[ 22 dicembre 2018 ]
IL CONFLITTO SOCIALE E LA PROPAGANDA DELLE ÉLITE
La preoccupazione delle élite europeiste per le tensioni sociali e politiche che scuotono i Paesi del vecchio continente — dal nodo irrisolto della Brexit alla rivolta dei gilet gialli francesi, dalla crisi del duopolio CDU - SPD in Germania al conflitto fra il governo gialloverde italiano e Bruxelles — aumenta con l’avvicinarsi delle elezioni europee e con i timori per il possibile riacutizzarsi di una crisi finanziaria mai realmente chiusa. In questo quadro la propaganda contro la minaccia “populista” e “sovranista” si fa spasmodica, assume toni da crociata e fa sì che il conflitto sociale che le chiacchiere di partiti e media di regime tentano di oscurare emerga sempre più chiaramente.
Provo ad approfondire quest’ultima affermazione analizzando due casi di mobilitazione propagandistica (a stento mimetizzata) e gli interventi di due noti intellettuali. Parto dall’appello dell’associazione Snoq - Libere per le elezioni Europee 2019, pubblicato il 15 dicembre scorso sul Corriere sotto il titolo “Il populismo che disgrega la forza delle donne”.
L’appello ammette che l’ascesa in posizioni di potere di molte donne non ha significativamente cambiato il mondo ma, invece di trarne le dovute conseguenze (cioè che per cambiarlo realmente occorre rovesciare i rapporti di forza socioeconomici che si collocano a monte del conflitto di genere) sostiene: 1) che il vero punto è che le donne non hanno ancora ottenuto abbastanza potere; 2) che il populismo in quanto tale (cioè senza distinzioni fra populismo di destra e populismo democratico) minaccia di provocare un arretramento della libertà e dell’autonomia femminili che i valori europeisti consentirebbero al contrario di promuovere.
Questa posizione non rappresenta, come pretenderebbe, un punto di vista femminista che, oggi, appare attraversato da forti contraddizioni e, in particolare, dall’opposizione fra una posizione “emancipazionista” (rivendicazione della parità assoluta di genere senza mettere in discussione le altre relazioni sociali, economiche e politiche) e una posizione che ha la sua massima esponente in Nancy Fraser, la quale, al pari di altre intellettuali femministe, riconosce in questo femminismo “clintoniano” un potente alleato del regime neoliberista, nella misura in cui incarna gli interessi di una ristretta élite di donne “di successo”. Del resto, basta scorrere l’elenco delle firmatarie dell’appello per capire come ci si trovi di fronte a qualcosa di analogo alle “madamine” che hanno ispirato la mobilitazione torinese Si Tav, e contro le quali si sono schierate le “montagnine” del No Tav. In poche parole: chiacchiere “femministe” a copertura di un manifesto elettorale a sostegno del PD e delle altre forze politiche europeiste.
Un altro manifesto elettorale mascherato si legge fra le righe di molti articoli dedicati all’assassinio di Antonio Megalizzi da parte di un terrorista islamico, avvenuto pochi giorni fa a Strasburgo. Il tragico evento viene caricato di significati simbolici a partire dal luogo in cui è avvenuto (la sede del Parlamento europeo), ma soprattutto dall’attività professionale della vittima, giornalista radiofonico che lavorava per Europhonica, un network di radio universitarie impegnate a “raccontare l’Europa” agli studenti. E’ un dato di fatto che le università occidentali, anni fa sede di radicali contestazioni antisistema, si sono progressivamente trasformate — sia attraverso l’aumento dei costi di accesso che le hanno fatte regredire all’originaria funzione di luogo di formazione degli strati sociali medio elevati, sia attraverso l’offerta di un corpo docente e programmi didattici allineati al pensiero unico neoliberista — in santuari di quella “generazione Erasmus” che assume a paradigma la libera circolazione di merci, capitali e persone offerta dai trattati europei, a prescindere dagli effetti di tale “libertà” sulla massa dei perdenti al gioco della globalizzazione. C’è chi parla di Megalizzi come del “figlio ideale di tutti noi”, ma quel “tutti”, se vale ovviamente sul piano del sentimento umano (la sua morte è un fatto che in tutti suscita orrore), vale assai meno sul piano dei valori e delle convinzioni della vittima. Così il lutto per la sua fine viene a sua volta strumentalizzato per veicolare un messaggio elettorale a sostegno delle forze europeiste.
Passiamo agli articoli. Nel primo (sul Corriere della Sera del 17 dicembre) Angelo Panebianco ribadisce le ragioni per cui si oppone al blocco dei flussi migratori: si comincia frenando il flusso delle persone e si finisce per frenare quello di merci e capitali. E fin qui siamo alle classiche argomentazioni liberiste a sostegno della “società aperta” (oggi condivise dalle sinistre), dopodiché Panebianco spiega il motivo (che viceversa sfugge alla sinistra no border) che minaccia di trasformare l’apertura dei confini in un dispositivo non meno catastrofico della loro chiusura ai fini della sopravvivenza stessa della società aperta: se è vero che la crescita demografica africana procede a ritmi esponenziali, e se è vero che la miseria di quel continente continuerà ad alimentare flussi migratori massicci e inarrestabili, l’esito a medio lungo termine non potrà essere diverso da un arroccamento della fortezza Europa.
Come uscirne? Promuovendo lo sviluppo economico accelerato dell’Africa. Il che non può avvenire finanziando le élite corrotte di quei Paesi, che incamerano gli aiuti per arricchirsi e non per far crescere le proprie economie. Giusto, però Panebianco non dice che quelle élite sono state messe al potere dall’Occidente per svolgere il ruolo di garanti degli interessi sugli “aiuti” internazionali (l’economia del debito imposta dalla finanzia mondiale ha immiserito l’Africa assai più della corruzione dei regimi locali). Né tanto meno dice come se ne potrebbe uscire, e questo perché l’unica via realmente praticabile è quella indicata da Samir Amin: delinking delle economie neocoloniali dal mercato globale, il che implica il disconoscimento del debito e la nazionalizzazione delle risorse naturali di cui oggi si appropriano le multinazionali occidentali. Implica, quindi, un drastico ridimensionamento del flusso di ricchezze che l’Europa oggi estrae da quelle nazioni e la conseguente riduzione della già magra quota di bottino da redistribuire alle classi popolari per tenerle buone.
Il secondo articolo è quello di Giuseppe De Rita (sulla stessa pagina del Corriere). Il sociologo bacchetta chi guarda con invidia alla vitalità della piazza francese, paragonando l’energia dei gilet gialli alla inerzia delle masse nostrane. Il rancore contro le nostre élite, scrive De Rita, ha già prodotto l’ondata populista che ha regalato il potere a M5S e Lega, manca solo che quel rancore — rinfocolato dal “tradimento” delle speranze alimentate dal governo gialloverde — si trasformi in rabbia e paura, spingendo le nostre moltitudini a imitare gli spiriti neo giacobini d’Oltralpe. Come metabolizzare il rancore e prevenire scoppi di paura e rabbia? Concentrandosi, scrive De Rita, “sugli specifici episodi di disagio richiamati all’inizio” (l’articolo cita in merito No Tav, periferie urbane e altre ragioni di malcontento sociale e territoriale) e governandoli “con adeguata professionalità, serietà, continuità”.
Il tutto suona come una conferma da manuale delle tesi di Laclau sulle radici della sfida populista: finché le élite sono in grado di dare una risposta differenziale ai cahiers de doléances popolari, affrontando una rivendicazione alla volta, il sistema regge, ma quando non ce la fanno più le varie rivendicazioni (anche assai diverse o in contrasto fra loro) si sommano, dando vita a una catena di equivalenze che può saldare in popolo le moltitudini indifferenziate, e che, se incontra una guida e un progetto politici, può evolvere in una poderosa minaccia alla sopravvivenza stessa del sistema.
In conclusione: messi alla strette, gli strati sociali che compongono il blocco di potere e le caste politiche e intellettuali che le rappresentano, da un lato, sfoderano tutta la loro capacità di esercitare egemonia sul piano culturale, sfruttando ogni occasione per condurre campagne propagandistiche (vedi i due esempi sopra citati), dall’altro lato, le loro migliori intelligenze producono analisi e discorsi che si avvicinano sempre più alla nuda realtà del conflitto sociale, svelando qual è la vera posta in gioco dello scontro in atto.
* Fonte: Micromega
IL CONFLITTO SOCIALE E LA PROPAGANDA DELLE ÉLITE
La preoccupazione delle élite europeiste per le tensioni sociali e politiche che scuotono i Paesi del vecchio continente — dal nodo irrisolto della Brexit alla rivolta dei gilet gialli francesi, dalla crisi del duopolio CDU - SPD in Germania al conflitto fra il governo gialloverde italiano e Bruxelles — aumenta con l’avvicinarsi delle elezioni europee e con i timori per il possibile riacutizzarsi di una crisi finanziaria mai realmente chiusa. In questo quadro la propaganda contro la minaccia “populista” e “sovranista” si fa spasmodica, assume toni da crociata e fa sì che il conflitto sociale che le chiacchiere di partiti e media di regime tentano di oscurare emerga sempre più chiaramente.
Provo ad approfondire quest’ultima affermazione analizzando due casi di mobilitazione propagandistica (a stento mimetizzata) e gli interventi di due noti intellettuali. Parto dall’appello dell’associazione Snoq - Libere per le elezioni Europee 2019, pubblicato il 15 dicembre scorso sul Corriere sotto il titolo “Il populismo che disgrega la forza delle donne”.
L’appello ammette che l’ascesa in posizioni di potere di molte donne non ha significativamente cambiato il mondo ma, invece di trarne le dovute conseguenze (cioè che per cambiarlo realmente occorre rovesciare i rapporti di forza socioeconomici che si collocano a monte del conflitto di genere) sostiene: 1) che il vero punto è che le donne non hanno ancora ottenuto abbastanza potere; 2) che il populismo in quanto tale (cioè senza distinzioni fra populismo di destra e populismo democratico) minaccia di provocare un arretramento della libertà e dell’autonomia femminili che i valori europeisti consentirebbero al contrario di promuovere.
Questa posizione non rappresenta, come pretenderebbe, un punto di vista femminista che, oggi, appare attraversato da forti contraddizioni e, in particolare, dall’opposizione fra una posizione “emancipazionista” (rivendicazione della parità assoluta di genere senza mettere in discussione le altre relazioni sociali, economiche e politiche) e una posizione che ha la sua massima esponente in Nancy Fraser, la quale, al pari di altre intellettuali femministe, riconosce in questo femminismo “clintoniano” un potente alleato del regime neoliberista, nella misura in cui incarna gli interessi di una ristretta élite di donne “di successo”. Del resto, basta scorrere l’elenco delle firmatarie dell’appello per capire come ci si trovi di fronte a qualcosa di analogo alle “madamine” che hanno ispirato la mobilitazione torinese Si Tav, e contro le quali si sono schierate le “montagnine” del No Tav. In poche parole: chiacchiere “femministe” a copertura di un manifesto elettorale a sostegno del PD e delle altre forze politiche europeiste.
Un altro manifesto elettorale mascherato si legge fra le righe di molti articoli dedicati all’assassinio di Antonio Megalizzi da parte di un terrorista islamico, avvenuto pochi giorni fa a Strasburgo. Il tragico evento viene caricato di significati simbolici a partire dal luogo in cui è avvenuto (la sede del Parlamento europeo), ma soprattutto dall’attività professionale della vittima, giornalista radiofonico che lavorava per Europhonica, un network di radio universitarie impegnate a “raccontare l’Europa” agli studenti. E’ un dato di fatto che le università occidentali, anni fa sede di radicali contestazioni antisistema, si sono progressivamente trasformate — sia attraverso l’aumento dei costi di accesso che le hanno fatte regredire all’originaria funzione di luogo di formazione degli strati sociali medio elevati, sia attraverso l’offerta di un corpo docente e programmi didattici allineati al pensiero unico neoliberista — in santuari di quella “generazione Erasmus” che assume a paradigma la libera circolazione di merci, capitali e persone offerta dai trattati europei, a prescindere dagli effetti di tale “libertà” sulla massa dei perdenti al gioco della globalizzazione. C’è chi parla di Megalizzi come del “figlio ideale di tutti noi”, ma quel “tutti”, se vale ovviamente sul piano del sentimento umano (la sua morte è un fatto che in tutti suscita orrore), vale assai meno sul piano dei valori e delle convinzioni della vittima. Così il lutto per la sua fine viene a sua volta strumentalizzato per veicolare un messaggio elettorale a sostegno delle forze europeiste.
Passiamo agli articoli. Nel primo (sul Corriere della Sera del 17 dicembre) Angelo Panebianco ribadisce le ragioni per cui si oppone al blocco dei flussi migratori: si comincia frenando il flusso delle persone e si finisce per frenare quello di merci e capitali. E fin qui siamo alle classiche argomentazioni liberiste a sostegno della “società aperta” (oggi condivise dalle sinistre), dopodiché Panebianco spiega il motivo (che viceversa sfugge alla sinistra no border) che minaccia di trasformare l’apertura dei confini in un dispositivo non meno catastrofico della loro chiusura ai fini della sopravvivenza stessa della società aperta: se è vero che la crescita demografica africana procede a ritmi esponenziali, e se è vero che la miseria di quel continente continuerà ad alimentare flussi migratori massicci e inarrestabili, l’esito a medio lungo termine non potrà essere diverso da un arroccamento della fortezza Europa.
Come uscirne? Promuovendo lo sviluppo economico accelerato dell’Africa. Il che non può avvenire finanziando le élite corrotte di quei Paesi, che incamerano gli aiuti per arricchirsi e non per far crescere le proprie economie. Giusto, però Panebianco non dice che quelle élite sono state messe al potere dall’Occidente per svolgere il ruolo di garanti degli interessi sugli “aiuti” internazionali (l’economia del debito imposta dalla finanzia mondiale ha immiserito l’Africa assai più della corruzione dei regimi locali). Né tanto meno dice come se ne potrebbe uscire, e questo perché l’unica via realmente praticabile è quella indicata da Samir Amin: delinking delle economie neocoloniali dal mercato globale, il che implica il disconoscimento del debito e la nazionalizzazione delle risorse naturali di cui oggi si appropriano le multinazionali occidentali. Implica, quindi, un drastico ridimensionamento del flusso di ricchezze che l’Europa oggi estrae da quelle nazioni e la conseguente riduzione della già magra quota di bottino da redistribuire alle classi popolari per tenerle buone.
Il secondo articolo è quello di Giuseppe De Rita (sulla stessa pagina del Corriere). Il sociologo bacchetta chi guarda con invidia alla vitalità della piazza francese, paragonando l’energia dei gilet gialli alla inerzia delle masse nostrane. Il rancore contro le nostre élite, scrive De Rita, ha già prodotto l’ondata populista che ha regalato il potere a M5S e Lega, manca solo che quel rancore — rinfocolato dal “tradimento” delle speranze alimentate dal governo gialloverde — si trasformi in rabbia e paura, spingendo le nostre moltitudini a imitare gli spiriti neo giacobini d’Oltralpe. Come metabolizzare il rancore e prevenire scoppi di paura e rabbia? Concentrandosi, scrive De Rita, “sugli specifici episodi di disagio richiamati all’inizio” (l’articolo cita in merito No Tav, periferie urbane e altre ragioni di malcontento sociale e territoriale) e governandoli “con adeguata professionalità, serietà, continuità”.
Il tutto suona come una conferma da manuale delle tesi di Laclau sulle radici della sfida populista: finché le élite sono in grado di dare una risposta differenziale ai cahiers de doléances popolari, affrontando una rivendicazione alla volta, il sistema regge, ma quando non ce la fanno più le varie rivendicazioni (anche assai diverse o in contrasto fra loro) si sommano, dando vita a una catena di equivalenze che può saldare in popolo le moltitudini indifferenziate, e che, se incontra una guida e un progetto politici, può evolvere in una poderosa minaccia alla sopravvivenza stessa del sistema.
In conclusione: messi alla strette, gli strati sociali che compongono il blocco di potere e le caste politiche e intellettuali che le rappresentano, da un lato, sfoderano tutta la loro capacità di esercitare egemonia sul piano culturale, sfruttando ogni occasione per condurre campagne propagandistiche (vedi i due esempi sopra citati), dall’altro lato, le loro migliori intelligenze producono analisi e discorsi che si avvicinano sempre più alla nuda realtà del conflitto sociale, svelando qual è la vera posta in gioco dello scontro in atto.
* Fonte: Micromega
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