[ mercoledì 26 giugno 2019 ]
la politica estera del governo giallo-verde appare incerta, confusa e contraddittoria. Essa può forse essere decodificata alla luce della storia italiana.
Dall’ingresso dell’Italia nella zona euro, abbiamo visto fronteggiarsi tre tendenze strategiche. La linea del nordismo nazionale europeista-occidentalista ha visto la momentanea avanzata di Prodi prima, poi di Monti e Renzi. Il principio strategico era quello imperniato sulla coalizione sociale di carattere grande borghese a supporto dell’agenda della ristrutturazione europea. Anche all’interno di un medesimo blocco strategico spesso le faglie tattiche prevalgono sulla iniziale strategia comune; emergevano le fratture interne al blocco nordista tra un Primo ministro come Prodi che voleva comunque ricalcare la tendenza storica della sinistra italiana e dunque assai devoto al neo-gollismo subimperialista parigino (per questo poi premiato con la Legion d’Honneur nel 2014), uno filogermanico ortodosso come Monti e uno tatticamente filoclintoniano come Renzi. Ciò non toglie che la costante storica e geopolitica di tale blocco sia la medesima. I Cottarelli, i Draghi, i Padoan sono elementi di punta di tale blocco. Non sono tecnici, come non fu tecnico Monti, ma punta avanzata dello schieramento subimperialista, che non vuole l’affrancamento da Washington ma viceversa un nordismo integrato nella logica atlantica.
La linea del neoatlantismo mediterraneo ha visto invece in posizione di vertice Berlusconi, in particolare il Berlusconi IV. Da Pratica di Mare (2002) sino alla suicida capitolazione rappresentata dall’intervento militare in Libia (2011) si potrebbe anche dire che Berlusconi abbia seguito la linea del neo-atlantismo di Enrico Mattei, ossia quella di un atlantismo più mediterraneo che nordico o occidentalista ma aperto alle istanze del mondo russo e di quello arabo. Non si dimentichi che Berlusconi propose a più riprese l’ingresso della Turchia islamica di Erdogan nella UE, proprio per bilanciare lo strapotere franco-tedesco e temperare la minaccia rappresentata dal nodo migratorio.
la politica estera del governo giallo-verde appare incerta, confusa e contraddittoria. Essa può forse essere decodificata alla luce della storia italiana.
Il nodo strategico occidentale è quello italiano
Dall’ingresso dell’Italia nella zona euro, abbiamo visto fronteggiarsi tre tendenze strategiche. La linea del nordismo nazionale europeista-occidentalista ha visto la momentanea avanzata di Prodi prima, poi di Monti e Renzi. Il principio strategico era quello imperniato sulla coalizione sociale di carattere grande borghese a supporto dell’agenda della ristrutturazione europea. Anche all’interno di un medesimo blocco strategico spesso le faglie tattiche prevalgono sulla iniziale strategia comune; emergevano le fratture interne al blocco nordista tra un Primo ministro come Prodi che voleva comunque ricalcare la tendenza storica della sinistra italiana e dunque assai devoto al neo-gollismo subimperialista parigino (per questo poi premiato con la Legion d’Honneur nel 2014), uno filogermanico ortodosso come Monti e uno tatticamente filoclintoniano come Renzi. Ciò non toglie che la costante storica e geopolitica di tale blocco sia la medesima. I Cottarelli, i Draghi, i Padoan sono elementi di punta di tale blocco. Non sono tecnici, come non fu tecnico Monti, ma punta avanzata dello schieramento subimperialista, che non vuole l’affrancamento da Washington ma viceversa un nordismo integrato nella logica atlantica.
Camillo Benso conte di Cavour |
La linea del neoatlantismo mediterraneo ha visto invece in posizione di vertice Berlusconi, in particolare il Berlusconi IV. Da Pratica di Mare (2002) sino alla suicida capitolazione rappresentata dall’intervento militare in Libia (2011) si potrebbe anche dire che Berlusconi abbia seguito la linea del neo-atlantismo di Enrico Mattei, ossia quella di un atlantismo più mediterraneo che nordico o occidentalista ma aperto alle istanze del mondo russo e di quello arabo. Non si dimentichi che Berlusconi propose a più riprese l’ingresso della Turchia islamica di Erdogan nella UE, proprio per bilanciare lo strapotere franco-tedesco e temperare la minaccia rappresentata dal nodo migratorio.
Il neoatlantismo mediterraneo, a differenza di governi tecnici o di sinistra, è stato infatti sempre tiepido, se non proprio scettico, verso l’europeismo a trazione franco-tedesca: l’idea di fondo che ha supportato inconsciamente l’atlantismo mediterraneo berlusconiano era che il colpo di stato della magistratura italiana dei primi anni ’90 non azzoppò e decapitò solo la migliore classe politica del mondo occidentale, ma finì per mettere alle corde l’intero sistema paese, quel sistema che aveva reso l’Italia la quarta potenza industriale del mondo e che così grande invidie suscitava Oltralpe e nel Nord Europa.
Il 2011 fu la data spartiacque che segnò il tramonto del berlusconismo: invece di intraprendere il “momento Sigonella”, legittimandosi così definitivamente nella storia italiana, il Berlusconi IV capitolò su tutta la linea di fronte alla coalizione antigheddafiana, guidata dall’imperialismo clintoniano e dal subimperialismo franco-inglese. Fu quello, appunto, il tramonto di Berlusconi, colpito anche dalle note vicende giudiziarie. La differenza tra uno statista e un buon affabulatore politico emerse lì; l’incapacità di fare di una persecuzione giudiziaria o di un evento avverso l’occasione di un nuovo destino politico non apparteneva a Berlusconi.
La doppia geopolitica giallo-verde
Infine, con il Governo del cambiamento, si va imponendo una nuova, inedita linea. Paolo Baroni ne “La Stampa” la definisce la doppia geopolitica populista. Quando Salvini è stato infatti di recente ricevuto negli Usa, Giuseppe Conte si trovava alla cena di gala del Principe di Savoia (Milano) per l’anteprima del nuovo rapporto della Fondazione Italia-Cina, presente tra gli altri il nuovo ambasciatore cinese in Italia. Se volessimo trovare un antecedente storico di tale atteggiamento geopolitico italiano, anche su tale piano non reggerebbe il sinistro assioma clintoniano del “governo grillo-fascio-leghista”; ben lungi dal ripercorrere la linea di un neo-imperialismo mediterraneo (Cavour, Mussolini), il Governo del cambiamento sembra muoversi nel senso dell’accorta e prudentissima istanza geopolitica giolittiana.
Francesco Crispi |
Oltre la guerra italo-turca (1911-1912), previamente concordata dal grande statista di Dronero con le superpotenze dell’epoca (Francia, Inghilterra, Germania), la sostanza geopolitica guicciardiana ed anti-machiavelliana del giolittismo insegna che prima di schierarsi definitivamente con un fronte strategico occorre sviluppare l’arte dell’attesa. Attendere quale sarà l’esito definitivo del conflitto. Qui si coglie la natura del non interventismo giolittiano rispetto alla Prima guerra mondiale. Giolitti non era filotedesco, come si ripete erroneamente in ambito storiografico, non era nemmeno a favore dei franco-inglesi; il suo fine geopolitico era quello di imporre, nella contesa globale, l’Italia come media potenza regionale. Il miglior modo per ottenere il fine, in tal senso, era quello di intervenire nel conflitto quando fosse diventato chiaro chi, tra i due fronti, si sarebbe in definitiva affermato. Giolitti non coltivava un piano di strategia che non fosse quello di ottenere il massimo per un sistema paese, quello italiano, che nella sua profonda considerazione non aveva eccellenza e superiori qualità da poter far valere rispetto ai più avanzati modelli occidentali dell’epoca.
La successiva storia italiana dirà invece che l’arte di governare lo Stato, soprattutto in condizioni avverse, è inscritta nel codice culturale e morale italiano, più che in qualsiasi altro paese occidentale, escludendo naturalmente gli USA per evidenti ragioni geopolitiche ed economiche. Diversamente dall’impulso neoimperiale mediterraneo del conte di Cavour, poi ripreso con autonome caratteristiche da Mussolini, come il Silva mostrò nei suoi studi sulla centralità geopolitica del Mediterraneo e come confermerà Francesco Cossiga in Per carità di Patria (Mondatori 2003), impulso che avrebbe voluto porre l’Italia come soggetto attivo ed universale sul piano della contesa mondiale, dunque come superpotenza globale, Giolitti immaginava invece la funzione italiana come esclusivamente padroneggiata da un gioco di rimessa: l’Italia come arbitro e mediatore subimperialista di ultima istanza nel gioco delle superpotenze.
Ciò rimanda, d’altra parte, ai migliori momenti della tradizione diplomatica della Prima repubblica — Moro, Andreotti — con l’impulso globale mediterraneo pronto però a rinascere in talune iniziative estemporanee, e purtroppo non fortunose, di un Fanfani o di un Craxi.
Guicciardinismo tatticistico
L’impressione è quindi quella che il Governo giallo-verde, con la doppia geopolitica populista, nonostante sia nella condizione di poter far saltare definitivamente il banco, grazie ad una linea diretta ed a una corsia preferenziale con Washington — che irrita in modo particolare il gollista Macron ed i sogni armati imperiali di Parigi — stia praticando, con sottili diversioni tattiche, il principio giolittiano dell’attesa geopolitica. Vi è la consapevolezza, a Roma, che Mosca e Pechino sono sul punto di realizzare una guerra valutaria globale che mira all’espropriazione del surplus nello scambio ineguale imperialista sionista ed americano, ed in parte in quello stesso del subimperialismo zoppo di Parigi e Berlino; vi è altresì la consapevolezza della intima debolezza strategica, politica del blocco franco-tedesco; vi è il fondato timore che nell’ormai divampante guerra ibrida americano—cinese, Berlino e Parigi potrebbero definitivamente ridursi a entità politicamente semicoloniali di Beijing o Washington.
Sia chiaro; tale principio, quello giolittiano dell’attesa, si infranse comunque con la logica della trincea e della mobilitazione di massa e il giolittismo morente dovette lasciare spazio all’interventismo mussoliniano di imperialisti e sindacalisti rivoluzionari. Ma l’interventismo italiano, in epoca di guerra ibrida ed asimettrica, presuppone un piano strategico che, se possibile, è anche più rischioso e di difficoltosa attuazione di quello di sindacalisti rivoluzionari e imperialisti italiani nello scorso secolo; considerata peraltro la intima situazione di un sistema paese travolto dalla catastrofe del 1993, di cui si percepiscono ancora i tragici effetti, sistema paese assolutamente povero peraltro di materie prime e beni essenziali.
Romano Prodi ne “Il Messaggero” interpreta invece la doppia linea gialloverde come una “doppia giravolta” che ci isola dal mondo. Il senatore a vita si domanda inoltre se la giravolta filotrumpiana di Matteo Salvini non sia stata per caso messa in atto “con la benedizione di Vladimir Putin, interessato anch’egli a indebolire un’Europa con la quale i rapporti sono sempre peggiorati negli ultimi anni”, concludendo che la politica trumpiana di contenimento dell’UE si fonda da un lato sulla Brexit, dall’altro su quelle che definisce “le contraddizioni italiane”.
Sarebbe probabilmente più corretto parlare di un preciso calcolo neo-giolittiano e neo-democristiano della frazione gialloverde del “partito piccolo-borghese” mediterraneo, più che di contraddizioni italiane. Frazione purtroppo priva di un certo piano strategico che non sia un vago e sovranismo minimalistico, che per ora naviga alla giornata, e per questo tutta ripiegata sul mero guicciardinismo tatticistico.
Giovanni Giolitti |
Le espressioni politiche della piccola borghesia o media-piccola borghesia italiane sono state diverse nel Novecento, dall’interventismo sindacalista rivoluzionario, al fascismo, al socialismo nazionale togliattiano, per finire con il centro-sinistra craxiano negli anni ’80.
Questi movimenti, con le differenze specifiche, avevano una strategia. La nuova fase strategica si va infatti velocemente incamminando nel punto limite del processo transitorio, verso un ulteriore rafforzamento su tutta la linea del potere unipolare americano o verso un mondo policentrico guidato da Cina e Russia. Una terza soluzione non vi sarà, né potrà esservi. Coltivare eccessivamente la pratica dell’attesa significa comunque scoprirsi. Da un lato, è evidente, chi attende riuscendo abilmente a posizionarsi alla finestra quando gli altri combattono ha maggiori probabilità di successo; dall’altro, però, l’attesa come doppia diversificazione tatticistica — nemmeno tattica —finisce alla lunga per essere una scelta tipica di un paese periferico condannato a pensarsi piccolo ed a pensare in piccolo. In fondo, lo stesso vizio d’origine degli europeisti, che reclamano “più Europa” poiché gli italiani non saprebbero curare i propri interessi e nel frattempo si sono ridotti però, con “il più Europa”, a fare gli interessi non di potenze globali come USA o Cina o al limite della Russia, che probabilmente darebbero un doveroso tornaconto, ma di nani politici come Francia e Germania, talmente aggressivi da imporci nel 2011 il nostro “Pinochet” e da silenziare in eterno Belusconi, poiché con il suo fare ricordava troppo un politico di medio calibro della Prima repubblica.
Una scelta non possibile e non praticabile, dunque, quella dell’attesa indefinita, almeno se attuata come scelta costante e invariante, per una paese come l’Italia che trovandosi al centro del Mediterraneo si trova comunque volente o nolente al centro di un polo globale di civilizzazione. E del resto il viaggio italiano, proprio in questi giorni, del massimo rappresentante del fronte clintoniano, ossia dell’ex presidente statunitense Obama, ben ce lo ricorda. Che sia venuto in Italia per incontrare George Clooney? E’ lecito dubitare. E’ forse invece venuto in Italia per predisporre una rivoluzione colorata o un dolce colpo di stato sul modello di quello del 2011, contro il Berlusconi IV, quando fu coadiuvato da Merkel, Sarkozy, Draghi-Napolitano?
Dunque il tempo stringe.
Dunque il tempo stringe.
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2 commenti:
Interessantissimo e ritengo tutto sommato equilibrato e vicino al vero.
Ho votato Lega, non mi pento, ma come dice l'articolo il tempo rimasto è poco e temo anch'io che i padroni del vapore stiano preparando un colpo dolce
eccellente contributo
m.restani
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