[ giovedì 13 giugno 2019 ]
In uno strepitoso saggio breve (“Sovranità”, il Mulino) che ho divorato in poche ore (era da tempo che una lettura non mi appassionava tanto), Carlo Galli fa piazza pulita delle idiozie, dei luoghi comuni e degli ideologismi che funestano le campagne anti sovraniste condotte da media, partiti e accademici (come populismo, sovranismo è un concetto passepartout che, a furia si essere riempito dei contenuti più disparati, ha finito per perdere senso). Approfittando del fatto che Alessandro Somma dedica, su queste stesse pagine, un’ampia recensione al lavoro di Galli, mi permetto di estrarne in poche righe il “succo” politico e, per sintetizzarlo nel modo più chiaro possibile (ammettendo apriori le inevitabili semplificazioni e le altrettanto inevitabili – ma spero non troppo arbitrarie – interpretazioni soggettive) dividerò l’argomentazione in quattro parti.
Uno. Galli, evitando la trappola in cui cadono i filosofi della politica che assumono una prospettiva metastorica (inscrivendo ad esempio la democrazia ateniese e la democrazia moderna in un medesimo ordine fenomenico), mette in luce la specificità della sovranità dei moderni che consiste nel fatto, già evidenziato dal Machiavelli, che essa non è legittimata da alcun fattore trascendente ma appare esposta alle sfide che la contingenza lancia all’ordine politico – ordine che si presenta quindi come frutto di costruzione, più che come portato di fattori naturali e/o tradizionali. “La modernità, scrive, è l’epoca in cui la legittimità diventa problema, non è più data ma assente e quindi ricercata, inseguita, costruita”.
Due. Il carattere infondato – la fragilità oserei dire – del moderno potere sovrano fa sì che l’ordine politico non si possa mai dare per acquisito e scontato: pur concentrando e monopolizzando il potere politico esso “non riesce ma a spoliticizzare del tutto la società, o il popolo”, per cui questi producono ininterrottamente “nuovo disordine e nuove esigenze di ordine”. Detto in altro modo: “il potere costituente non è mai del tutto costituito”, e ancora: “la forma del potere costituente è la rivoluzione, nemica e motore ad un tempo della sovranità. La rivoluzione è eccesso di potenza sociale che si fa politica, presenza concreta di un popolo o di una classe che sfonda lo spazio pubblico, che agisce contro la sovranità esistente e ne genera una nuova”. Si potrebbe affermare che sovranità e conflitto sociale sono due facce della stessa medaglia: non si dà l’una senza l’altro e viceversa. È per questo che i critici della sovranità la descrivono come qualcosa di arbitrario, eccessivo, se non di mostruoso?
Tre. Per rispondere occorre partire dalla paradossale convergenza fra critici di destra e di sinistra della sovranità. Le ragioni della destra sono chiare: all’economia liberista non serve – anzi è d’ostacolo – la legittimazione dell’ordine politico, essa si ritiene capace di autolegittimazione, detentrice di una sovranità autonoma che non affonda le radici nella politica ma nel mercato: “l’obiettivo del neoliberismo, scrive Galli, è sostituire il privato al pubblico, la libera scelta al comando, la concorrenza al conflitto, l’uguaglianza alla rappresentanza, la governance alle istituzioni politiche”. E la sinistra? Il fatto è che questa sembra avere smarrito la consapevolezza che il conflitto sociale non può svilupparsi se non nella cornice della sovranità, di una “unità del volere e dell’agire in assenza della quale la pluralità non potrebbe agire politicamente”. Così, mentre rifiuta la sovranità nazionale, vissuta come arbitraria, repressiva, autoritaria, “di destra”, ne invoca il superamento da parte di istituzioni sovranazionali che incarnano tuttavia una sorta di “sovranità al quadrato”, ben più arbitraria, autoritaria e antidemocratica (si pensi alle guerre in nome della “ingerenza umanitaria” negli affari interni degli “stati canaglia”, classificati come tali dalla superpotenza americana e dai suoi alleati, o alla “cura” imposta al popolo greco per sanare il debito pubblico di quel Paese – in realtà per sanare il bilancio della banche francesi e tedesche).
Punto quarto. A questo duplice rifiuto, Galli oppone l’apologia della sovranità intesa come sovranità democratica, che è poi come la intende la nostra Costituzione:
In uno strepitoso saggio breve (“Sovranità”, il Mulino) che ho divorato in poche ore (era da tempo che una lettura non mi appassionava tanto), Carlo Galli fa piazza pulita delle idiozie, dei luoghi comuni e degli ideologismi che funestano le campagne anti sovraniste condotte da media, partiti e accademici (come populismo, sovranismo è un concetto passepartout che, a furia si essere riempito dei contenuti più disparati, ha finito per perdere senso). Approfittando del fatto che Alessandro Somma dedica, su queste stesse pagine, un’ampia recensione al lavoro di Galli, mi permetto di estrarne in poche righe il “succo” politico e, per sintetizzarlo nel modo più chiaro possibile (ammettendo apriori le inevitabili semplificazioni e le altrettanto inevitabili – ma spero non troppo arbitrarie – interpretazioni soggettive) dividerò l’argomentazione in quattro parti.
Uno. Galli, evitando la trappola in cui cadono i filosofi della politica che assumono una prospettiva metastorica (inscrivendo ad esempio la democrazia ateniese e la democrazia moderna in un medesimo ordine fenomenico), mette in luce la specificità della sovranità dei moderni che consiste nel fatto, già evidenziato dal Machiavelli, che essa non è legittimata da alcun fattore trascendente ma appare esposta alle sfide che la contingenza lancia all’ordine politico – ordine che si presenta quindi come frutto di costruzione, più che come portato di fattori naturali e/o tradizionali. “La modernità, scrive, è l’epoca in cui la legittimità diventa problema, non è più data ma assente e quindi ricercata, inseguita, costruita”.
Due. Il carattere infondato – la fragilità oserei dire – del moderno potere sovrano fa sì che l’ordine politico non si possa mai dare per acquisito e scontato: pur concentrando e monopolizzando il potere politico esso “non riesce ma a spoliticizzare del tutto la società, o il popolo”, per cui questi producono ininterrottamente “nuovo disordine e nuove esigenze di ordine”. Detto in altro modo: “il potere costituente non è mai del tutto costituito”, e ancora: “la forma del potere costituente è la rivoluzione, nemica e motore ad un tempo della sovranità. La rivoluzione è eccesso di potenza sociale che si fa politica, presenza concreta di un popolo o di una classe che sfonda lo spazio pubblico, che agisce contro la sovranità esistente e ne genera una nuova”. Si potrebbe affermare che sovranità e conflitto sociale sono due facce della stessa medaglia: non si dà l’una senza l’altro e viceversa. È per questo che i critici della sovranità la descrivono come qualcosa di arbitrario, eccessivo, se non di mostruoso?
Tre. Per rispondere occorre partire dalla paradossale convergenza fra critici di destra e di sinistra della sovranità. Le ragioni della destra sono chiare: all’economia liberista non serve – anzi è d’ostacolo – la legittimazione dell’ordine politico, essa si ritiene capace di autolegittimazione, detentrice di una sovranità autonoma che non affonda le radici nella politica ma nel mercato: “l’obiettivo del neoliberismo, scrive Galli, è sostituire il privato al pubblico, la libera scelta al comando, la concorrenza al conflitto, l’uguaglianza alla rappresentanza, la governance alle istituzioni politiche”. E la sinistra? Il fatto è che questa sembra avere smarrito la consapevolezza che il conflitto sociale non può svilupparsi se non nella cornice della sovranità, di una “unità del volere e dell’agire in assenza della quale la pluralità non potrebbe agire politicamente”. Così, mentre rifiuta la sovranità nazionale, vissuta come arbitraria, repressiva, autoritaria, “di destra”, ne invoca il superamento da parte di istituzioni sovranazionali che incarnano tuttavia una sorta di “sovranità al quadrato”, ben più arbitraria, autoritaria e antidemocratica (si pensi alle guerre in nome della “ingerenza umanitaria” negli affari interni degli “stati canaglia”, classificati come tali dalla superpotenza americana e dai suoi alleati, o alla “cura” imposta al popolo greco per sanare il debito pubblico di quel Paese – in realtà per sanare il bilancio della banche francesi e tedesche).
Punto quarto. A questo duplice rifiuto, Galli oppone l’apologia della sovranità intesa come sovranità democratica, che è poi come la intende la nostra Costituzione:
«La sovranità democratica è dal punto di vista materiale protezione fisica e promozione sociale della persona: Stato economico come Stato sociale e come Stato del benessere (…) il che implica che l’economia capitalistica abbia una forma mista o in ogni caso moderata dalla politica che non ammette alcuna sovranità del mercato».
Posto che la sovranità nazionale non vuol dire necessariamente nazionalismo, e che distinguere fra interno ed esterno non vuol dire necessariamente xenofobia, bensì volontà di definire lo spazio in cui i cittadini possono liberamente decidere in merito alle scelte che influiscono sulla loro vita, Galli confuta l’accusa secondo cui la ricerca di sovranità sarebbe “antipolitica”: siamo piuttosto di fronte a una forte istanza politica, cioè alla richiesta di ristabilire la distinzione fra pubblico e privato, restituendo al primo il controllo sugli “spiriti animali” dell’economia. Se poi questa richiesta viene oggi intercettata soprattutto da destra, la responsabilità ricade su una sinistra cieca nei confronti delle devastazioni sociali prodotte dal liberismo. Con buona pace, aggiungerei io, di tutti coloro che auspicano la costruzione di un fronte unito antisovranista e antipopulista.
* Fonte: Micromega
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