sull_integrazione-137678114/).
[23] A differenza dei balbettii della Sinistra marxista tradizionale, che attacca la UE senza metterla davvero in discussione. Chi coltiva dubbi amletici è meglio che si astenga dal fare politica (capito, Ferrero?)…
[24] Tra queste ultime annovero il M5S, non etichettabile, e nuove sinistre come Podemos e gli sloveni di Združena Levica. La sinistra marxista tradizionale è invece dappertutto in via di estinzione, se si eccettua il PCP portoghese, che ha il merito di non essersi mai fatto abbindolare dalla propaganda europeista.
[25] Il racconto è scaricabile gratuitamente dal blog Bandiera Rossa in Movimento (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/p/i-quaderni-di-bandiera-rossa.html).
[26] Non sottovaluterei nemmeno la convinta (e per me positiva) difesa delle identità locali, testimoniata nel territorio in cui vivo dal diniego popolare a ben tre proposte di fusioni comunali (19 giugno ’16).
[27] Osservo che in ogni lembo del territorio nazionale, dalla Sicilia a Trieste, stanno sorgendo spontaneamente comitati per la difesa della Legge fondamentale minacciata dalla c.d. Riforma Boschi.
[28] DANTE LIVIO BIANCO, Guerra partigiana, Einaudi, ult. Rist. 2006.
[29] D. L. BIANCO, op. cit., pag. 105.
[31] Potremmo considerare i ricercatori del Programma Fulbright come missionari del verbo neoliberista in terra (ancora) infidelium.
[32] Alla cui opera “Il Libro Nero degli Stati Uniti” ho dedicato tre anni fa ho dedicato un’ammirata recensione (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/05/quid-est-america-la-versione-di-william.html).
[33] Mia traduzione dell’espressione inglese profit motive.
[34] Ma i “compagni di strada” di chi?, si starà domandando il lettore curioso e un po’ spaesato. Chi sono questi fantomatici noi, che pretendono di condurre la lotta, dialogare, “arruolare” ecc.? Rispondo che si tratta dei movimenti/organizzazioni che si sono dati convegno a Napoli il 21 maggio (http://sollevazione.blogspot.it/2016/05/italexit-napoli-21-maggio.html) e di altre realtà non fossilizzate della “sinistra radicale”, irriducibilmente ostili – in ordine di importanza – al Capitale, alla NATO pilotata da Washington, alla UE delle lobby, alla “sinistra” liberista europea e alla banda Renzi. Riusciranno tutte queste tessere a comporre finalmente un mosaico o cederanno, una volta ancora, al fascino irresistibile di un settarismo da età prescolare? Nella disperata situazione odierna gelosie, ripicche e atteggiamenti da primadonna sarebbero un delitto capitale, perciò mi proclamo ottimista (e da Trieste sono sceso a Chianciano).
[35] Appaiono chiarificatrici alcune dichiarazioni rese il 23 giugno, a urne aperte, dai maggiorenti 5 Stelle (blog di Grillo, europarlamentare Borrelli ospite della maratona di Mentana): loro sono a Bruxelles “per cambiare la UE dall’interno”. Si badi: è la stessa identica filastrocca intonata, non appena se ne presenti il destro, dalla Presidente Boldrini. 

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ha citato Garibaldi...ma si può...per cortesia, nei riferimenti a figure storiche evitiamo le castronerie...

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