[ 2 ottobre ]
«Mitterand stesso ebbe a dichiarare: “In economia ci sono due soluzioni. O sei un Leninista. O tu non cambierai nulla”».
Consigliamo i nostri lettori di leggere, anzi di studiare, con tutta l'attenzione che merita, questo contributo di Cesaratto, una delle menti più lucide che possiede la sinistra italiana. La denuncia dell'Europa vonhayekiana e liberista, una critica sferzante all'utopia di "un'altra Europa è possibile", ma anche una frustata al "Piano B" di quella che abbiamo amichevolmente chiamato "Banda dei quattro" (Varoufakis, Lafontaine, Melanchon e Fassina), per cui "nessun paese può salvarsi da solo". Una tesi quest'ultima, che finisce per disarmare le opposizioni popolari e democratiche. Una tesi che ha due succedanei: la proposta di "Alba Mediterranea" (Vasapollo), nonché dell'altra che "non è possibile il keynesismo in un solo paese" (vedi l'intervento Screpanti al nostro seminario di Castiglione del Lago). Siamo d'accordo con Sergio Cesaratto: i perimetri politici nazionali sono i soli in cui, realisticamente, i popoli possono riscattare la loro sovranità e liberarsi dal gabbia dell'euro e del capitalismo-casinò.
L’astuto Hayek e l’europeismo ingenuo
Von Hayek |
La maggior parte si crogiola tenacemente nell’idea della riformabilità dell’Europa mentre si indigna al solo sentir parlare di riconquista della sovranità democratica nazionale. Riferendosi a un saggio dell’iperliberista (ma astuto) Friedrich Hayek, Oskar Lafontaine ha spiegato poche settimane fa perché un’Europa politica e dunque solidale non può esistere:
«Già nel 1976 [sic, 1939 in realtà] il maestro di questa ideologia, Friedrich August von Hayek, ha dimostrato in un suo articolo che ha avuto una profonda influenza che il trasferimento di autorità sul piano internazionale apre chiaramente la strada per il neoliberismo. Ed è per questo che l’Europa del libero mercato e di scambio non regolamentato dei capitali non è mai stato un progetto di sinistra».Ci piace pensare che quanto avevamo scritto poche settimane prima (anche in inglese) abbia avuto un’influenza su questa opinione.
Scrivevamo infatti che un argomento dirimente per dimostrare che un’Europa politica è pur possibile, ma solo con uno Stato minimale, viene da un vecchio saggio di Hayek del 1939. La sua argomentazione è che una federazione fra nazioni economicamente e culturalmente disomogenee (si potrà poi ragionare sull’importanza relativa dei due aggettivi) e che controlli un cospicuo ammontare di risorse, non potrà durare a lungo. Essa si fratturerà presto sui criteri di distribuzione delle risorse e/o del potere di allocarle. La fine dell’ex-Yugoslavia è l’esempio più evidente. E basti guardare a quello che succede in questi giorni (luglio 2015). Che legittimazione avrebbe un’autorità federale europea di andare contro la volontà di molti paesi di non aiutare la Grecia a sollevarsi? Non sarebbe neppure troppo democratico, a ben vedere. Questo pone la parola fine al sogno dei più tenaci europeisti per cui il problema dell’euro si risolverebbe completando l’unione monetaria con l’unione politica. Dalla padella nella brace verrebbe da dire.
L’astuto Hayek precisa che politicamente sostenibile sarebbe invece uno Stato federale “leggero”, che abbia poco o nessun potere redistributivo e che si occupi solo di regolamentare i mercati e poco altro. Esso sarebbe non solo possibile, ma desiderabile. Per un liberista, naturalmente, non certo per un socialista. Non sorprende che, tanto per fare un esempio nostrano, i più ostinati federalisti italiani siano i radicali,
[Pannella-Bonino, Ndr] tenaci liberisti in economia. E non è un caso che il Rapporto dei 5 Presidenti (Draghi, Junker ecc.) sulla riforma politica dell’UE si rifaccia fondamentalmente al modello Hayek: nessuna funzione fiscale perequativa a Bruxelles, banca centrale monetarista e limitazione all’autonomia degli Stati nazionali.
In tal modo si completerebbe il disegno hayekiano che svuota del tutto gli Stati nazionali dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici nazionali del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute centrali dai radicali (il resto la fa il mercato). Si completa così anche la globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando, ma anche lo Stato si fa evanescente —di esso rimane solo il sorriso beffardo del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente l’indefesso internazionalista ci dirà che a fronte della globalizzazione di Stato e capitale, anche il lavoro si deve internazionalizzare e creare fronti sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca di esempi in questa direzione. L’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e per il socialismo è invece un classico della storia del movimento operaio.
In tal modo si completerebbe il disegno hayekiano che svuota del tutto gli Stati nazionali dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici nazionali del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute centrali dai radicali (il resto la fa il mercato). Si completa così anche la globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando, ma anche lo Stato si fa evanescente —di esso rimane solo il sorriso beffardo del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente l’indefesso internazionalista ci dirà che a fronte della globalizzazione di Stato e capitale, anche il lavoro si deve internazionalizzare e creare fronti sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca di esempi in questa direzione. L’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e per il socialismo è invece un classico della storia del movimento operaio.
L’indefesso keynesiano di sinistra (utopista o liberal-socialista) ci dirà che, potenzialmente, i lavoratori dei diversi paesi hanno tutti interesse a politiche espansive, in particolare quelli tedeschi a politiche di sostegno ai salari, sì da far svolgere a quel paese un ruolo di traino della domanda aggregata in Europa. Questo allevierebbe le problematiche della moneta unica. Potenzialmente, appunto. Come vedremo più avanti, già negli anni 1970 la sinistra del Labour inglese criticava posizioni che facevano leva su congiunzioni astrali per cui governi progressisti e keynesiani si trovano al potere allo stesso tempo. Su questo non si può fare affidamento —ammesso e non concesso che difficoltà non possano scaturire anche fra governi progressisti di paesi disomogenei.
La vicenda greca impone che la sinistra prenda coscienza delle ragioni profonde della crisi europea, e smetta di attribuirla a una generica tecnocrazia neoliberista. Vi sono ragioni materiali per cui questa è l’unica Europa possibile ed è quella che le élite desiderano, avvantaggiandosi anche dell’ingenuo europeismo della sinistra. Come Hayek aveva ben colto, il federalismo è la Mecca dei liberisti (e dovrebbe essere anatema per i socialisti). Questo non implica l’abbandono dell’idea della fratellanza fra i popoli. Attenzione però al fondamentalismo utopico: è di un vecchio e colto amico de il manifesto (quando non ospitava gli zombie), Danilo Zolo, ricordare la massima di Proudhon, “Chi dice umanità cerca di ingannarti” —questo ce lo dobbiamo ricordare anche sulla questione immigrazione, basti pensare il cinismo con cui si è parlato di allentamento dei vincoli fiscali europei per i paesi europei che avessero accolto un congruo ammontare di migranti, un segno di disprezzo per i milioni di disoccupati dell’Europa periferica.
Queste cose ce le siamo dette, ma qual è l’alternativa che proponiamo? Certamente la vittoria di Corbyn alla leadership del Labour Party dimostra che a sinistra c’è vita, peraltro chi ha mai dubitato che le “idee di rivolta non muoiono mai”? Il quesito che si pone alla sinistra laddove abbia prospettive di governo —ça va sans dire che in Italia siamo anni luce da questo— è “per fare cosa?”
Al riguardo, un recente bel saggio su ottima rivista della sinistra americana articola un confronto fra la capitolazione di Tsipras e quella di Mitterand nel 1981-82, ambedue guarda caso alla Germania. Ora la Francia non è la piccola e disgraziata Grecia, ma a maggior ragione il parallelo si fa interessante. Mitterand andò al potere su un programma molto avanzato di nazionalizzazioni, redistribuzione e sostegno alla domanda aggregata. Un programma keynesiano insomma, ma con delle ambizioni socialiste. La mancata cooperazione economica da parte dei partner, Germania in primis, che perseguivano politiche di rigore, pose fine all’esperimento. La questione è semplice: qualunque paese che autonomamente decidesse di crescere di più sostenendo la domanda interna, per esempio accrescendo salari e spesa sociale, incorrerebbe rapidamente in problemi di bilancia dei pagamenti. Questo puntualmente accadde in Francia. Con una delle innumerevoli giravolte che lo contraddistinsero, il Presidente francese si convertì al rigueur decidendo di mantenere la partecipazione della Francia al Sistema Monetario Europeo (l’antesignano dell’euro) e da allora quel paese è diventato la dama di compagnia di Fraulein Deutschland che conosciamo. Se il coraggio di andare per la propria strada mancò alla orgogliosa e avanzata Francia, certo le cose sono state ben più difficili per la povera Grecia.
Si dice che il leader inglese Corbyn provenga dalla tradizione della sinistra labour che fu di Tony Benn, Michael Foot, Ken Livingstone (qui). Anche quella sinistra, con Tony Benn ministro dell’industria, si trovò al governo. Le difficoltà al suo programma radicale di politica industriale (qui) provennero allora dalla stessa destra laburista. L’Alternative Economic Strategy (AES) è fatta di controlli, in primis sui movimenti di capitale (ma qui persino il FMI accondiscende in certe condizioni), ma anche e soprattutto delle importazioni.[2]
Bob Rowthorn (università di Cambridge), uno dei più influenti economisti eterodossi degli anni 1980, membro del Partito comunista inglese, in due attualissimi articoli (1980 e 1981) spiega e difende la AES rivendicandone il carattere nazionale sulla base dell'argomento di buon senso che giustizia, lavoro e benessere nel proprio paese non possono attendere che governi di sinistra si instaurino anche in altri paesi. Questo dimostra anche che la sovranità sul tuo proprio Stato è pregiudiziale a qualsiasi speranza di cambiamento, alla faccia degli europeisti di sinistra che inflazionano il pensiero unico de il manifesto.[3] Osservando preliminarmente come la AES prevedesse l’uscita del Regno Unito da quello che allora si chiamava Mercato Comune Europeo (che ostacola l’intervento pubblico nell’industria) (1981: 1), Rowthorn ci sembra ben anticipare i termini del dibattito corrente, un de te fabula narratur:
«The crisis which is affecting millions of British people is upon us now. If the left is to exploit the present situation, it must have a programme which offers these people some hope, and it must think in terms of something more practical than a European or world revolution. Those who attack a national strategy for socialism in Britain as doomed to failure, and call for a European or world revolution, may sound very revolutionary. But in fact theirs is a doctrine of despair, and however much their views may inspire a small vanguard of sympathisers, they can only breed demoralisation amongst the mass of workers to whom they offer nothing». (1980: 3).Più crudo di così…
Che tutto questo sia difficile, forse ancor più difficile oggi che alcuni decenni fa, siamo d’accordo.[4] Il perseguimento di strade nazionali si scontra sia col capitale nazionale che con quello internazionale, e necessita un sostegno ampio delle masse popolari (si vedano le belle conclusioni del saggio su Mitterand e anche analoghe riflessioni di Rowthorn 1980 e 1981). Ma ci sono alternative?
Che in nome di utopie internazionaliste senza alcun fondamento ci si rifiuti persino di intraprendere una difficile strada di ricerca di strade alternative è colpevole (oltre che stupido). Mitterand stesso ebbe a dichiarare: “In economia ci sono due soluzioni. O sei un Leninista. O tu non cambierai nulla”.
Oggi non si tratta di dividersi se Tsipras sia o no un traditore o un opportunista o quello che si vuole. Questo è irrilevante. La questione è constatare freddamente la sfida enorme che un governo di sinistra si trova di fronte, l’altro ieri Mitterand, ieri Tsipras, domani Corbyn (o Fassina)?
La mancata determinazione a percorrere una strada radicale non può non essere stata negativamente influenzata dal fallimento del socialismo reale su cui non v’è riflessione alcuna e su cui a sinistra si è steso un telo, non pietoso ma pavido. La crisi della sinistra si identifica per molti versi con la crisi dell’idea stessa di socialismo, dopo il crollo del socialismo reale.[5] Per contro v’è un “capitalismo scatenato”, come lo definì un altro indimenticato economista inglese Andrew Glyn, che, sebbene ben lungi dal funzionare senza problemi —basti ricordare la problematica della stagnazione secolare—, appare dominare incontrastato con una crescente, disgustosa e spudorata diseguaglianza accompagnata dall’abbattimento dei diritti sociali e politici.[6] La violenza del capitalismo si manifesta sfacciatamente anche verso l’ambiente. Si presti attenzione che il “capitalismo scatenato” si contrappone al capitalismo regolato degli anni d’oro 1950-1970 quando la sfida socialista era ben viva imponendo al capitalismo un comportamento più improntato alla giustizia sociale, come anche la sinistra buonista con ritardo riconosce nelle proprie riviste. Piaccia o non piaccia, si è trattato dell’epoca più felice e piena di speranze per interi popoli mai verificatasi nella storia umana, sia da noi che nei paesi più poveri.[7] Ora abbiamo un capitalismo al contempo in crisi perenne e clamorosamente vittorioso.[8]
Il crollo del socialismo reale ha dunque al contempo consentito lo scatenamento di un capitalismo barbaro e l’indebolimento delle capacità di reazione della sinistra.
E tempo che la sinistra riprenda la sfida alla barbarie del capitalismo iperliberista. Comprendere che le istituzioni sovranazionali sono spesso un suo strumento per svuotare le democrazie nazionali (qui) è un primo passo, il più banale peraltro.
C’è una reticenza, al riguardo, nel noto e meritorio documento Piano B sottoscritto a Parigi anche da Fassina, anzi in un certo senso un passo indietro rispetto a quanto qui argomentato laddove si afferma che: “Nessun paese europeo può operare per la propria liberazione in modo isolato. La nostra visione è internazionalista”. A me sembra che ciò che degli autentici internazionalisti devono sottoscrivere è una dichiarazione di sostegno a governi di sinistra che si vedessero costretti, com’è probabile, a muoversi in autonomia avendo contro il capitale nazionale e internazionale.[9] Ma questi sono problemi relativamente semplici a risolversi, una volta compresi.
Così come non mi fascerei la testa di fronte alla difficoltà di determinare come potrebbe avvenire una dissoluzione dell’euro o una uscita unilaterale. Questa può avvenire solo in seguito a una radicalizzazione della situazione, ovvero a una rivolta popolare contro politiche che non danno prospettive di lavoro e benessere. Queste fasi sono drammatiche per definizione, il punto è la volontà popolare di affrontarle. Il referendum greco ha dimostrato come una stragrande maggioranza della popolazione possa essere pronta a farlo (e per un paese povero le cose sono ben più difficili). Il nostro compito è portarla a questo grado di consapevolezza ed esasperazione. “Loro” cercheranno in tutti i modi di evitare questa drammatizzazione.
Costruire una alternativa è la vera sfida. Credo che la priorità sia il tema dell’occupazione, della piena occupazione, tema su cui bisogna battere senza sosta prima e sopra ogni altro (come tipicamente non fa la sinistra). Solo così si può conquistare il consenso. Poi va impostata una ricerca sistematica sulla problematica del socialismo. Sia il capitalismo di Stato, sperimentato in occidente, che il socialismo reale, hanno incontrato seri problemi di inefficienza, corruzione e quant’altro. Quelli della pianificazione o, nella versione occidentale, della programmazione sono tematiche abbandonate da tempo. Il capitalismo scatenato rivendica una propria vittoria sul piano dell’innovazione tecnologica: è proprio così? E se è così, è davvero una battaglia perduta?
Ma su tutte v’è la domanda se un paese può davvero oggi andare per proprio conto, date le relazioni economiche con l’estero diventate sempre più complesse e l’assenza di un blocco economico socialista su cui l’AES faceva per esempio affidamento. Se non è così, beh allora lasciamo perdere.
Personalmente credo che solo se la sinistra decide di affrontare a viso aperto queste sfide, che sono inscindibilmente politiche e intellettuali, potrà dimostrarsi viva. Sennò rimarrà una agglomerato marginale di anime belle votato a presunte nobili battaglie, a cui la maggioranza dei suoi concittadini sono in genere estranei, e ad altrettanto ignominiose sconfitte. Inutile polvere di storia.
Principali riferimenti bibliografici
Birch, J. (2015) https://www.jacobinmag.com/2015/08/francois-mitterrand-socialist-party-common-program-communist-pcf-1981-elections-austerity/
Cesaratto, S. (2014) http://www.asimmetrie.org/working-papers/wp-201502-fra-marx-e-list-sinistra-nazione-e-solidarieta-internazionale/
Cesaratto, S. (2015) http://www.asimmetrie.org/working-papers/wp-201508-alternative-interpretations-of-a-stateless-currency-crisis/
Panitch, L. (2015) https://www.jacobinmag.com/2015/09/jeremy-corbyn-benn-miliband-leadership-election/
Pivetti, M. 1978. "Il controllo delle importazioni nell'impostazione del Cambridge Economic Policy Group", Note Economiche, n. 4, 1978.
Ramanan (2013) http://www.concertedaction.com/2013/04/25/nicholas-kaldor-on-floating-exchange-rates/
Rowthorn, R. (1980)https://www.marxists.org/history/etol/newspape/isj2/1980/no2-008/rowthorn.html
Rowthorn, R. (1981)http://www.amielandmelburn.org.uk/collections/mt/pdf/81_01_04.pdf
Sundaram, J.K. e Popov V. (2015) http://wpfdc.org/blog/economics/19430-income-inequalities-in-perspective
NOTE
[1] Ho preparato queste note per un dibattito con Giorgio Cremaschi a una festa anti-fascista a Brescia il 18 settembre 2015. Non avrei mai scritto queste cose se non avessi avuto dei grandi maestri. Pierangelo Garegnani (1930-2011) che da subito ci fece studiare l’esperienza del governo Mitterand, più sotto ricordata, oltre ad incitarci a occuparci di temi concreti, lui il massimo dei teorici economici. E Massimo Pivetti, fra i primi allievi di Garegnani, l’esponente italiano dell’Alternative Economic Strategy (Pivetti 1978) più sotto richiamata, oltre che fra i più noti e rigorosi economisti eterodossi del mondo. Da loro ho appreso che fu la sfida del socialismo reale a rendere il capitalismo più umano, sino a che durò, e che la disoccupazione è il maggiore fattore disciplinante dell’economia di mercato. L’ho appreso 35 anni fa. Ringrazio G. Bergamini, M. D’Antoni e L. Turci per alcuni puntuali commenti.
[2] Gli estensori dell’AES ritenevano, presumibilmente, che la flessibilità del cambio non sarebbe stata sufficiente ad assicurare il pareggio dei conti esteri a fronte di politiche interne espansive e che, inoltre, un deprezzamento del cambio avrebbe avuto effetti negativi sui salari deprimendo sia i consumi interni che il consenso popolare al governo di sinistra. Del resto anche Kaldor, l’economista più influente e prestigioso della sinistra labour era divenuto negli anni più scettico sugli effetti risolutivi di una svalutazione della sterlina (qui).
[3]
[4] L’AES faceva affidamento, per esempio, sul commercio col blocco socialista che avrebbe certamente guardato con interesse ad accordi con paesi tecnologicamente avanzati come Regno Unito e Francia. Il governo Tsipras, com’è noto, ha avvicinato i cosiddetti BRICS per un eventuale sostegno in caso di rottura con l’UE. Le versioni su questo come su altri aspetti della vicenda greca sono varie (la mossa fu solo strumentale senza crederci molto; sono stati i BRICS a defilarsi ecc.). Di certo i BRICS costituiscono un interlocutore meno affidabile dell’allora blocco socialista.
[5] La crisi del socialismo reale può essere fatta risalire ad almeno due importanti fattori: a) l’indisciplina e l’assenza di incentivi all’impegno lavorativa in società in cui il lavoro è garantito; e b) le difficoltà proprie alla pianificazione economica (a uno studio superficiale non sorprendono le inefficienze quanto che apparati così dirigistici potessero addirittura marciare).
[6] Una costante banalità “di sinistra” è che il capitalismo sia in crisi, e dunque stia sul procinto di crollare. Se prendete un volantino dell’estrema sinistra di qualunque decennio (1950, 1960, ecc), il capitalismo è definito in crisi, non c’è mese o giorno in cui non sia stato definito in una crisi esiziale. In effetti non è sbagliato dire che il capitalismo sia costantemente in crisi: non può che essere in così in un sistema in cui domina la diseguaglianza che ha per conseguenza un problema di domanda aggregata, di sbocchi per la produzione. Questo è vero anche oggi, soprattutto oggi che la diseguaglianza è aumentata drammaticamente, tant’è che gli economisti borghesi parlano di “stagnazione secolare” (dov’è la domanda?). Ma gridare al capitalismo in crisi quasi stesse per crollare è dir nulla. Il punto è capire come il capitalismo di volta in volta reagisca al problema ella domanda aggregata (con le guerre, facendo indebitare il ceto medio o i paesi periferici e quant’altro).
[7] E’ vero che il “capitalismo scatenato” ha tirato fuori dalla povertà milioni di individui creando una classe media nei BRICS e persino nell’Africa subshariana, ma l’ha fatto senza creare quelle istituzioni di democrazia sociale e stabilità economica che avevano caratterizzato lo sviluppo europeo nel secondo dopoguerra, e anzi in buona misura al prezzo dello smantellamento del modello europeo sottoposto alla pressione della concorrenza della globalizzazione. I danni ambientali sono stati impressionanti.
[8] Come è stato notato: “Today, capitalism is the only ‘show in town’, and the main choice and debate is among varieties of capitalism, rather than between capitalism and some alternatives” (Sundaram e Popov 2015: 10). Mi sembra nostro compito cambiare questa situazione deprimente.
[9] Come mi ha fatto notare Massimo D’Antoni, l'idea che nessun paese si possa salvare da solo affermata nel documento di Parigi offre il fianco alla facile critica: se trovi le risorse di cooperazione per uscire bene dall'euro, troverai anche quelle per correggere l'unione monetaria senza uscire. E in ogni caso solo una improbabile congiunzione astrale farà trovare governi di sinistra radicale al potere contemporaneamente nei grandi paesi.
* Fonte: Politica e Economia Blog
3 commenti:
“la disoccupazione è il maggiore fattore disciplinante dell’economia di mercato” Garegnani, Pivetti (Nota [1])
Credo si sottintenda che sia il mercato di massa a fare da protagonista nell’intera macroeconomia. Cioè il mercato dei miliardi di piccole transazioni, da quelle dei poveracci che tirano a campare fino all’acquisto dell’auto o della prima casa.
Questa può ancora essere, forse, la realtà attuale, ma non è detto che sia l’unica possibile e che duri all’infinito.
Il peso delle molto meno numerose transazioni più corpose è destinato, come volume d’affari, ad aumentare, per il fatto stesso che la ricchezza tende a concentrarsi, e la velocità di circolazione dei capitali pure, rincorrendosi in un vortice espansivo esponenziale. Fino all’inevitabile sorpasso.
Le avvisaglie già le osserviamo, nella spaccatura dei mercati fin dai consumi primari, come l’alimentazione, la sanità, l’istruzione. Certamente in questi settori la sproporzione tra ricchi e poveri, in termini demografici, la fa ancora da padrona, avvalorando l’idea sopra virgolettata. E ai veri ricchi fa molto comodo fingere di stare al gioco, di andare a rimorchio dell’infinità di mercatini.
E’ così che si sta realizzando il nuovo feudalesimo, scontata conseguenza delle tendenze radicate nella prassi del “libero mercato” anonimo, quello indistinto che riguarda l’intero sistema, dove borse e mercatini fingono d’intersecarsi.
Ma se è vero quanto ho appena detto questa fasulla commistione ideologica ha i giorni contati, cioè la divisione netta dei “mercati”, sia qualitativa che quantitativa, diventerà presto tanto radicale e palese da non poter essere ulteriormente celata ai più. E poi? Poi la soluzione non la potranno dettare i soliti vertici, per incompatibilità con qualsiasi scenario favorevole al loro stesso senso di esistere, quello che anima la volontà e l’azione del loro attuale potere assoluto.
Il mio auspicio è che sia il concetto stesso di mercato ad entrare in crisi irreversibile, a partire dalla sua concezione globalistica. Non esisteranno più mercati assoluti, ma solo mercati locali relativi, interconnessi tra loro da una forza debole, giusto sufficiente a governare gli interscambi veramente necessari e desiderabili per entrambe le parti. Cioè una morte “dolce” ed incruenta del liberismo universalistico e totalizzante. La “disoccupazione” come la intendiamo oggi perderà allora ogni valenza terroristica, condizionante della vita del “lavoratore”, perché a nessuno verrà più in mente di oziare, ne come condanna sociale del proprio fallimento, ne come premio al merito ed al sacrificio, vero o presunto che sia.
La vera sfida delle forze progressiste sarà allora quella di trovare e realizzare le regole del gioco giusto che garantisca la naturale tendenza di ogni essere umano a vivere in pace a casa propria, con una distribuzione dei “diritti di prelievo” finalmente equa, governata da logiche di convergenza verso la pari dignità delle persone e dei popoli. Obiettivo reso possibile proprio dalla marginalizzazione di tali diritti di credito nella vita quotidiana, cioè esattamente all’opposto della realtà attuale, ancora in fase di esasperazione sperequativa. “Soldi o morte” è la prima equazione da sconfiggere, da relegare nel museo degli orrori di quest’epoca di transizione dalla barbarie ad una civile continuità del percorso in essere. La prima e autentica libertà dei futuri mercati sarà quindi proprio la liberazione dalla divisione in classi sociali di acquirenti e venditori, non più schiavizzati dalla dittatura dell’indebitamento forzoso in una giungla artificialmente criminale. Questo riporta in qualche modo al “nazionalismo buono” come trincea nella guerra in corso contro un ordine mondiale ostile alle stesse masse che intende disciplinare. Da non confondere banalmente come guerra all’alleanza tra popoli, regole universali comprese, o federazione che dir si voglia. Sarebbe come confondere pesticidi ed OGM con l’agricoltura.
Cito Cesaratto
"Questa può avvenire solo in seguito a una radicalizzazione della situazione, ovvero a una rivolta popolare contro politiche che non danno prospettive di lavoro e benessere."
Ma di che sta parlando? La rivolta popolare non ci sarà mai. Ci potrà essere qualche rivoluzione colorata pilotata dall'esterno da qualche manina interessata ma il popolo che si solleva contro la UE è un'assurdità.
E tira fuori il caso greco...lí la gente ha addirittura accettato senza battere ciglio che la sua volontà espressa nella cabina elettorale venisse tranquillamente tradita appena il giorno dopo, anzi alle elezioni ha rivotato Syriza e venite a raccontare che ci sarà la rivolta popolare?
Totalmente d'accordo con l'ultimo commento,a cui aggiungerei che non solo i popoli europei non si rivoltano contro chi li bastona,ma i bastonatori vengono addirittura omaggiati con un consenso e percentuali di adesione al progetto criminale di una ristretta èlite tali, da far cadere le braccia a chi crede ancora nella possibilità di una ripresa delle lotte in funzione anti austerity.Saranno necessari decenni per far riemergere una consapevolezza di classe che in questo momento è morta e sepolta.Amen. Pierre57
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