[ 22 ottobre ]
NOTE
Importante questo articolo della Lucaroni. Tocca temi e questioni decisive, non solo astrattamente teoriche. Solo un punto ci preme segnalare. La Lucaroni colloca Keynes, assieme a Smith e Ricardo, nel campo della economia classica. Vero è che Keynes, sulla scia dei classici e di contro ai marginalisti, non crede che il mercato dove viga la libera concorrenza tra capitali trovi da sé stesso il suo equilibrio ottimale. Corretto questo giudizio ve si considerasse questo e questo solo il discrimine tra "classici" e "marginalisti". Sbagliato, invece, ove, come noi tendiamo a pensare, la differenza più profonda tra le due scuole sia la "legge del valore".
Quando ho letto il contributo di Fabio Petri, docente
di economia politica presso l’Università di Siena, caricato nel blog di Sergio Cesaratto, mi è venuta in mente la scena del film di Nanni Moretti “Aprile” quando scopre i benefici
dell’anestesia
epidurale somministrata alla moglie durante il parto “ tutti devono sapere, bisogna informare,...mi hanno
bloccato mentre facevo un Tazebao”
Il linguaggio è semplice
e comprensibile anche per chi non ha nozioni economiche, ma ho pensato che la
lunghezza avrebbe scoraggiato i più,
quindi questo contributo altro non è che
una sintesi del suo lavoro datato 1995, e passi avanti non se ne sono fatti (e
per favore no, non venite a parlarmi dell’economia solidale, se non intesa come bon ton del consumatore), con qualche commento sparso qua e là.
I punti che si affronteranno: teoria classica (Smith,
Ricardo, Marx e Keynes) Vs teoria marginalista (Marshall, Walras, Edgeworth e
Pareto per citarne alcuni), disoccupazione e crescita economica. Storicamente
per teoria classica si intende quella corrente di pensiero economico che
prende il via da Adam Smith messa in cantina per una serie di motivi che
riguardano, come ci ricorda sempre Petri in quest’altro contributo[1], l’opera incompiuta di Marx, alcuni difetti e difficoltà a
comprenderne l’impostazione
e che verranno poi risolti nei lavori di Sraffa, periodi storici dove la
sinistra (intesa in senso antico ehh!) aveva poca voce in capitolo, e che andrà invece a farsi sentire negli anni
60.
Secondo questa teoria il livello dei salari è determinato
dalla lotta di classe (conosciamo gli esiti della lotta!), influenzati da
elementi quali la disoccupazione, politiche statali a favore dei datori di
lavoro (fortuna che noi abbiamo Renzi e un sindacato forte e unitario con i
lavoratori, soprattutto con gli atipici, come dimenticare le feroci lotte
portate avanti per il reddito di cittadinanza!) e dal livello dei consumi
compatibile con il comune senso di umanità, ovvero il livello di consumi al di sotto del quale
non vale la pena vivere. Concetto che, alla luce dei bisogni (dis)indotti
meriterebbe una trattazione a parte e potrebbe essere materia di analisi da
parte dell’elemento
sociale per una scienza socio-economica realmente integrata, purtroppo in molti
casi oggi si assiste alla sostituzione terminologica e concettuale del sociale
all’economico nel
tentare di improntare un nuovo modello economico che di economico ha solo la
parola. Avete presente quella proiezione retrò del
nostalgico tornare indietro per andare avanti? No, capisco, sono stata
volutamente vaga per non aprire in questa sede polemiche e rimanere concentrati
sul pezzo!
La teoria marginalista o neoclassica è quella che va per la maggiore, ossia che si studia
nelle Università più “prestigiose”, avete presente? quella classe privilegiata figli di
papà che possono
permettersi rette universitarie esorbitanti e che una volta chiusi i libri poi
facevano festini insieme a Cameron. Ed è la
stessa applicata dai consulenti di governi e considerata valida dal mondo
accademico che certo non si va a dare la zappa sui piedi promuovendo teorie che
poco piacciono alla classe dirigente e imprenditoriale e forniscono poi i
finanziamenti alla “ricerca”. In questo caso si elimina il concetto di lotta di
classe e parliamo invece di domanda di lavoro (quella da parte delle imprese) e
offerta di lavoro (lavoratori): la domanda di lavoro aumenta se diminuiscono i
salari, una sorta di, banalizzando il concetto, pagare meno e lavorare tutti.
Come un qualsiasi bene di mercato concorrenziale un “bravo” lavoratore, in periodi di
disoccupazione, dovrebbe accettare un salario ridotto, a questa maniera la
domanda di lavoro delle imprese aumenterebbe portando ad una situazione di
equilibrio di piena occupazione.
Ma a questo ragionamento si contrappone quello dei classici secondo cui diminuendo i salari gli imprenditori vendono meno beni e diminuisce così la domanda di beni. Quale di questi ragionamenti è quello giusto? Petri ci spiega che, secondo l'economia neocalissica, un’impresa arriva ad un limite di convenienza nell’aumentare, a salari ridotti, il numero dei lavoratori determinato dalla differenza del costo del lavoratore con il ricavo ottenuto dalla produzione in più prodotta dallo stesso lavoratore. Questo perchè, ad un livello di capitale dato (cioè di impianti dati), ogni nuovo lavoratore impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente sempre minore per ogni lavoratore in più.
Ma a questo ragionamento si contrappone quello dei classici secondo cui diminuendo i salari gli imprenditori vendono meno beni e diminuisce così la domanda di beni. Quale di questi ragionamenti è quello giusto? Petri ci spiega che, secondo l'economia neocalissica, un’impresa arriva ad un limite di convenienza nell’aumentare, a salari ridotti, il numero dei lavoratori determinato dalla differenza del costo del lavoratore con il ricavo ottenuto dalla produzione in più prodotta dallo stesso lavoratore. Questo perchè, ad un livello di capitale dato (cioè di impianti dati), ogni nuovo lavoratore impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente sempre minore per ogni lavoratore in più.
Chiariamoci le idee con l’esempio che viene fatto: in una data falegnameria con
uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio ad aumentare i lavoratori
impiegati, il prodotto cresce, ma per ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad un certo
punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà
più lavorare!
Riguardo la diminuzione dei beni comprati cui facevano
riferimento i classici, i marginalisti confutano il ragionamento affermando che
in realtà gli
imprenditori, in maniera simmetrica, acquisteranno i beni in avanzo come
investimento per aumentare il capitale fintanto che il saggio d’interesse (che rappresenta il prezzo
della domanda e offerta di capitale), determinato dalla concorrenza, faccia
coincidere domanda e offerta di capitale.
Se i mercati concorrenziali vengono lasciati
funzionare bene, non c'è mai problema a vendere tutto
quanto prodotto. E questa è la teoria dominante nel
mondo accademico con due implicazioni fondamentali: i mercati portano alla
piena occupazione e la disoccupazione è causa
dei lavoratori. La seconda conseguenza importante di questa visione riguarda la
remunerazione che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al
capitale come interessi: esse corrispondono in realtà, in un senso molto profondo,
ad un ideale di giustizia. Questo
perché il lavoratore viene pagato tanto quanto contribuisce
alla produzione secondo la logica di tanto dà
e tanto riceve. Lo stesso vale per il
capitale dove il saggio d’interesse corrisponde al contributo di ciascuna unità di capitale rinunciando al consumo
di quanto risparmiato (e investito in capitale), ebbene sì: anche il capitale si sacrifica, in quanto il
risparmio diventa investimento invece di consumo. Un equilibrio perfetto che
sicuramente può
affascinare.
Nella visione classica, la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal
semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte del manico ossia
i “mezzi” per produrre. Essi dicono ai
lavoratori: un salario talmente alto che vi consenta di appropriarvi di tutto
il prodotto, senza che nulla resti a noi come interesse e profitti,
semplicemente non lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro
capitale - e ce l'abbiamo noi il capitale - vogliamo profitti o interessi.
La differenza tra le due teorie non riguarda
discussioni astruse tra accademici ma sono due modi completamente differenti di
concepire la società. Un
marginalista pensa che la disoccupazione è colpa
dei lavoratori che non fanno abbassare i salari, un classico afferma che è giusto resistere e lottare per un salario decente,
perchè un abbassamento dei salari corrisponde ad un aumento
dei profitti. Sarà Keynes
a spiegare che le imprese investono quando la domanda di beni è già in crescita, e quindi si aspettano di vendere di più, quindi è più probabile che un abbassamento di salario diminuisca la
produzione con conseguente crisi economica.
Riferito ad una implicazione di questo tipo è giusto pensare che anche le imprese recuperate dai
lavorati, simbolo di lotta e resistenza, rischiano in realtà di fare il gioco dei marginalisti
visto che nella maggior parte dei casi i lavoratori-soci accettano di lavorare,
soprattutto all’inizio,
ad uno stipendio decisamente ridotto. Inoltre se andiamo a guardare una serie
di questioni per valutare come tali imprese rappresentino una nuova forma di
impresa anti-capitalista, leggendo la documentazione argentina, dove hanno già un pezzo di storia in merito, ci si
rende che alcune criticità dell’impresa capitalista continuano a rimanere in piedi.
Anche questo però è argomento che merita
ulteriori approfondimenti.
Altra questione illustrata da Petri, e fondamentale in
tempi di austerity, per i marginalisti la crescita economica dipende dal
risparmio (ossia i beni non consumati), in quanto crea capitale e il capitale
in più crea crescita economica. Udite udite signori: se
vogliamo crescere di più bisogna risparmiare
di più, ecco perché lo Stato dovrebbe comportarsi come un buon padre di
famiglia (vi ricorda qualche esternazione?).
Altra implicazione in termini di politica economica:
per i marginalisti per poter aumentare l’occupazione devono scendere i salari e lasciare che il
mercato funzioni secondo le sue leggi (Thatcher & Co.), per un classico lo
Stato deve intervenire e stimolare la domanda.
Ed ecco signori il gran finale delle politiche di austerity su cui tanto
si dibatte, o meglio se ne ammette la fragilità
come politica di intervento per far
tornare i conti, ma si continua ad applicare memorandum.
«Sulla crescita economica, l'implicazione di politica economica della teoria marginalista è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato, perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono. I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi sottratti all'investimento presso le imprese, che permetterebbero l'acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica. Invece, nell'altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo molto, decidono di ampliare l'impianto. Più lo Stato spende e più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero essere più diverse».
Il contributo prosegue poi illustrando la validità scientifica delle due teorie[2] e chiudendo con una serie di proposte che preferisco
non affrontare in questa sede non per una forma di scetticismo sulla loro
validità, quanto piuttosto
perché meritano ulteriori approfondimenti alla luce delle
(ri)forme di lavoro degli ultimi venti anni, prima parlare di sindacati e
imprenditori era in un certo senso più chiaro
di oggi, nell’economia
bio-cognitiva bisogna dedicare molto più spazio
al confine lavoro/vita.
Per chi non volesse rimanere con l’amaro in bocca può fare riferimento direttamente allo studio di Petri.
5 commenti:
Se ho capito bene per i marginalisti l' importante è aumentare le disuguaglianze( che come ho da poco appreso sono il motore dell' economia ) lasciando che il mondo del lavoro si distrugga in una infernale spirale deflattiva: lavorare molto,lavorare tutti, lavorare gratis.
L'attribuzione di Keynes ai classici è decisamente tendenziosa: Keynes adoperava strumenti marginalisti, e si considerava tale. Ma non c'è niente di male in questo: ogni ricostruzione della storia del pensiero tendenziosa lo è necessariamente. Quindi però se ne potrebbero dare altre: per esempio, si potrebbe considerare Keynes come esponente dalla scuola marginalista, in quanto sostenitore di una visione dell'economia come finalizzata al consumo, contrapposta a quella dei classici come finalizzata al profitto; oppure, con un po’ di malignità, si potrebbe immaginare una contrapposizione fra economisti classici e marginalisti come sostenitori di una definizione "oggettiva" del salario (includendo fra questi anche Marx, facendo delle precisazioni necessarie), e gli eredi di Sraffa come sostenitori di una distribuzione soggettiva. Per oggettività si intende il fatto che ben sapendo che la distribuzione del reddito è oggetto della lotta di classe, tutti i classici ritenevano che il risultato di questa lotta fosse predeterminato: compreso Marx.
La rappresentazione che la Lucaroni ci presenta è perciò quella di una scuola, quella degli sraffiani ben rappresentata da Fabio Petri.
Ora, confesso che non ho mai capito bene il discorso degli sraffiani: se ho ben capito la loro logica di ragionamento è la seguente.
Il valore prodotto è sempre prodotto dal lavoro. In questo più o meno seguono Marx. Il concetto marginalista di produttività marginale del capitale è sbagliato (credo che questo sia il contenuto del dibattito delle due Cambridge) perché il Capitale è un concetto aggregato, e quindi la variazione della distribuzione del reddito influenza i prezzi delle merci, e dunque la determinazione del "Capitale" è vaga. Perciò, non si può parlare di retribuzione ottimale del capitale, ma la sua determinazione è solo affidata ai rapporti di forza.
Questo ragionamento incontra delle ombre.
La prima aporia è la seguente: il fatto che tutto il valore prodotto vada attribuita al lavoro non significa non poter usare il concetto di "produttività marginale del capitale" per una ottimale allocazione delle risorse. Sono due concetti diversi: il primo si riferisce all'analisi della natura sociale del capitalismo, e alla necessità per i lavoratori di riappropriarsi in forma collettiva dei frutti del proprio lavoro; la seconda è un ragionamento sulla distribuzione ottimale delle risorse in una economia monetaria di mercato.
Ma, dicono gli sraffiani: il concetto di "Capitale" è sbagliato, perché trattandosi di un bene aggregato la variazione della distribuzione influenza necessariamente i prezzi, e dunque vanifica la possibilità di calcolarne il valore, la produttività marginale e il saggio d'interesse. ( continua)
(Seconda parte)
Per quanto ne capisco, credo che si possa concordare con questa critica del capitale inteso come aggregato; ma niente impedisce ( è l'obiezione che hanno rivolto alcuni studiosi agli sraffiani) il calcolo delle produttività marginali di ogni singolo bene capitale, e dunque di attribuirgli un valore e un saggio di rendimento specifico.
Qual è allora il senso del discorso degli sraffiani (sempre se ho capito bene): quello secondo il quale la distribuzione del reddito può essere separata dalle decisioni di investimento. In altri termini, il prodotto potrebbe andare anche tutto in salari, per poi essere richiamato come risparmio sulla base delle decisioni di investimento dei managers.
La prima cosa da dire è che questo ragionamento non è quello di Marx. L'ipotesi di distribuzione integrale del reddito prodotto ai lavoratori non solo non è prevista da Marx, ma è esplicitamente esclusa: in un testo abbastanza pesante come la "Critica al programma di Gotha" con cui Marx si pronunciava sul programma della socialdemocrazia tedesca, Marx osserva: "Dal prodotto sociale complessivo si devono detrarre gli ammortamenti, una parte per l'estensione della produzione, fondi di riserva, ecc. ecc. ecc." Quindi Marx esclude una determinazione del salario di tipo “sindacale”.
Tuttavia non è detto che Marx abbia ragione. Il problema è il seguente: qualsiasi entità decisionale, che sia l’organo di pianificazione, l’imprenditore o il consiglio di amministrazione di una fabbrica autogestita (non a caso l’articolo della Lucaroni parla di imprese autogestite che si comportano come imprese capitalistiche-ma guarda un po’…) dovrà prevedere una valutazione del rendimento per ogni bene capitale che ha impiegato, e dunque attribuirgli un valore e una retribuzione. E la cosa non cambia nell’ipotesi che non esista un mercato ufficiale dei capitali: qualsiasi studente di economia sa che l’inesistenza di prezzi espliciti non impedisce l’esistenza di prezzi impliciti.
L’idea che nel sistema capitalistico esista una contrapposizione fra consumi e crescita, mentre potrebbe esistere un sistema in cui fra le due non c’è contrapposizione, mi sembra una grullata. Marx non lo pensava di certo, e nemmeno Bucharin. Per i due è evidente che per crescere un sistema debba risparmiare, e cresce di più se risparmia di più: fatte salve le proporzioni –dice Marx- fra il settore della produzione di beni di consumo e quello della produzione di beni di investimento, le cui sproporzioni possono essere causa di crisi.
A me, forse per la mia ignoranza, non lo escludo- il ragionamento degli sraffo/keinesiani sembra una utopia di un capitalismo perfetto, nata nel ventennio felice dell’ Italia post bellica: sindacalismo + potere dei managers+ abolizione della proprietà privata. Ho dubbi che questo vada nella direzione del superamento dei rapporti capitalistici di produzione.
A. C. (Siena)
Caro Alessandro, temo ci siano molte confusioni e tu non abbia compreso i messaggi dell'impostazione classico-keyensiana. Per prima cosa ti invito a distinguere fra teoria positiva (come funziona il mondo) da teoria normativa (come far funzionare meglio o diversamente il mondo). La teoria sraffiana è in primo luogo positiv come quella neoclassica (si può essere sraffiani e di destra, o marginalisti e di sinistra, come WicKsell). Poi , repetita forse iuvat, ti suggerisco questa mia altra introduzione http://politicaeconomiablog.blogspot.it/.../la-critica...
Politica&EconomiaBlog: La critica dell'economia politica, ieri, oggi e domani
politicaeconomiablog.blogspot.com
Prof. Cesaratto, io ragiono (bene o male) secondo il metodo di marx, cioè leggo le teorie economiche come forme di ideologia: tutte, compresa quella di marx. Gradirei una critica più di dettaglio. Quanto al suo testo, lo leggo volentieri.
( A. C.)
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