[ 12 febbraio ]
In più occasioni siamo intervenuti in polemica con chi mitizza internet e web come mezzi "libertari" e "democratici".
QUI; QUI e QUI ad esempio.
L'articolo di Formenti ha quasi due anni di vita, ma vale davvero la pena di leggerlo.
Un nuovo pamphlet del collettivo di hacker libertari Ippolita smonta due luoghi comuni sulla Rete: che sia uno strumento intrinsecamente democratico. E che disporre di più informazione significhi automaticamente essere più liberi.
di Carlo Formenti
Già autori di feroci quanto argomentate requisitorie contro i “signori del Web” (memorabili le dissacrazioni di Google e Facebook), nonché di puntuali ridimensionamenti di altri miti cari al “Popolo della Rete” (vedi la disincantata analisi dei limiti dell’ideologia dell’open e del free) i ragazzi e le ragazze del collettivo Ippolita (una comunità di hacker libertari) tornano a colpire con un nuovo pamphlet (“La Rete è libera e democratica”. FALSO!) appena uscito per i tipi di Laterza (nella collana Idòla).
In questo caso, tuttavia, il bersaglio non è solo un’applicazione, come un motore di ricerca o un social network, né una comunità di prosumer, come gli sviluppatori di software open source, bensì la Rete in quanto tale che, come ricordano opportunamente gli autori, non si riduce al Web o ad altre piattaforme informatiche, ma è fatta dell’insieme di tecnologie “hard” (computer, cavi, satelliti, router, ecc.), “soft” (protocolli, programmi, codici, ecc.) e “bio” (programmatori, utenti, imprese, ecc.) che convergono in quell’immane e supercomplesso ambiente di relazioni umane e macchiniche che è Internet.
In altre parole, con questo intervento, Ippolita alza decisamente il tiro, con l’obiettivo di smontare due luoghi comuni che per la stragrande maggioranza sono divenute veri e propri dogmi: 1) la Rete è uno strumento intrinsecamente (cioè per natura) democratico; 2) disporre di più informazione significa automaticamente essere più liberi. A tale scopo gli autori ricorrono a tre argomenti (che corrispondono ad altrettanti capitoli del libro) che definiscono, rispettivamente, ontologico, epistemologico e storico geopolitico (implicita confessione del fatto che i loro percorsi formativi hanno seguito piste accademiche oltre che tecnopolitiche).
L’argomento ontologico si propone di mettere a confronto l’immaginario (o, se si preferisce, l’ideologia) che si è venuto costruendo nei primi decenni di vita di questo medium, con ciò che la Rete effettivamente è. L’ideologia è quella del cosiddetto Web 2.0, che descrive Internet come un ambiente tecnoculturale aperto, “orizzontale”, in cui tutti possono attingere liberamente a ogni genere di conoscenze, notizie e informazioni, e dove tutti possono altrettanto liberamente comunicare, esprimere le proprie opinioni, idee ed emozioni, costruire comunità, ecc. Viceversa la realtà, l’ontologia, della Rete è quella di un ambiente tecnoculturale che ha dei padroni, in cui un pugno di imprese controlla algoritmi e procedure che definiscono apriori che cosa possiamo conoscere e cosa “vogliamo” comunicare. Si tratta, dunque, di un livello di manipolazione ben più radicale e profondo di quello della vecchia comunicazione pubblicitaria, perché il controllo viene esercitato apriori e non a posteriori. Non si tratta, cioè, di orientare l’intenzionalità dell’utente-cittadino-consumatore (o netizen come si preferisce definirlo nell’era digitale) bensì letteralmente di produrla.
Passiamo all’argomento epistemologico. Qui il bersaglio polemico sono gli slittamenti semantici che fanno sì che il concetto di libertà finisca per essere identificato con il concetto di trasparenza, e che l’opinione maggioritaria finisca per divenire sinonimo di qualità, o addirittura di verità. Esaminando criticamente l’ossessione della trasparenza di Wikileaks, la mania del Movimento 5Stelle per le votazioni online e il funzionamento dell’algoritmo Page Rank che ispira le risposte di Google alle domande dei propri utenti (fondato sull’assunto che quanto più è elevato il numero di link che “puntano” su una pagina tanto più debba essere considerato “vero”, o almeno attendibile, il suo contenuto), gli autori fanno capire come queste semplificazioni finiscano per appiattire la realtà, neutralizzandone le stratificazioni e le contraddizioni e quindi riducendo drasticamente, invece di aumentare, la nostra capacità di comprenderla.
Infine l’argomento storico-geopolitico. Tornando alle radici della democrazia, cioè alle idee, alle pratiche e alle istituzioni che la Grecia classica associava a tale concetto, Ippolita dimostra come il principio di isonomia (cioè la distribuzione egualitaria di risorse, opportunità, diritti e doveri fra cittadini) su cui tutto ciò si fondava abbia ben poco da spartire con il mondo dei Big Data in cui viviamo, un mondo in cui gli stati nazione hanno consegnato il bastone del comando nelle mani dei signori del codice, siano essi multinazionali informatiche, governi dispotici o altro. Un mondo in cui siamo sì tutti “uguali”, ma solo perché sottoposti al medesimo “stato di eccezione di massa”. “La tensione suicida a contribuire alla Rete” concludono pessimisticamente gli autori, “suona quindi come la campana a morto dell’autonomia individuale e collettiva, come la resa totale alla tecnocrazia… costituitevi ed entrate nella Democrazia Digitale, è la Rete che ve lo chiede”.
LA DISONESTÀ DELLA TRASPARENZA TOTALE
di Ippolita
Un estratto da “La Rete è libera e democratica”. FALSO! di Ippolita (Laterza), da www.laterza.it
Come guadagna Google? Più in generale, come è possibile che tutti i servizi della Rete (ovvero del Web 2.0), Facebook e Twitter, LinkedIn e WhatsApp, G+ e Skype, tutte le miriadi di giochi e applicazioni, siano gratuiti? Tale è la promessa della democrazia senza sforzo, della libertà a costo zero, o meglio esentasse (per i padroni digitali).
La moneta con cui paghiamo il prezzo di tutto ciò siamo noi, sono i nostri percorsi, le nostre esplorazioni, la nostra unica e inimitabile impronta digitale, e Google ha anticipato i tempi fornendo un nuovo modello di business che sta cambiando le aziende produttrici portandole a realizzare «prodotti di massa personalizzati». Oggi chi vuole fare profitto si adegua rapidamente.
I servizi che usiamo li paghiamo con qualcosa di più prezioso del denaro: le nostre informazioni personali e quelle dei nostri amici. Ogni volta che utilizziamo i servizi 2.0, così come tutte le altre dozzine di applicazioni collegate, in ognuno di quei momenti stiamo regalando informazioni su noi stessi. Questa pratica si chiama profilazione e ufficialmente viene usata per proporci pubblicità mirate. Se siamo terroristi, pericolosi per la democrazia e la libertà, vengono fornite alle agenzie che ne fanno richiesta, ma intanto ogni nostro movimento viene registrato e il dossier digitale di ciascuno di noi cresce a dismisura.
Noi non abbiamo alcun controllo su quei dati, non sappiamo nemmeno come vengano gestiti ed è curioso che ci si preoccupi tanto del controllo esercitato da parte dello Stato e delle sue agenzie, a partire da quelle fiscali, e così poco del controllo applicato dai nuovi padroni digitali. Il nitore «googliano», così come la trasparenza relazionale che Facebook propone e impone, fa da contrasto al completo occultamento dei sistemi tecnici e dei dispositivi economici.
La trasparenza totale, propagandata come stile di vita onesto, è una trasparenza del nulla, poiché chi è responsabile del servizio si sottrae a qualsiasi confronto. Provate a chiedere conto a Facebook di come tratta i vostri dati; provate a chiedere a PayPal perché vi ha bloccato il conto. Se siete abbastanza influenti è possibile che vi rispondano, ma non prima di avervi fatto firmare un apposito Non-disclosure agreement (Accordo di riservatezza): la trasparenza vale per la massa, non per i sistemi di potere, e l’ingegneria sociale sottesa alla piattaforma rimarrà dissimulata, negata, materia per la tecnocrazia.
Questa vigilanza costante sui flussi digitali in tutto il globo fa girare parecchio denaro. L’industria dei meta-dati e del profiling legato alle tecniche di data mining è tutto ciò che non riguarda il dato in sé, ma il complesso delle informazioni che vi ruotano attorno: chi, dove, in relazione a cosa, in quale stato emotivo.
Oggi si parla di Big Data come del nuovo filone aurifero dell’economia informatica: questo tipo di mercato fa affidamento sull’inconsapevolezza dell’utente, sulla leggerezza con la quale espone le sue informazioni personali, sull’entusiasmo con cui le fa circolare insieme a quelle di coloro che lo circondano, mentre è diventato urgente elaborare una visione complessiva, trasversale, critica, e bisogna insistere sulle pratiche di autoformazione e autodifesa digitale.
Internet non si sta espandendo e arricchendo; Google non sta rendendo il mondo più democratico; Facebook non ci sta rendendo migliori; Apple non ci sta facendo diventare creativi; Amazon non sta ampliando la nostra possibilità di scelta; Twitter non è il nostro orecchio sulle rivoluzioni in corso. Ci sono solo un pugno di protagonisti, i nuovi padroni digitali appunto, i grandi mediatori informazionali, che ricombinano lo spazio in sotto-reti comunitarie sempre più omogenee.
I preziosi meta-dati foraggiano una fetta notevole dei mercati finanziari. Mentre in tutto il mondo infuria la più virulenta crisi economica dopo la Grande Depressione, l’andamento complessivo dei titoli borsistici di natura tecnologica (riassunti dall’indice Nasdaq) è decisamente al rialzo: è dal crollo del 2009 (comunque di portata minore rispetto a quello delle dot com avvenuto nell’aprile del 2000) che la crescita procede senza sosta. Solo i beni di lusso hanno conosciuto una crisi più blanda.
Non è difficile intuire come, una volta costruite le infrastrutture, sia possibile dirigere in maniera eterogenea le masse, instillando desideri indotti (un nuovo iPhone quando non abbiamo ancora finito di pagare quello vecchio), stimolando a fornire sempre più informazioni (il tuo numero di cellulare per accedere «con maggior sicurezza» al tuo account) e così via...
Così facendo si ottiene una vera e propria «formazione a distanza» all’utilizzo di sempre nuove piattaforme e dispositivi: è la nuova Paidèia Commerciale nella quale impariamo a essere cittadini-consumatori. Tale formazione è permanente grazie alla perenne prossimità dei dispositivi: chi dorme con lo smartphone vicino? Chi si disconnette mentre è impegnato in attività ludiche, o persino sessuali?
Nulla di nuovo per chi conosce la pervasività del bio-potere, anche se le modalità con cui la creazione spontanea di senso viene convogliata e messa in produzione sono sempre più sofisticate. Ma il mondo di Internet non è solo messa a profitto della libido, non è uno spazio-tempo consacrato solo al dio denaro, ci sono un sacco di altre cose. Sta a noi cercarle.
[...] Ci vuole un cambio di mentalità, nuovi approcci etici ed estetici, magari a cominciare dall’uso del buon vecchio software libero, che non è la panacea d’ogni male, ma un ottimo inizio.
* Fonte: Micromega
In più occasioni siamo intervenuti in polemica con chi mitizza internet e web come mezzi "libertari" e "democratici".
QUI; QUI e QUI ad esempio.
L'articolo di Formenti ha quasi due anni di vita, ma vale davvero la pena di leggerlo.
Un nuovo pamphlet del collettivo di hacker libertari Ippolita smonta due luoghi comuni sulla Rete: che sia uno strumento intrinsecamente democratico. E che disporre di più informazione significhi automaticamente essere più liberi.
di Carlo Formenti
Già autori di feroci quanto argomentate requisitorie contro i “signori del Web” (memorabili le dissacrazioni di Google e Facebook), nonché di puntuali ridimensionamenti di altri miti cari al “Popolo della Rete” (vedi la disincantata analisi dei limiti dell’ideologia dell’open e del free) i ragazzi e le ragazze del collettivo Ippolita (una comunità di hacker libertari) tornano a colpire con un nuovo pamphlet (“La Rete è libera e democratica”. FALSO!) appena uscito per i tipi di Laterza (nella collana Idòla).
In questo caso, tuttavia, il bersaglio non è solo un’applicazione, come un motore di ricerca o un social network, né una comunità di prosumer, come gli sviluppatori di software open source, bensì la Rete in quanto tale che, come ricordano opportunamente gli autori, non si riduce al Web o ad altre piattaforme informatiche, ma è fatta dell’insieme di tecnologie “hard” (computer, cavi, satelliti, router, ecc.), “soft” (protocolli, programmi, codici, ecc.) e “bio” (programmatori, utenti, imprese, ecc.) che convergono in quell’immane e supercomplesso ambiente di relazioni umane e macchiniche che è Internet.
In altre parole, con questo intervento, Ippolita alza decisamente il tiro, con l’obiettivo di smontare due luoghi comuni che per la stragrande maggioranza sono divenute veri e propri dogmi: 1) la Rete è uno strumento intrinsecamente (cioè per natura) democratico; 2) disporre di più informazione significa automaticamente essere più liberi. A tale scopo gli autori ricorrono a tre argomenti (che corrispondono ad altrettanti capitoli del libro) che definiscono, rispettivamente, ontologico, epistemologico e storico geopolitico (implicita confessione del fatto che i loro percorsi formativi hanno seguito piste accademiche oltre che tecnopolitiche).
L’argomento ontologico si propone di mettere a confronto l’immaginario (o, se si preferisce, l’ideologia) che si è venuto costruendo nei primi decenni di vita di questo medium, con ciò che la Rete effettivamente è. L’ideologia è quella del cosiddetto Web 2.0, che descrive Internet come un ambiente tecnoculturale aperto, “orizzontale”, in cui tutti possono attingere liberamente a ogni genere di conoscenze, notizie e informazioni, e dove tutti possono altrettanto liberamente comunicare, esprimere le proprie opinioni, idee ed emozioni, costruire comunità, ecc. Viceversa la realtà, l’ontologia, della Rete è quella di un ambiente tecnoculturale che ha dei padroni, in cui un pugno di imprese controlla algoritmi e procedure che definiscono apriori che cosa possiamo conoscere e cosa “vogliamo” comunicare. Si tratta, dunque, di un livello di manipolazione ben più radicale e profondo di quello della vecchia comunicazione pubblicitaria, perché il controllo viene esercitato apriori e non a posteriori. Non si tratta, cioè, di orientare l’intenzionalità dell’utente-cittadino-consumatore (o netizen come si preferisce definirlo nell’era digitale) bensì letteralmente di produrla.
Passiamo all’argomento epistemologico. Qui il bersaglio polemico sono gli slittamenti semantici che fanno sì che il concetto di libertà finisca per essere identificato con il concetto di trasparenza, e che l’opinione maggioritaria finisca per divenire sinonimo di qualità, o addirittura di verità. Esaminando criticamente l’ossessione della trasparenza di Wikileaks, la mania del Movimento 5Stelle per le votazioni online e il funzionamento dell’algoritmo Page Rank che ispira le risposte di Google alle domande dei propri utenti (fondato sull’assunto che quanto più è elevato il numero di link che “puntano” su una pagina tanto più debba essere considerato “vero”, o almeno attendibile, il suo contenuto), gli autori fanno capire come queste semplificazioni finiscano per appiattire la realtà, neutralizzandone le stratificazioni e le contraddizioni e quindi riducendo drasticamente, invece di aumentare, la nostra capacità di comprenderla.
Infine l’argomento storico-geopolitico. Tornando alle radici della democrazia, cioè alle idee, alle pratiche e alle istituzioni che la Grecia classica associava a tale concetto, Ippolita dimostra come il principio di isonomia (cioè la distribuzione egualitaria di risorse, opportunità, diritti e doveri fra cittadini) su cui tutto ciò si fondava abbia ben poco da spartire con il mondo dei Big Data in cui viviamo, un mondo in cui gli stati nazione hanno consegnato il bastone del comando nelle mani dei signori del codice, siano essi multinazionali informatiche, governi dispotici o altro. Un mondo in cui siamo sì tutti “uguali”, ma solo perché sottoposti al medesimo “stato di eccezione di massa”. “La tensione suicida a contribuire alla Rete” concludono pessimisticamente gli autori, “suona quindi come la campana a morto dell’autonomia individuale e collettiva, come la resa totale alla tecnocrazia… costituitevi ed entrate nella Democrazia Digitale, è la Rete che ve lo chiede”.
* * *
LA DISONESTÀ DELLA TRASPARENZA TOTALE
di Ippolita
Un estratto da “La Rete è libera e democratica”. FALSO! di Ippolita (Laterza), da www.laterza.it
Come guadagna Google? Più in generale, come è possibile che tutti i servizi della Rete (ovvero del Web 2.0), Facebook e Twitter, LinkedIn e WhatsApp, G+ e Skype, tutte le miriadi di giochi e applicazioni, siano gratuiti? Tale è la promessa della democrazia senza sforzo, della libertà a costo zero, o meglio esentasse (per i padroni digitali).
La moneta con cui paghiamo il prezzo di tutto ciò siamo noi, sono i nostri percorsi, le nostre esplorazioni, la nostra unica e inimitabile impronta digitale, e Google ha anticipato i tempi fornendo un nuovo modello di business che sta cambiando le aziende produttrici portandole a realizzare «prodotti di massa personalizzati». Oggi chi vuole fare profitto si adegua rapidamente.
I servizi che usiamo li paghiamo con qualcosa di più prezioso del denaro: le nostre informazioni personali e quelle dei nostri amici. Ogni volta che utilizziamo i servizi 2.0, così come tutte le altre dozzine di applicazioni collegate, in ognuno di quei momenti stiamo regalando informazioni su noi stessi. Questa pratica si chiama profilazione e ufficialmente viene usata per proporci pubblicità mirate. Se siamo terroristi, pericolosi per la democrazia e la libertà, vengono fornite alle agenzie che ne fanno richiesta, ma intanto ogni nostro movimento viene registrato e il dossier digitale di ciascuno di noi cresce a dismisura.
Noi non abbiamo alcun controllo su quei dati, non sappiamo nemmeno come vengano gestiti ed è curioso che ci si preoccupi tanto del controllo esercitato da parte dello Stato e delle sue agenzie, a partire da quelle fiscali, e così poco del controllo applicato dai nuovi padroni digitali. Il nitore «googliano», così come la trasparenza relazionale che Facebook propone e impone, fa da contrasto al completo occultamento dei sistemi tecnici e dei dispositivi economici.
La trasparenza totale, propagandata come stile di vita onesto, è una trasparenza del nulla, poiché chi è responsabile del servizio si sottrae a qualsiasi confronto. Provate a chiedere conto a Facebook di come tratta i vostri dati; provate a chiedere a PayPal perché vi ha bloccato il conto. Se siete abbastanza influenti è possibile che vi rispondano, ma non prima di avervi fatto firmare un apposito Non-disclosure agreement (Accordo di riservatezza): la trasparenza vale per la massa, non per i sistemi di potere, e l’ingegneria sociale sottesa alla piattaforma rimarrà dissimulata, negata, materia per la tecnocrazia.
Questa vigilanza costante sui flussi digitali in tutto il globo fa girare parecchio denaro. L’industria dei meta-dati e del profiling legato alle tecniche di data mining è tutto ciò che non riguarda il dato in sé, ma il complesso delle informazioni che vi ruotano attorno: chi, dove, in relazione a cosa, in quale stato emotivo.
Oggi si parla di Big Data come del nuovo filone aurifero dell’economia informatica: questo tipo di mercato fa affidamento sull’inconsapevolezza dell’utente, sulla leggerezza con la quale espone le sue informazioni personali, sull’entusiasmo con cui le fa circolare insieme a quelle di coloro che lo circondano, mentre è diventato urgente elaborare una visione complessiva, trasversale, critica, e bisogna insistere sulle pratiche di autoformazione e autodifesa digitale.
Internet non si sta espandendo e arricchendo; Google non sta rendendo il mondo più democratico; Facebook non ci sta rendendo migliori; Apple non ci sta facendo diventare creativi; Amazon non sta ampliando la nostra possibilità di scelta; Twitter non è il nostro orecchio sulle rivoluzioni in corso. Ci sono solo un pugno di protagonisti, i nuovi padroni digitali appunto, i grandi mediatori informazionali, che ricombinano lo spazio in sotto-reti comunitarie sempre più omogenee.
I preziosi meta-dati foraggiano una fetta notevole dei mercati finanziari. Mentre in tutto il mondo infuria la più virulenta crisi economica dopo la Grande Depressione, l’andamento complessivo dei titoli borsistici di natura tecnologica (riassunti dall’indice Nasdaq) è decisamente al rialzo: è dal crollo del 2009 (comunque di portata minore rispetto a quello delle dot com avvenuto nell’aprile del 2000) che la crescita procede senza sosta. Solo i beni di lusso hanno conosciuto una crisi più blanda.
Non è difficile intuire come, una volta costruite le infrastrutture, sia possibile dirigere in maniera eterogenea le masse, instillando desideri indotti (un nuovo iPhone quando non abbiamo ancora finito di pagare quello vecchio), stimolando a fornire sempre più informazioni (il tuo numero di cellulare per accedere «con maggior sicurezza» al tuo account) e così via...
Così facendo si ottiene una vera e propria «formazione a distanza» all’utilizzo di sempre nuove piattaforme e dispositivi: è la nuova Paidèia Commerciale nella quale impariamo a essere cittadini-consumatori. Tale formazione è permanente grazie alla perenne prossimità dei dispositivi: chi dorme con lo smartphone vicino? Chi si disconnette mentre è impegnato in attività ludiche, o persino sessuali?
Nulla di nuovo per chi conosce la pervasività del bio-potere, anche se le modalità con cui la creazione spontanea di senso viene convogliata e messa in produzione sono sempre più sofisticate. Ma il mondo di Internet non è solo messa a profitto della libido, non è uno spazio-tempo consacrato solo al dio denaro, ci sono un sacco di altre cose. Sta a noi cercarle.
[...] Ci vuole un cambio di mentalità, nuovi approcci etici ed estetici, magari a cominciare dall’uso del buon vecchio software libero, che non è la panacea d’ogni male, ma un ottimo inizio.
* Fonte: Micromega
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