[ 15 dicembre 2018 ]
Il clima di terrore che politici e media francesi hanno tentato di alimentare in previsione della manifestazione dei gilet gialli di sabato 8 dicembre ha raggiunto punte di vera e propria isteria, come la dichiarazione del ministro dell’Interno Castaner che ha evocato le “migliaia di violenti pronti a riversarsi a Parigi per uccidere”, come gli accostamenti fra i sanculotti assetati di sangue e questi loro emuli postmoderni pronti a chiedere la testa di Macron, o come il vecchio ritornello (chi ha vissuto gli anni Settanta in Italia se lo ricorda bene) degli “opposti estremismi”, alleati per creare il caos e distruggere l’ordine sociale.
Una repressione preventiva simile a quella che fu messa in atto a Genova nel 2001, con la differenza che, da noi, ciò non impedì di portare centinaia di migliaia di manifestanti nel capoluogo ligure, per cui si rese necessario passare dalle minacce ai fatti, cioè ai crimini commessi dalle “forze dell’ordine” alla caserma Diaz e altrove (che l’immagine dei giovani studenti francesi inginocchiati contro un muro ci ha richiamato alla memoria ), viceversa in Francia ha funzionato, con grande sollievo della stampa di regime: il deterrente di ottomila poliziotti ha fatto sì che i manifestanti convenuti nella capitale fossero più o meno altrettanti (assai di più quelli nel resto del Paese, ma comunque meno che nelle precedenti mobilitazioni).
Del resto le grandi sollevazioni spontanee difficilmente superano certi limiti di durata, né vanno oltre la jacquerie, se non interviene una forza politica in grado di offrire loro sbocchi politici concreti (se a guidare i sanculotti non intervengono cioè i giacobini). E’ per questo che i commentatori, nel prendere atto che questi gruppi non hanno guide né capi, mescolano slogan di destra e di sinistra, vogliono tutto e il contrario di tutto (Frexit, controllo dei prezzi dei servizi pubblici e riduzione delle tasse, riduzione del costo della vita e aumento dei salari, ecc.) si dichiarano, da un lato, spaventati dalla mancanza di un preciso interlocutore con cui trattare, dall’altro sollevati dall’assenza di una leadership capace di trasformare il coacervo delle richieste in un’alternativa di sistema.
Ad ogni buon conto, le élite tentano di screditare sul piano socio culturale il movimento prima ancora che possa precipitare in forme politiche strutturate, mobilitando il coro degli intellettuali “progressisti” e “politicamente corretti”: economisti che spiegano che la Frexit sarebbe una catastrofe per l’economia francese, femministe come la regista Caroline Fourest che, intervistata dal Corriere, denuncia le dichiarazioni omofobe, razziste e violente degli esponenti di un’ala (palesemente minoritaria) del movimento, psicoanalisti che indicano nell’“invidia” della mediocrità provinciale nei confronti della superiore civiltà parigina (mettendo ovviamente fra parentesi il tema delle disuguaglianze economico sociali) la vera motivazione della rabbia popolare.
L’ultimo punto è in effetti cruciale, come sottolineano i cronisti meno ottusi che hanno colto il parallelismo fra i gilet gialli e le decine di migliaia di NoTav confluiti a Torino nello stesso giorno delle manifestazioni francesi. Da un lato delle Alpi, proletari e ceti medi impoveriti delle province e delle banlieux francesi contro la grande borghesia e i “ceti medi riflessivi” della capitale, dall’altro lo stesso blocco sociale rinforzato dal popolo della Val Susa (vittima designata dell’immane quanto inutile progetto di linea ferroviaria superveloce Torino-Lione), contro la borghesia chiamata qualche giorno prima da sette “madamine” a marciare a favore della Tav. “Meglio montagnine che madamine” scandivano le donne della Val Susa, esplicitando senza equivoci il significato dell’evento: trattasi – in Francia come a Torino – di lotta di classe. Che poi la si voglia etichettare come “invidia” non cambia la sostanza di un fenomeno che ha radici antiche, anche se si presenta in forme storiche nuove: ieri lotta operaia contro i padroni, oggi lotta neo giacobina dei cittadini contro le élite.
Il clima di terrore che politici e media francesi hanno tentato di alimentare in previsione della manifestazione dei gilet gialli di sabato 8 dicembre ha raggiunto punte di vera e propria isteria, come la dichiarazione del ministro dell’Interno Castaner che ha evocato le “migliaia di violenti pronti a riversarsi a Parigi per uccidere”, come gli accostamenti fra i sanculotti assetati di sangue e questi loro emuli postmoderni pronti a chiedere la testa di Macron, o come il vecchio ritornello (chi ha vissuto gli anni Settanta in Italia se lo ricorda bene) degli “opposti estremismi”, alleati per creare il caos e distruggere l’ordine sociale.
Una repressione preventiva simile a quella che fu messa in atto a Genova nel 2001, con la differenza che, da noi, ciò non impedì di portare centinaia di migliaia di manifestanti nel capoluogo ligure, per cui si rese necessario passare dalle minacce ai fatti, cioè ai crimini commessi dalle “forze dell’ordine” alla caserma Diaz e altrove (che l’immagine dei giovani studenti francesi inginocchiati contro un muro ci ha richiamato alla memoria ), viceversa in Francia ha funzionato, con grande sollievo della stampa di regime: il deterrente di ottomila poliziotti ha fatto sì che i manifestanti convenuti nella capitale fossero più o meno altrettanti (assai di più quelli nel resto del Paese, ma comunque meno che nelle precedenti mobilitazioni).
Del resto le grandi sollevazioni spontanee difficilmente superano certi limiti di durata, né vanno oltre la jacquerie, se non interviene una forza politica in grado di offrire loro sbocchi politici concreti (se a guidare i sanculotti non intervengono cioè i giacobini). E’ per questo che i commentatori, nel prendere atto che questi gruppi non hanno guide né capi, mescolano slogan di destra e di sinistra, vogliono tutto e il contrario di tutto (Frexit, controllo dei prezzi dei servizi pubblici e riduzione delle tasse, riduzione del costo della vita e aumento dei salari, ecc.) si dichiarano, da un lato, spaventati dalla mancanza di un preciso interlocutore con cui trattare, dall’altro sollevati dall’assenza di una leadership capace di trasformare il coacervo delle richieste in un’alternativa di sistema.
Ad ogni buon conto, le élite tentano di screditare sul piano socio culturale il movimento prima ancora che possa precipitare in forme politiche strutturate, mobilitando il coro degli intellettuali “progressisti” e “politicamente corretti”: economisti che spiegano che la Frexit sarebbe una catastrofe per l’economia francese, femministe come la regista Caroline Fourest che, intervistata dal Corriere, denuncia le dichiarazioni omofobe, razziste e violente degli esponenti di un’ala (palesemente minoritaria) del movimento, psicoanalisti che indicano nell’“invidia” della mediocrità provinciale nei confronti della superiore civiltà parigina (mettendo ovviamente fra parentesi il tema delle disuguaglianze economico sociali) la vera motivazione della rabbia popolare.
L’ultimo punto è in effetti cruciale, come sottolineano i cronisti meno ottusi che hanno colto il parallelismo fra i gilet gialli e le decine di migliaia di NoTav confluiti a Torino nello stesso giorno delle manifestazioni francesi. Da un lato delle Alpi, proletari e ceti medi impoveriti delle province e delle banlieux francesi contro la grande borghesia e i “ceti medi riflessivi” della capitale, dall’altro lo stesso blocco sociale rinforzato dal popolo della Val Susa (vittima designata dell’immane quanto inutile progetto di linea ferroviaria superveloce Torino-Lione), contro la borghesia chiamata qualche giorno prima da sette “madamine” a marciare a favore della Tav. “Meglio montagnine che madamine” scandivano le donne della Val Susa, esplicitando senza equivoci il significato dell’evento: trattasi – in Francia come a Torino – di lotta di classe. Che poi la si voglia etichettare come “invidia” non cambia la sostanza di un fenomeno che ha radici antiche, anche se si presenta in forme storiche nuove: ieri lotta operaia contro i padroni, oggi lotta neo giacobina dei cittadini contro le élite.
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