[ venerdì 14 giugno 2019 ]
Ci eravamo già occupati del pensiero di Carl Schmitt nel novembre scorso, — Carl Schmitt tra bolscevismo e fascismo. Sull'importanza di Machiavelli Eos era invece intervenuto con Machiavelli e la politica italiana. In occasione del seminario I fondamenti filosofici della politica: Machiavelli, Croce e Gramsci, salì la domanda di mettere a confronto il pensiero politico del Machiavelli con quello del giurista tedesco.
“Io sono Marxista rivoluzionario!"
Carl Schmitt, Lettera a P. Schiera, 15 novembre 1979
“La miseria di Machiavelli consiste nell’ambiguità implicita nel fatto stesso di parlare del potere, di farlo cioè oggetto della chiacchiera. Il potere è e rimane mistero”
Carl Schmitt 24.11.1947
Schmitt affronta in differenti contesti ed analisi l’orizzonte di pensiero del Machiavelli, tra queste fasi si può però senza dubbio identificare un nucleo comune.
I saggi fondamentali del Nostro, da quelli sulla “teologia politica” a quello su Hobbes del 1938, per finire al “Glossario” e oltre confermano questa interpretazione.
Si può infatti affermare che la radice schmittiana della statualità e della politica moderne sono di evidente ascendenza hobbesiana, ed in minor parte hegeliana, all’origine dunque del giuspositivismo tecnico e poi del decisionismo, antagonista del primo. Giusnaturalismo e giuspositivismo vengono superati come astrazioni storiche ed ideologiche rispetto al criterio ermeneutico di legittimità e legalità, che Lenin per primo, secondo Schmitt, avrebbe imposto nella prassi politica novecentesca. Machiavelli è così considerato, esplicitamente, estraneo da Schmitt alla politica ed alla statualità moderne, sia di fronte all’irruzione, ben preventivata da Hobbes, dello Stato macchina sia di fronte all’oggettivazione tecnicistica del razionalismo giuridico. F. Bacon finisce per essere addirittura più machiavelliano del Cancelliere fiorentino (Cfr. "Glossario", p. 256).
Schmitt analizzò la visione mitica machiavellica, identificata contestualmente, dopo l’affermazione del fascismo in Italia, nella teoria politica di Sorel; da qui l'identità rilevata dal giurista di Mussolini quale Machiavelli del ‘900, in quanto prassista della pura politicità che vince sul moralismo astratto e sull’economicismo, ma Machiavelli non può, nel nomòs schmittiano della terra, in verità contribuire alla “salvezza” rispetto ai meccanismi disumani ed alienanti del potere moderno. Il potere statuale politico moderno sarebbe misterioso e anti-umano e nella originaria forma e nell’artifizio barocco che lo contraddistingue: a Machiavelli sfuggirebbe perciò completamente l’omogeneità sostanziale tra potere e autodifesa dalla morte, in quanto il sovranismo decisionale dello Stato macchina rappresenterebbe proprio l’apertura sulla facciata ultimativa della morte e tutto ciò non sarebbe sfuggito invece a Hobbes, autentico pensatore drammatico e barocco. Il Cancelliere di Firenze non avrebbe compreso la dimensione ontologica vitalistica e “darwinistica” del potere politico post-medioevale basata sul nesso tra sovranità, vitalità o morte dell’individuo da un lato e protezione dal caos dall’altro. Di conseguenza, a differenza di Hobbes, non avrebbe potuto ben identificare la sostanza della teologia politica dei nostri tempi, fondata sulla connessione tra decisione e rappresentazione. Quando Schmitt parla di rappresentazione intende la rappresentazione barocca, la oggettività artificiale che dal Settecento in poi la critica individualistica avrebbe corroso, con il risultato di liberare il nucleo anti-umano del potere, prima domato dallo Stato. Machiavelli sarebbe dunque, agli occhi di Schmitt, un pensatore “troppo umano” del potere immediato, aperto, naturale, non cogliendo il mistero secondo cui è il potere a comandare sul potente e, normativisticamente, sullo stesso politico.
Schmitt non è quindi quel teorico della “regolarità del politico” che Miglio credette di vedere ma è il teorico e l’apologeta del “politico d’eccezione”. Lenin è così l’unico protagonista della “legittimità rivoluzionaria”; grazie a Lenin, ogni efferatezza è giustizia nel nome della rivoluzione, l’imperialismo assume il carattere di lotta di liberazione antimperialista e ogni disumanità può divenire una etica al servizio dell’umanità superiore, che si afferma sul campo nel massimo agonismo leninista: la guerra civile come guerra rivoluzionaria e la guerra rivoluzionaria come guerra politica globale del Partigiano, ultima sentinella dello spirito politico della terra. Schmitt recupera in tal senso la profonda lezione giacobina del Robespierre dal quale espelle come non essenziale e anche falsificatore il presunto ideologismo democratico-repubblicano-egualitario con cui si sono lavati scioccamente la bocca progressisti e rivoluzionari. In ballo c'è invece il principio della legittimità politica sulla legalità astratta, ben oltre progresso, diritti e democrazia. Ne "Il Glossario", come nei suoi geniali scritti sulla guerra civile francese, egli ha peraltro modo di rilevare l'hegelismo intimo di una pratica politica la quale, orizzontandosi conformemente allo spirito del tempo, non solo porterà Hegel a Mosca e non in Occidente, o il troppo umanista e immanentista Machiavelli a guidare la Roma mediterranea fascistizzata ma vedrà addirittura in Metternich il simbolo massimo del nichilismo politico, del suicidio storico legittimistico monarchico di fronte alla tensione politica massimamente concentrata nella figura di un Robespierre, l'autentico rex, ben più che in quella del Bonaparte, privo quest'ultimo della adeguata legittimità politica.
Sempre grazie a Lenin, nel mondo moderno il monopolio della legittima è nell' Oriente bolscevico e maoista, e l’Occidente non si sarebbe nemmeno accorto della distinzione tra legalità e legittimità: “Gli anglosassoni e la Chiesa cattolica non conoscono né praticano ancora questa distinzione”, scrive Carl Schmitt il 30 luglio 1948.
L’elemento fondamentale in questione, forse non ben considerato dai critici, almeno sino alle conseguenze ultime, radicali, è che la concezione teopolitica decisionistica schmittiana è di schietta derivazione leninista. La “fascinazione” schmittiana è tutta per Lenin e la Rivoluzione russa, non per Mussolini neo-machiavellico e per la sua “rivoluzione” conservatrice soreliana, come si credette sino a poco tempo fa. L'evidenza gioca ormai a favore di tale ermeneutica.
Il termine “fascinazione” riferito al marxismo leninismo ricorre più volte nelle pagine schmittiane e più volte, dopo il 1945, Schmitt si dichiarò un “politico marxista rivoluzionario” vedendo nel Partigiano leninista o maoista lo spirito di Clausewitz reincarnato.
Al di là degli aspetti congiunturali, esiste evidentemente una sin troppo evidente parentela tra la teologia politica neo-hobbesiana di Schmitt e l’azione storica di Lenin, rappresentato con un giudizio espresso durante la guerra fredda come “il più consapevole tra i politici contemporanei”, proprio sul piano della qualità e sulla intensità della lotta politica.
Lenin e Schmitt hanno non a caso una medesima idea della politica, concepita sull’assolutizzazione pratica del concetto di nemico:
Di tale istanza originaria schmittiana si ha peraltro traccia nei Colloqui a Norimberga, dove non solo traspare tutta la delusione verso l'Hitler “mediocre politico” e debole statista ma anche l’ammirazione integrale, o meglio di nuovo la fascinazione autentica verso l’Ottobre rivoluzionario rosso, rispetto ad una rivolta anch'essa potenzialmente universalistica quale quella fascista italiana, che sarebbe stata però fuori gioco proprio per il suo spirito umanistico mediterraneo.
Possiamo oggi dire che il giudizio schmittiano su Machiavelli è realistico? Vi è di certo una differenza sostanziale tra la visione schmittiana e quella machiavellica. Schmitt, di formazione cattolica, poi folgorato dal comunismo rivoluzionario di Lenin, si può considerare un monista puro.
Sia la forma politica del cattolicesimo romano, sia il concetto di Catechon, sia la visione cosmo storica basata sulla centralità del partigianesimo leninista, nella concezione del teorico tedesco, ci dicono che il formalismo metafisico barocco tende comunque a assumere nel suo universo un carattere assoluto e primario. In Machiavelli, viceversa, con il suo realismo umano troppo umano, rimproveratogli dallo Schmitt, il politico e lo statista sono feriti, lacerati dalle tragiche antimonie della realtà. Le pagine più importanti del simbolismo politico statuale del Cancelliere di Firenze sono proprio quelle dedicate alla figura del Centauro, ossia di Chitone, precettore di Achille. L’umanesimo tutto politico machiavelliano rompe e dissolve il precedente paradigma umanistico e neoplatonico del principe maestro di virtù e magnanimità; il principe machiavelliano vive, lui per primo, delle e nelle contraddizioni umane ed è continuamente esposto alla situazione più ferina di tutte, la guerra, deve saper simulare e dissimulare e i suoi comportamenti richiamano, di contro al decisionismo hobbesiano-schmittiano basato sul miracolo dello stato d'eccezione permanente, quel senso di misura che i politici dell’antica Grecia acquisivano con una lunga prassi. Nel divenire eracliteo della realtà, il principe machiavelliano dovrebbe manifestare duttilità metodica nella comprensione dell’evento e flessibilità pragmatistica nella rapida esecuzione di attuose virtù. Non esiste la purezza della vittoria adamantina, nel principe, non esiste l’annientamento del nemico, poiché realisticamente una guerra o un conflitto politico portano con sé rivalse e sensi di vendette, dunque l’élite dominante dovrebbe essere soprattutto in grado di temperare i poli antagonisti per il bene dello Stato, il centro totale dell’orizzonte del Segretario fiorentino. Senza dimenticare che nel "turbamento" machiavelliano, amico e nemico spesso si confondono in un gioco altrettanto misterioso di quello del potere di Schmitt, se non più, nei concetti pratici di alleato/avversario primario/avversario temporaneo.
La visione del mondo etico-politica machiavelliana è basata sul principio immanentista della metamorfosi, quella di Schmitt su quello trascendente e escatologico. Se abbiamo veduto quale è la critica schmittiana al principe machiavelliano, possiamo immaginare quale possa essere la critica machiavelliana al decisionismo catechontico con la sua mistica del potere assoluto: utopismo, trascendentismo aumano sia esso rivoluzionario leninista o cattolico o globalista tecnocratico, ideologismo strategico assolutista in cui dilegua ogni soluzione realistica tattica.
Niente, nella prassi politica machiavelliana, è così liscio e lineare da non essere ferito, contaminato da tensioni di segno opposto. La politica è il regno della tensione o del conflitto anche quando sembrerebbe morto, definitivamente, il “nemico”: bene, male, luce, tenebre si compenetrano di sostanze e poli contrapposti e simili. Se in Machiavelli riemergono i tratti caratteristici, mutatis mutandis, di un Sun Tzu, la continuità tra il prussiano Clausewitz, a cui non a caso Lenin dedicò un libro di massime strategiche politiche e militari, e Schmitt non è in discussione.
La politica, la grande politica del Cancelliere di Firenze, ben diversa da quella schmittiana, ed anche antagonista a questa, non agisce in un solo dominio, dove si possa far filtrare la luce positiva e criptare quella negativa, poiché non esiste in terra, ne può esistere, il paradiso né il Catechon di oggi può essere quello di domani o lo dovrà essere per forza.
Il comunismo novecentesco tutto, abbeveratosi alla fonte della lezione di Lenin, fu escatologico e apocalittico, una secolarizzazione religiosa come intuì il Berdjaev nella sua mirabile sintesi. Lenin fu stratega, che forse troppo tardi tentò di declinare nella tattica pura il tesoro rivoluzionario conquistato con grande fatica. Unico esempio di prassi comunista machiavellica, in una eroica controtendenza rispetto al clima generale, fu invece rappresentato dall'ideologia italiana di Palmiro Togliatti basata sull'addestramento politico da guerra tattica di Posizione. Socialismo più Machiavelli, ma più machiavellismo che socialismo, poiché al socialismo togliattiano si può pervenire solo per la via di Machiavelli. L'assoluto "realismo della politica" come è stato definito in un recentissimo libro, di Gianluca Fiocco, il percorso di Togliatti.
Fu la grande tradizione politica del realismo italiano che permise a Palmiro Togliatti di operare tenendo sempre al centro la machiavelliana metis.
Virtù politica, massima tra le umane virtù, frutto e sintesi di una scuola dura e eroica ben più di una guerra guerreggiata. Guerra intensa e arida di Posizione da cui sbocciò un fronte popolare rivoluzionario anzitutto italianista e patriottico, non sovietico né capitolazionista; interclassista non ortodossamente operaista; idealista oggettivo ben più che materialista.
Noi non crediamo, a differenza di liberali o di populisti e sovranisti, che comunismo e fascismo siano nati e siano morti nell'arco del Novecento. E crediamo pure, in base alla teoria machiavelliana della metamorfosi storico-politica, che al riguardo i prototipi più politici ed umanistici nel secolo passato siano stati proprio quelli italiani. Cogliere lo spirito della profonda ed intensa lotta politica italiana novecentesca, machiavelliana più d'ogni altra, richiederebbe evidentemente ben altro che richiamo identitario, settario, simbolico regressivo, da branco o da boy scout con velleità politiche.
Cogliere siffatto spirito, che è oggi quanto mai arduo e complesso, ben più di quanto lo fosse nel secolo trascorso, significherebbe proprio portarsi nella prima linea della Guerra di Posizione dei tempi attuali.
Ci eravamo già occupati del pensiero di Carl Schmitt nel novembre scorso, — Carl Schmitt tra bolscevismo e fascismo. Sull'importanza di Machiavelli Eos era invece intervenuto con Machiavelli e la politica italiana. In occasione del seminario I fondamenti filosofici della politica: Machiavelli, Croce e Gramsci, salì la domanda di mettere a confronto il pensiero politico del Machiavelli con quello del giurista tedesco.
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“Io sono Marxista rivoluzionario!"
Carl Schmitt, Lettera a P. Schiera, 15 novembre 1979
“La miseria di Machiavelli consiste nell’ambiguità implicita nel fatto stesso di parlare del potere, di farlo cioè oggetto della chiacchiera. Il potere è e rimane mistero”
Carl Schmitt 24.11.1947
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Schmitt affronta in differenti contesti ed analisi l’orizzonte di pensiero del Machiavelli, tra queste fasi si può però senza dubbio identificare un nucleo comune.
I saggi fondamentali del Nostro, da quelli sulla “teologia politica” a quello su Hobbes del 1938, per finire al “Glossario” e oltre confermano questa interpretazione.
Si può infatti affermare che la radice schmittiana della statualità e della politica moderne sono di evidente ascendenza hobbesiana, ed in minor parte hegeliana, all’origine dunque del giuspositivismo tecnico e poi del decisionismo, antagonista del primo. Giusnaturalismo e giuspositivismo vengono superati come astrazioni storiche ed ideologiche rispetto al criterio ermeneutico di legittimità e legalità, che Lenin per primo, secondo Schmitt, avrebbe imposto nella prassi politica novecentesca. Machiavelli è così considerato, esplicitamente, estraneo da Schmitt alla politica ed alla statualità moderne, sia di fronte all’irruzione, ben preventivata da Hobbes, dello Stato macchina sia di fronte all’oggettivazione tecnicistica del razionalismo giuridico. F. Bacon finisce per essere addirittura più machiavelliano del Cancelliere fiorentino (Cfr. "Glossario", p. 256).
Schmitt analizzò la visione mitica machiavellica, identificata contestualmente, dopo l’affermazione del fascismo in Italia, nella teoria politica di Sorel; da qui l'identità rilevata dal giurista di Mussolini quale Machiavelli del ‘900, in quanto prassista della pura politicità che vince sul moralismo astratto e sull’economicismo, ma Machiavelli non può, nel nomòs schmittiano della terra, in verità contribuire alla “salvezza” rispetto ai meccanismi disumani ed alienanti del potere moderno. Il potere statuale politico moderno sarebbe misterioso e anti-umano e nella originaria forma e nell’artifizio barocco che lo contraddistingue: a Machiavelli sfuggirebbe perciò completamente l’omogeneità sostanziale tra potere e autodifesa dalla morte, in quanto il sovranismo decisionale dello Stato macchina rappresenterebbe proprio l’apertura sulla facciata ultimativa della morte e tutto ciò non sarebbe sfuggito invece a Hobbes, autentico pensatore drammatico e barocco. Il Cancelliere di Firenze non avrebbe compreso la dimensione ontologica vitalistica e “darwinistica” del potere politico post-medioevale basata sul nesso tra sovranità, vitalità o morte dell’individuo da un lato e protezione dal caos dall’altro. Di conseguenza, a differenza di Hobbes, non avrebbe potuto ben identificare la sostanza della teologia politica dei nostri tempi, fondata sulla connessione tra decisione e rappresentazione. Quando Schmitt parla di rappresentazione intende la rappresentazione barocca, la oggettività artificiale che dal Settecento in poi la critica individualistica avrebbe corroso, con il risultato di liberare il nucleo anti-umano del potere, prima domato dallo Stato. Machiavelli sarebbe dunque, agli occhi di Schmitt, un pensatore “troppo umano” del potere immediato, aperto, naturale, non cogliendo il mistero secondo cui è il potere a comandare sul potente e, normativisticamente, sullo stesso politico.
Schmitt non è quindi quel teorico della “regolarità del politico” che Miglio credette di vedere ma è il teorico e l’apologeta del “politico d’eccezione”. Lenin è così l’unico protagonista della “legittimità rivoluzionaria”; grazie a Lenin, ogni efferatezza è giustizia nel nome della rivoluzione, l’imperialismo assume il carattere di lotta di liberazione antimperialista e ogni disumanità può divenire una etica al servizio dell’umanità superiore, che si afferma sul campo nel massimo agonismo leninista: la guerra civile come guerra rivoluzionaria e la guerra rivoluzionaria come guerra politica globale del Partigiano, ultima sentinella dello spirito politico della terra. Schmitt recupera in tal senso la profonda lezione giacobina del Robespierre dal quale espelle come non essenziale e anche falsificatore il presunto ideologismo democratico-repubblicano-egualitario con cui si sono lavati scioccamente la bocca progressisti e rivoluzionari. In ballo c'è invece il principio della legittimità politica sulla legalità astratta, ben oltre progresso, diritti e democrazia. Ne "Il Glossario", come nei suoi geniali scritti sulla guerra civile francese, egli ha peraltro modo di rilevare l'hegelismo intimo di una pratica politica la quale, orizzontandosi conformemente allo spirito del tempo, non solo porterà Hegel a Mosca e non in Occidente, o il troppo umanista e immanentista Machiavelli a guidare la Roma mediterranea fascistizzata ma vedrà addirittura in Metternich il simbolo massimo del nichilismo politico, del suicidio storico legittimistico monarchico di fronte alla tensione politica massimamente concentrata nella figura di un Robespierre, l'autentico rex, ben più che in quella del Bonaparte, privo quest'ultimo della adeguata legittimità politica.
Sempre grazie a Lenin, nel mondo moderno il monopolio della legittima è nell' Oriente bolscevico e maoista, e l’Occidente non si sarebbe nemmeno accorto della distinzione tra legalità e legittimità: “Gli anglosassoni e la Chiesa cattolica non conoscono né praticano ancora questa distinzione”, scrive Carl Schmitt il 30 luglio 1948.
L’elemento fondamentale in questione, forse non ben considerato dai critici, almeno sino alle conseguenze ultime, radicali, è che la concezione teopolitica decisionistica schmittiana è di schietta derivazione leninista. La “fascinazione” schmittiana è tutta per Lenin e la Rivoluzione russa, non per Mussolini neo-machiavellico e per la sua “rivoluzione” conservatrice soreliana, come si credette sino a poco tempo fa. L'evidenza gioca ormai a favore di tale ermeneutica.
Il termine “fascinazione” riferito al marxismo leninismo ricorre più volte nelle pagine schmittiane e più volte, dopo il 1945, Schmitt si dichiarò un “politico marxista rivoluzionario” vedendo nel Partigiano leninista o maoista lo spirito di Clausewitz reincarnato.
Al di là degli aspetti congiunturali, esiste evidentemente una sin troppo evidente parentela tra la teologia politica neo-hobbesiana di Schmitt e l’azione storica di Lenin, rappresentato con un giudizio espresso durante la guerra fredda come “il più consapevole tra i politici contemporanei”, proprio sul piano della qualità e sulla intensità della lotta politica.
Lenin e Schmitt hanno non a caso una medesima idea della politica, concepita sull’assolutizzazione pratica del concetto di nemico:
«Lenin fu il primo a convincersi che il partigiano era una figura decisiva della guerra civile nazionale e internazionale e che cercò di trasformarlo in strumento efficace… Si tratta di una nuova definizione del concetto di “nemico” e “ostilità”, già esaminato nello scritto Che fare. Il modo di separare l’amico dal nemico è la cosa essenziale poiché definisce non solo il tipo di guerra ma anche quello di politica. Solo la guerra rivoluzionaria è per Lenin la vera guerra, poiché si fonda sull’assoluta ostilità».La concezione del mondo schmittiana è perciò il polo teorico del prassismo leniniano: nemico assoluto, politica senza limiti, guerra totale in quanto legittima. Il teorico stesso, che percorre questa direzione, si espone, la sua impresa diventa anche questa un elemento di prassi e lotta politica. Il concetto di amico/nemico è parzialmente ripreso da Alamos de Barrientos (1555-1640), un teorico dello Stato che fu a sua volta influenzato da Machiavelli. L’adesione di Schmitt al nazionalsocialismo non è dunque, con una tesi che ancora va per la maggiore, l’adesione di un teologo politico cattolico-conservatore che vuole “fascistizzare” il movimento hitleriano, tutt’altro invece se si pensi al sabotaggio intellettuale operato su tutta la linea dalla frazione di “sinistra” dello Stato “corporativista” fascista verso l'ingresso del pensiero politico schmittiano in Italia o, anche, qualora si pensi al fatto che Schmitt dette il semaforo verde giuridico, teorico all’annientamento della corrente forse più fascisteggiante e “socialista nazionale” delle SA (Sturmabteilung) nella famosa “Notte dei lunghi coltelli”, ma è viceversa l’adesione dell’intellettuale a un regime che secondo lui può far rinascere una Germania in cui il principio di legittimità si affermi su quello di legalità. E' quindi il teologo politico che cerca il suo “Cromwell” o il suo “Lenin” tedesco, non il suo Mussolini, di cui Schmitt, apologeta del miracolo politico basato sull’eccezionalità strategica deve per forza rigettare appunto la pur grandiosa normalità e regolarità tatticistica sino a negarne il medesimo orizzonte ultimo ideologico, di pretto taglio sindacalistico rivoluzionario.
Di tale istanza originaria schmittiana si ha peraltro traccia nei Colloqui a Norimberga, dove non solo traspare tutta la delusione verso l'Hitler “mediocre politico” e debole statista ma anche l’ammirazione integrale, o meglio di nuovo la fascinazione autentica verso l’Ottobre rivoluzionario rosso, rispetto ad una rivolta anch'essa potenzialmente universalistica quale quella fascista italiana, che sarebbe stata però fuori gioco proprio per il suo spirito umanistico mediterraneo.
Possiamo oggi dire che il giudizio schmittiano su Machiavelli è realistico? Vi è di certo una differenza sostanziale tra la visione schmittiana e quella machiavellica. Schmitt, di formazione cattolica, poi folgorato dal comunismo rivoluzionario di Lenin, si può considerare un monista puro.
Sia la forma politica del cattolicesimo romano, sia il concetto di Catechon, sia la visione cosmo storica basata sulla centralità del partigianesimo leninista, nella concezione del teorico tedesco, ci dicono che il formalismo metafisico barocco tende comunque a assumere nel suo universo un carattere assoluto e primario. In Machiavelli, viceversa, con il suo realismo umano troppo umano, rimproveratogli dallo Schmitt, il politico e lo statista sono feriti, lacerati dalle tragiche antimonie della realtà. Le pagine più importanti del simbolismo politico statuale del Cancelliere di Firenze sono proprio quelle dedicate alla figura del Centauro, ossia di Chitone, precettore di Achille. L’umanesimo tutto politico machiavelliano rompe e dissolve il precedente paradigma umanistico e neoplatonico del principe maestro di virtù e magnanimità; il principe machiavelliano vive, lui per primo, delle e nelle contraddizioni umane ed è continuamente esposto alla situazione più ferina di tutte, la guerra, deve saper simulare e dissimulare e i suoi comportamenti richiamano, di contro al decisionismo hobbesiano-schmittiano basato sul miracolo dello stato d'eccezione permanente, quel senso di misura che i politici dell’antica Grecia acquisivano con una lunga prassi. Nel divenire eracliteo della realtà, il principe machiavelliano dovrebbe manifestare duttilità metodica nella comprensione dell’evento e flessibilità pragmatistica nella rapida esecuzione di attuose virtù. Non esiste la purezza della vittoria adamantina, nel principe, non esiste l’annientamento del nemico, poiché realisticamente una guerra o un conflitto politico portano con sé rivalse e sensi di vendette, dunque l’élite dominante dovrebbe essere soprattutto in grado di temperare i poli antagonisti per il bene dello Stato, il centro totale dell’orizzonte del Segretario fiorentino. Senza dimenticare che nel "turbamento" machiavelliano, amico e nemico spesso si confondono in un gioco altrettanto misterioso di quello del potere di Schmitt, se non più, nei concetti pratici di alleato/avversario primario/avversario temporaneo.
La visione del mondo etico-politica machiavelliana è basata sul principio immanentista della metamorfosi, quella di Schmitt su quello trascendente e escatologico. Se abbiamo veduto quale è la critica schmittiana al principe machiavelliano, possiamo immaginare quale possa essere la critica machiavelliana al decisionismo catechontico con la sua mistica del potere assoluto: utopismo, trascendentismo aumano sia esso rivoluzionario leninista o cattolico o globalista tecnocratico, ideologismo strategico assolutista in cui dilegua ogni soluzione realistica tattica.
Niente, nella prassi politica machiavelliana, è così liscio e lineare da non essere ferito, contaminato da tensioni di segno opposto. La politica è il regno della tensione o del conflitto anche quando sembrerebbe morto, definitivamente, il “nemico”: bene, male, luce, tenebre si compenetrano di sostanze e poli contrapposti e simili. Se in Machiavelli riemergono i tratti caratteristici, mutatis mutandis, di un Sun Tzu, la continuità tra il prussiano Clausewitz, a cui non a caso Lenin dedicò un libro di massime strategiche politiche e militari, e Schmitt non è in discussione.
La politica, la grande politica del Cancelliere di Firenze, ben diversa da quella schmittiana, ed anche antagonista a questa, non agisce in un solo dominio, dove si possa far filtrare la luce positiva e criptare quella negativa, poiché non esiste in terra, ne può esistere, il paradiso né il Catechon di oggi può essere quello di domani o lo dovrà essere per forza.
Il comunismo novecentesco tutto, abbeveratosi alla fonte della lezione di Lenin, fu escatologico e apocalittico, una secolarizzazione religiosa come intuì il Berdjaev nella sua mirabile sintesi. Lenin fu stratega, che forse troppo tardi tentò di declinare nella tattica pura il tesoro rivoluzionario conquistato con grande fatica. Unico esempio di prassi comunista machiavellica, in una eroica controtendenza rispetto al clima generale, fu invece rappresentato dall'ideologia italiana di Palmiro Togliatti basata sull'addestramento politico da guerra tattica di Posizione. Socialismo più Machiavelli, ma più machiavellismo che socialismo, poiché al socialismo togliattiano si può pervenire solo per la via di Machiavelli. L'assoluto "realismo della politica" come è stato definito in un recentissimo libro, di Gianluca Fiocco, il percorso di Togliatti.
Fu la grande tradizione politica del realismo italiano che permise a Palmiro Togliatti di operare tenendo sempre al centro la machiavelliana metis.
Virtù politica, massima tra le umane virtù, frutto e sintesi di una scuola dura e eroica ben più di una guerra guerreggiata. Guerra intensa e arida di Posizione da cui sbocciò un fronte popolare rivoluzionario anzitutto italianista e patriottico, non sovietico né capitolazionista; interclassista non ortodossamente operaista; idealista oggettivo ben più che materialista.
Noi non crediamo, a differenza di liberali o di populisti e sovranisti, che comunismo e fascismo siano nati e siano morti nell'arco del Novecento. E crediamo pure, in base alla teoria machiavelliana della metamorfosi storico-politica, che al riguardo i prototipi più politici ed umanistici nel secolo passato siano stati proprio quelli italiani. Cogliere lo spirito della profonda ed intensa lotta politica italiana novecentesca, machiavelliana più d'ogni altra, richiederebbe evidentemente ben altro che richiamo identitario, settario, simbolico regressivo, da branco o da boy scout con velleità politiche.
Cogliere siffatto spirito, che è oggi quanto mai arduo e complesso, ben più di quanto lo fosse nel secolo trascorso, significherebbe proprio portarsi nella prima linea della Guerra di Posizione dei tempi attuali.
7 commenti:
Ho trovato questo saggio davvero utile per comprendere la sostanza della visione schmittiana, e per capire la differenza col Machiavelli.
Ringrazio l'autore. Chiedo dunque: possiamo affermare che Schmitt assolutizza, quindi rende magico-trascendente la sua idea della radice teologica della politica moderna? Che quindi egli rimane intrappolato nell'unilateralismo privandosi quindi della possibilità di vedere la dimensione olistica e dialettica della politica? Infine, possiamo dunque dire che ai fini di una politica rivoluzionaria vincente, quindi egemonica, poco ci facciamo con Schmitt?
Livio
Indagine politico-filosofica ben articolata, espressione di uno studio profondo delle dinamiche storico politiche e dei complessi risvolti del pensiero di grandi filosofi della politica come Macchiavelli e Schmitt. Tuttavia, mi permetto di osservare, che in Eos il pianeta politico si libra sempre nell'iperuranio della sua autonomia cosmico storica e non e' mai ancorato alla base materiale delle leggi economiche, come avrebbe preteso un certo sconosciuto di nome Karl Marx.
Comunque complimenti ad Eos
Mauro Pasquinelli
Finalmente una cosa deve essere chiara: marxisti, Schmitt, Machiavelli o sinistra patriottica appartengono tutti al campo autoritario; alla ragion di stato; a coloro per cui il potere è un mistero inevitabile. Nel campo autoritario la rivoluzione è un cambio di potere, mai la sua distruzione o dissoluzione.
Nel campo libertario, cioè antigerarchico e antiautoritario, che non va confuso con gli autoritari liberali, il potere non è mai un mistero. Esso è sempre individuabile in rapporti, persone e strutture. La rivoluzione nel campo libertario significa la distruzione o dissoluzione del potere.
Questo deve essere sempre chiaro e mai più bisogna mischiarsi in nome della rivoluzione perché con lo stesso termine ci si riferisce a significati opposti.
Un anarchico comunista.
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1) Si, penso sia esatto. D'altra parte, per Schmitt la politica contemporanea altro non è che secolarizzazione di concetti religiosi.
2) Non direi questo. Direi anzi che Schmitt assolutizza in senso marxista la dialettica hegeliana. Esistono perciò in lui solo due fronti in contrapposizione totale (Lenin). Alla fine uno (Monismo) dei due prevarrà perchè così vuole il destino dell'universo.
3) Non sarei così tranchant, sarei più cauto.
Direi che Schmitt, come del resto la maggior parte dei politologi e filosofi contemporanei, non ha assolutamente compreso che i più grandi politici e statisti della storia contemporanea sono italiani. Questo limite è frutto di una incomprensione di fondo di ciò che abbia politicamente significato il Rinascimento italiano. Questo balzo in avanti provocato dal Rinascimento assume la parvenza reazionaria di un neo-romanesimo mentre è l'annuncio di un populismo repubblicano o di un socialpatriottismo vero e proprio. Colossale a tal riguardo l'abbaglio di Gramsci. Si può anche dire che la Rivoluzione francese, rispetto alla prassi politica teorizzata dalla strategia machiavelliana, sia una deviazione su un piano economicistico/contrattualistico. Politica egemonica e rivoluzionaria, oggi, Schmitt non la può dare ma poichè presuppone l'esistenza di un leader di valenza universale catecontica. Certo, è preferibile il realismo sul decisionismo ma non è detto che il modello decisionista da guerra civile sia concluso. Sarei molto cauto.
Il concetto schmittiano di legittimità è decisionista è poi connesso a quello di eccezionalismo individuale che ha sulle spalle lo spirito del mondo, il chè mi sembra eccessivo per Cesare o Alessandro il Grande, figurarsi oggi; in fondo mi sembra una retorica molto hegeliana, come quella sul Napoleone veduto a cavallo a Jena, che poi si infrange miseramente contro l'esercito russo! Il problema di una politica egemonica, machiavellianamente, è il problema di un mito che una elite sappia mettere sul piano tattico, prosaico, non su quello risolutivo definitivo o eccezionale. Il concetto mitico di patria machiavelliano non mi pare, appunto, affatto superato. Il mito esiste. sta al realismo renderlo egemonico e Reale sull'economicismo in ogni sua forma e tendenza.
EOS
Articolo eccellente e ineccepibile, di altissimo livello. L'originale chiave interpretativa del pensiero di Schmitt e Machiavelli, e del rapporto tra i loro pensieri, non solo è suggestiva ma è soprattutto convincente in tutti suoi aspetti.
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