[ 11 ottobre ]
«Il nesso tecnologia/capitalismo è tornato recentemente alla ribalta, interpretato in termini ottimistici, nel fortunato libro di Paul Mason, "Postcapitalism" (che a breve uscirà anche in Italia). L'errore è pensare che la tecnologia abbia il potere di liberarci dal capitalismo. È piuttosto il contrario: è la tecnologia che permette al capitalismo di sopravvivere ai suoi problemi.»
* Fonte: Micromega
«Il nesso tecnologia/capitalismo è tornato recentemente alla ribalta, interpretato in termini ottimistici, nel fortunato libro di Paul Mason, "Postcapitalism" (che a breve uscirà anche in Italia). L'errore è pensare che la tecnologia abbia il potere di liberarci dal capitalismo. È piuttosto il contrario: è la tecnologia che permette al capitalismo di sopravvivere ai suoi problemi.»
E’ arrivato un
nuovo profeta che
promette un postcapitalismo meraviglioso,
umano, collaborativo, intellettuale, gratuito. Un postcapitalismo che sta
nascendo dal capitalismo stesso e che, come il proletariato di Marx
cancellerà questo capitalismo
e ci porterà gioia, felicità, condivisione libera, la liberazione dalla fatica,
eccetera eccetera.
Perché si compia il
passaggio al postcapitalismo basta
confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie,
confidare nel loro potere liberatorio e liberante nonché libertario, nella loro
capacità di diffondere nuovi modi di lavorare e di consumare liberando il tempo
dal lavoro e permettendo a noi mortali attività in rete finalmente libere e
quindi non capitalistiche. Basta credere che il web sia la nuova fabbrica e che svolga la
stessa funzione delle fabbriche del
XIX° secolo e che il suo proletariato
digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più
connesso, possa abbattere questo capitalismo.
Tutto bello e
affascinante.
Dimenticando però che se il vecchio proletariato —che era
classe in sé ma
anche per sé avendo
una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo— è stato ormai
in-corporato nel (è parte del corpo politico e culturale del) sistema
capitalista, si è progressivamente sciolto nel
capitalismo e ne condivide l’egemonia, questo proletariato digitale è nato
invece già antropologicamente capitalista, non ha alcuna idea di una possibile
alternativa, ha assunto in sé l’imperativo della propria integrazione nel
sistema (il dover essere
connessi) e pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti
lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e
fordizzati in rete o uberizzati ovunque)
non è classe per sé né
potrà mai esserlo perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica
alternativa (perché è ormai convinto che: non ci sono alternative) in quanto ciascun componente
di questo metaforico proletariato
digitale è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo
in competizione con gli altri. Difficile immaginare la realizzazione di un
postcapitalismo se ormai l’essenza della
stessa società è il capitalismo più la
tecnica. Difficile immaginare un’alternativa se ogni giorno il sistema ci educa
ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in
versione non 2.0 ma 0.0).
Eppure oggi circola
questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel Postcapitalismo che sta
occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti sempre e
comunque e mai abbastanza —della vecchia favola
del postcapitalismo che
verrà.
In realtà, leggendo Mason —che pure offre proposte decisamente
interessanti e intriganti, come un mondo senza mercato, i banchieri centrali
eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito
di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di
macchine beni e servizi a costi marginali nulli— sembra di fare un salto
indietro nel tempo, a quando la rete era agli inizi ma già dimostrava la sua
sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di
massa; a quando la rete era soprattutto una macchina capace di generare uno
sconfinato e inarrestabile storytelling capace
di abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni
anticonformismo tecnologico; a quando la rete si trasformava da mezzo di comunicazione in mezzo di connessione di
ciascuno nella rete, in modi simili alla vecchia catena di montaggio anche se
globali e virtuali.
Leggere Mason fa
l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90
del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici,
prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale
per tutti), alla fine del
lavoro (1995) e all’Era dell’accesso (2000)
di Rifkin, alla Wikinomics di
Tapscott e Williams (2007), al Punkcapitalismo di
Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della Rete che ci rende intelligenti (2012),
al Rifkin (ancora) della Società
a costo marginale zero (2014), ovvero all’internet delle cose,
all’ascesa del commons
collaborativo e quindi dell’eclissi
del capitalismo.
Senza dimenticare Negri e Hardt del Comune (2010). Per non
citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili
nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare
preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti
nelle società tecno-capitaliste. Quindi, incapaci di vedere come la soluzione
da loro proposta per arrivare al postcapitalismo —più tecnologia che, da sola
permetterebbe condivisione e libera circolazione delle idee— sia in
contraddizione con l’essere la tecnologia ormai strettamente integrata al
capitalismo (sono una cosa sola), la tecnologia permettendo al capitalismo di
sopravvivere alle sue contraddizioni, il capitalismo essendo la benzina che permette alle
nuove tecnologie di essere ciò che sono.
Paradossale è dunque immaginare che
quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (e
globale e totalitaria la sua evangelizzazione)
e che si serve del capitalismo per accrescere se stessa, possa giocare contro
se stessa liberando se stessa (e gli uomini) dal capitalismo che la sostiene.
Curioso: le
ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà
più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi
tecno-fideismi/tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo
apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni
obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto
alle nuove tecnologie.
Che come le nuove tecnologie di
vent’anni fa ci affascinano e ci promettono molto e continuamente cediamo alla
loro richiesta di fede. Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro,
meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di
recitare nuovamente il loro Credo.
Ma cosa scrive Paul
Mason, giornalista economico di simpatie laburiste, autore di libri di successo
e ora di questo Postcapitalism,
in uscita in traduzione italiana nei prossimi mesi? Che il capitalismo
finanziario di questi ultimi anni —erede di quello industriale e di quello
mercantile— avrebbe i giorni contati, posto che i mutamenti portati dalla
rivoluzione informatica determinerebbero una modifica sostanziale dei modi di
produzione e di consumo, metterebbero in discussione il sistema basato sulla
legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e
lascerebbero progressivamente spazio ad una economia basata su tempo libero,
attività in rete e gratuità.
Scrive Mason:
«La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita. Quello che resta della vecchia sinistra —e di tutte le forze che ne sono state influenzate— si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire. Il capitalismo non sarà abolito con una marcia a tappe forzate ma grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».
Questo processo
sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti:
1) le nuove
tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine
tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario».
Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile
dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del
lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza
retribuzione mentre, cancellando la distinzione tra vita e lavoro (effetto
diretto delle nuove tecnologie) ha prodotto una società a mobilitazione tecno-economica totale e
permanente;
2) l’informazione
«sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto.
I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il
meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli —le grandi multinazionali
tecnologiche di oggi— su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento
anni. Ma questo non può durare (…) perché contrasta con il bisogno fondamentale
dell’umanità di usare le idee liberamente». Assolutamente falso: il mercato sa
benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti),
grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della
conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete e usa proprio le
nuove tecnologie per farlo, come è altrettanto falso credere che l’informazione
e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione,
non della conoscenza), la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e
sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data)
di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più
grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più e perché è
nella natura di un capitalismo non controllato;
3) stiamo assistendo
«a una crescita spontanea della produzione condivisa: nascono beni, servizi e
organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia
manageriale»;
ma anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni
relazione umana (il neoliberismo vive in
ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata
biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato —a meno di
considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro,
il dover essere imprenditori
di se stessi.
Certo, ancora Mason: «Quasi inosservati, nelle
nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato, interi settori
economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele,
banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi»;
ma in verità sono anni che ci raccontiamo questa bella storia e ciò che è
nascosto e inosservato resta nascosto o ai margini, non riesce a scalfire la potenza di fuoco del
tecno-capitalismo, oppure si fa parte del sistema come le banane del commercio
equo e solidale al supermercato. Intanto i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di
mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque
sotto forma di impresa e
agisce secondo il mercato, socializzandolo.
Mason si rifà a Marx
e al suo Frammento sulle
macchine, all’idea di un intelletto
generale,
«una sorta di mente collettiva collegata attraverso la conoscenza sociale, in cui ogni progresso va a beneficio di tutti. In breve, Marx ha immaginato qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi. E aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo».
Ma è evidente —dovrebbe essere evidente— che l’intelletto generale di Marx non è
qualcosa di simile all’economia dell’informazione e soprattutto non farà saltare in aria il
capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è
basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla
sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato
dal lavoratore stesso e alienante il lavoratore, sia esso uberizzato o lavoratore
della conoscenza e dell’informazione.
Ci vuole ben altro,
allora, per uscire dal tecno-capitalismo. Occorre una destrutturazione di tutti
i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini
(mercato e tecnica); una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e
mercato) e di alienazione; un anticonformismo digitale; una laicizzazione
della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo; una
separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine posto che la loro
logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere
sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro. Ma occorre soprattutto
una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che
deve tornare ad essere un mezzo)
e società (che deve tornare ad essere il fine).
Bibliografia
essenziale
Demichelis L.
(2015), La religione
tecno-capitalista, Mimesis, Milano.
Formenti C.
(2011), Felici e sfruttati,
Egea, Milano.
Hardt. M.- Negri A.
(2010), Comune. Oltre il
privato e il pubblico, Rizzoli, Milano.
Ippolita
(2014), La Rete è libera e
democratica. Falso!, Laterza, Roma-Bari.
Mason M.
(2009), Punkcapitalismo,
Feltrinelli, Milano.
Mason P., Postcapitalismo (in uscita
da il Saggiatore nel 2016)
Morozov E.
(2014), Internet non salverà
il mondo, Mondadori, Milano.
Rampini F.
(2014), Rete padrona,
Feltrinelli, Milano.
Rheingold H.
(2013), Perché la rete ci
rende intelligenti, Cortina, Milano.
Rifkin J.
(1995), La fine del lavoro,
Baldini&Castoldi, Milano.
Rifkin J.
(2000), L’era dell’accesso,
Mondadori, Milano.
Rifkin J.
(2014), La società a costo
marginale zero, Mondadori, Milano.
Tapscott D.
(2011), Net generation,
FrancoAngeli, Milano.
Tapscott D. -
Williams A. D. (2007), Wikinomics,
Rizzoli-Etas, Milano.
(8 ottobre 2015)
2 commenti:
Articolo fantastico: il tecnocapitalismo come rappresentazione domenicale del capitalismo e che porterà alla abolizione della domenica ed alla ferializzazione di tutti i rapporti sociali.
Una tesi già confutata, ancora prima che questo libro fosse scritto, da Carlo Formenti in "Utopie letali"
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