[ 8 novembre 2017 ]
"Everything You Know About Neoliberalism Is Wrong", tutto ciò che sapete sul neoliberismo è sbagliato. Qual'è il fulcro del ragionamento di Thomas Fazi e William Mitchell? E' che le evidenze empiriche smentiscono la vulgata neoliberista secondo cui, oramai, gli Stati nazionali conterebbero poco o nulla, e che sarebbero i mercati, motu proprio, a conformare l'ordine di cose esistenti. Tesi falsa, secondo gli autori, visto che sarebbero invece proprio gli Stati, con le loro élite politiche, a guidare ed a indirizzare i processi di globalizzazione liberista — qui sta, aggiungiamo noi, la caratteristica peculiare dell'ordoliberismo di matrice tedesca. Le sinistre, a loro volta supponendo come ineluttabile (e auspicabile) il deperimento delle sovranità nazionali sarebbero cadute con tutti e due i piedi nella trappola ideologica neoliberista. Gli autori concludono quindi che la riconquista delle sovranità nazionali e statuali non è solo preferibile, è nell'ordine delle cose, se davvero si vuole uscire dal marasma liberista ed immaginare un'altra società, democratica e popolare.
"Everything You Know About Neoliberalism Is Wrong", tutto ciò che sapete sul neoliberismo è sbagliato. Qual'è il fulcro del ragionamento di Thomas Fazi e William Mitchell? E' che le evidenze empiriche smentiscono la vulgata neoliberista secondo cui, oramai, gli Stati nazionali conterebbero poco o nulla, e che sarebbero i mercati, motu proprio, a conformare l'ordine di cose esistenti. Tesi falsa, secondo gli autori, visto che sarebbero invece proprio gli Stati, con le loro élite politiche, a guidare ed a indirizzare i processi di globalizzazione liberista — qui sta, aggiungiamo noi, la caratteristica peculiare dell'ordoliberismo di matrice tedesca. Le sinistre, a loro volta supponendo come ineluttabile (e auspicabile) il deperimento delle sovranità nazionali sarebbero cadute con tutti e due i piedi nella trappola ideologica neoliberista. Gli autori concludono quindi che la riconquista delle sovranità nazionali e statuali non è solo preferibile, è nell'ordine delle cose, se davvero si vuole uscire dal marasma liberista ed immaginare un'altra società, democratica e popolare.
Questo articolo è la recensione del libro Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World, che ci auguriamo venga presto pubblicato anche in Italia.
Diciamolo: nell’economia internazionale odierna, sempre più complessa e interdipendente, la sovranità nazionale è diventata irrilevante. La crescente globalizzazione economica ha reso i singoli Stati sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato. L’internazionalizzazione della finanza e la sempre maggiore importanza delle multinazionali hanno eroso la capacità dei singoli stati di perseguire autonomamente delle proprie politiche sociali ed economiche —in particolare quelle di tipo progressista— e di assicurare la prosperità ai propri popoli. Pertanto, la nostra unica speranza di conseguire qualsiasi cambiamento significativo è che i paesi “mettano insieme” le loro sovranità e le trasferiscano ad istituzioni sovranazionali (come l’Unione europea) che siano abbastanza grandi e potenti da far ascoltare la loro voce,
riconquistando così a livello sovranazionale la sovranità persa a livello nazionale. In altre parole, per preservare la loro sovranità “reale”, gli stati devono limitare la loro sovranità formale. Se questi argomenti vi suonano familiari (e persuasivi), è perché li abbiamo ascoltati per decenni. I progressisti spesso sottolineano come il neoliberalismo abbia comportato (e comporti) una “riduzione”, uno “svuotamento” o un “esaurimento” dello stato, concetto che a sua volta ha alimentato l’idea che oggi lo stato sia “sopraffatto” dal mercato. Questo è comprensibile, considerando che la filosofia politica ed economica di ideologi di avanguardia come Margaret Thatcher e Ronald Reagan ha sottolineato la riduzione dell’intervento pubblico, il libero mercato e la libertà d’impresa. Questo è riassunto bene dalla famosa frase di Reagan: “Il governo non è la soluzione al nostro problema; il governo è il problema“.
Questo, però, non rappresenta la realtà degli ultimi decenni. Un rapido sguardo al tasso di spesa pubblica nei paesi OCSE, ad esempio, dimostra che la riduzione della dimensione dello Stato in percentuale al PIL è stata scarsa o nulla; caso mai, c’è stata una tendenza all’aumento (l’unica vera eccezione è l’Europa post-2008). Anche i presunti governi neoliberali —come quelli di Thatcher e Reagan— non hanno ridotto la loro spesa pubblica e anzi sono stati associati a disavanzi relativamente elevati. Come osservato da Miguel Centeno e Joseph Cohen, «i dati disponibili suggeriscono che le politiche e i cambiamenti macroeconomici realizzati nel quadro del regime politico neoliberale siano più complessi di quanto spesso si supponga». Innanzitutto, il punto fondamentale è che i principali paesi capitalisti non sono stati caratterizzati da una riduzione dello Stato. Nei fatti è vero il contrario. Anche se il neoliberalismo come ideologia deriva dal desiderio di ridurre il ruolo dello Stato, il neoliberalismo come realtà politico-economica ha prodotto apparati statali sempre più potenti, interventisti e sempre più vasti —addirittura autoritari.
L’attuazione del neoliberalismo ha comportato un ampio e permanente intervento statale, tra cui: la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali, la privatizzazione delle risorse e dei servizi sociali, la deregolamentazione degli affari e dei mercati finanziari in particolare, la riduzione dei diritti dei lavoratori (in primo luogo, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale, l’abbassamento delle imposte sulla ricchezza e sul capitale, a scapito delle classi medie e dei lavoratori, l’abbandono dei programmi sociali, e così via.
riconquistando così a livello sovranazionale la sovranità persa a livello nazionale. In altre parole, per preservare la loro sovranità “reale”, gli stati devono limitare la loro sovranità formale. Se questi argomenti vi suonano familiari (e persuasivi), è perché li abbiamo ascoltati per decenni. I progressisti spesso sottolineano come il neoliberalismo abbia comportato (e comporti) una “riduzione”, uno “svuotamento” o un “esaurimento” dello stato, concetto che a sua volta ha alimentato l’idea che oggi lo stato sia “sopraffatto” dal mercato. Questo è comprensibile, considerando che la filosofia politica ed economica di ideologi di avanguardia come Margaret Thatcher e Ronald Reagan ha sottolineato la riduzione dell’intervento pubblico, il libero mercato e la libertà d’impresa. Questo è riassunto bene dalla famosa frase di Reagan: “Il governo non è la soluzione al nostro problema; il governo è il problema“.
Questo, però, non rappresenta la realtà degli ultimi decenni. Un rapido sguardo al tasso di spesa pubblica nei paesi OCSE, ad esempio, dimostra che la riduzione della dimensione dello Stato in percentuale al PIL è stata scarsa o nulla; caso mai, c’è stata una tendenza all’aumento (l’unica vera eccezione è l’Europa post-2008). Anche i presunti governi neoliberali —come quelli di Thatcher e Reagan— non hanno ridotto la loro spesa pubblica e anzi sono stati associati a disavanzi relativamente elevati. Come osservato da Miguel Centeno e Joseph Cohen, «i dati disponibili suggeriscono che le politiche e i cambiamenti macroeconomici realizzati nel quadro del regime politico neoliberale siano più complessi di quanto spesso si supponga». Innanzitutto, il punto fondamentale è che i principali paesi capitalisti non sono stati caratterizzati da una riduzione dello Stato. Nei fatti è vero il contrario. Anche se il neoliberalismo come ideologia deriva dal desiderio di ridurre il ruolo dello Stato, il neoliberalismo come realtà politico-economica ha prodotto apparati statali sempre più potenti, interventisti e sempre più vasti —addirittura autoritari.
L’attuazione del neoliberalismo ha comportato un ampio e permanente intervento statale, tra cui: la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali, la privatizzazione delle risorse e dei servizi sociali, la deregolamentazione degli affari e dei mercati finanziari in particolare, la riduzione dei diritti dei lavoratori (in primo luogo, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale, l’abbassamento delle imposte sulla ricchezza e sul capitale, a scapito delle classi medie e dei lavoratori, l’abbandono dei programmi sociali, e così via.
Queste politiche sono state sistematicamente perseguite in tutto l’Occidente (e imposte ai paesi in via di sviluppo) con una determinazione senza precedenti e con il sostegno di tutte le principali istituzioni internazionali e dei partiti politici. In questo senso,
l’ideologia neoliberale, almeno nella sua veste ufficiale anti-statale, dovrebbe essere considerata poco più che un comodo alibi per quello che è stato ed è sostanzialmente un progetto politico dello stato, diretto a consegnare le leve di comando della politica economica “nelle mani del capitale e soprattutto degli interessi finanziari“, scrive Stephen Gill.
Thomas Fazi |
Il capitale oggi resta dipendente dallo stato come lo era nel “Keynesismo” —per la repressione delle classi lavoratrici, il salvataggio delle grandi imprese che altrimenti sarebbero fallite, aprire i mercati esteri, ecc. Nei mesi e negli anni successivi al crash finanziario del 2007-2009, la continuità della dipendenza dallo Stato da parte del capitale —e del capitalismo— nell’epoca del neoliberalismo è diventata evidente, dato che i governi degli Stati Uniti e dell’Europa, e altrove, hanno salvato le rispettive istituzioni finanziarie a colpi di trilioni di euro/dollari. In Europa, a seguito dello scoppio della cosiddetta “crisi dell’euro” nel 2010, tutto questo si è accompagnato ad un attacco su più fronti al modello sociale ed economico europeo del dopoguerra, finalizzato alla ristrutturazione e alla riorganizzazione delle società e delle economie europee nella direzione più favorevole al capitale.
Tuttavia, la nozione (sbagliata) che il neoliberalismo comporti una riduzione dello Stato continua a rimanere nella retorica della sinistra. Concetto ulteriormente confermato dall’idea che lo stato sia stato reso impotente dalle forze della globalizzazione. L’opinione più diffusa ritiene che la globalizzazione e l’internazionalizzazione della finanza abbiano posto fine all’era degli Stati nazionali e alla loro capacità di perseguire politiche non conformi ai diktat del capitale globale.
Tuttavia, la nozione (sbagliata) che il neoliberalismo comporti una riduzione dello Stato continua a rimanere nella retorica della sinistra. Concetto ulteriormente confermato dall’idea che lo stato sia stato reso impotente dalle forze della globalizzazione. L’opinione più diffusa ritiene che la globalizzazione e l’internazionalizzazione della finanza abbiano posto fine all’era degli Stati nazionali e alla loro capacità di perseguire politiche non conformi ai diktat del capitale globale.
Ma l’affermazione che la sovranità nazionale sia realmente giunta alla fine dei suoi giorni è confermata dai fatti? L’affermazione che la fase attuale del capitalismo mini alle fondamenta la possibilità di sopravvivenza dello Stato nazione spesso si riferisce al famoso trilemma dell’economista di Harvard Dani Rodrik. Alcuni anni fa, Rodrik ha descritto un suo teorema, noto come il “teorema dell’impossibilità”, che afferma che «la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione economica globale sono reciprocamente incompatibili: possiamo combinare due a scelta delle tre, ma non avere tutte e tre contemporaneamente nella loro pienezza» : in parole semplici, poiché gli Stati nazione impongono costi di transazione, se si vuole una vera integrazione economica internazionale, bisogna essere pronti a rinunciare alla sovranità nazionale (creando un sistema di federalismo regionale/globale, per far coincidere l’ambito della politica democratica con l’ambito dei mercati globali).
Nel corso degli anni, le forze politiche trasversali all’intero spettro elettorale hanno abilmente utilizzato il trilemma di Rodrik per presentare le politiche neoliberali —che implicano sia una riduzione della democrazia partecipativa che della sovranità nazionale— come “il prezzo inevitabile da pagare per la globalizzazione“. Anche coloro che a sinistra pretendono di opporsi al neoliberalismo spesso invocano il teorema dell’impossibilità per giustificare la tesi che lo stato nazionale sia “finito”. Ma questo non è ciò che Rodrik intendeva. Contrariamente all’opinione comune, egli riconosce che l’integrazione economica internazionale è ben lungi dall’essere “reale”; infatti, essa rimane
“notevolmente limitata”. Anche nel nostro presunto mondo globalizzato, nonostante la fioritura delle imprese e delle catene di approvvigionamento globali, esiste ancora una significativa incertezza del tasso di cambio; ci sono ancora grandi differenze culturali e linguistiche che escludono la piena mobilità delle risorse attraverso le frontiere nazionali, come dimostra il fatto che i paesi industriali avanzati presentano in genere una forte “preferenza nazionale” (home bias); vi è ancora una forte correlazione tra i tassi di investimento nazionali e i tassi di risparmio nazionali; vi sono ancora gravi restrizioni alla mobilità internazionale del lavoro; e i flussi di capitali tra popoli ricchi e poveri risultano notevolmente inferiori rispetto a quelli previsti dai modelli teorici. Gli stessi argomenti possono essere portati avanti anche oggi (quasi 20 anni dopo la pubblicazione dell’articolo di Rodrik). Pertanto, il trilemma è vero da un punto di vista teorico, ma ha poca attinenza con la realtà, a parte funzionare da strumento politico o da profezia autoavverante.
Più in generale, come spieghiamo nel nostro nuovo libro “Riconquistare lo Stato: una visione progressista della sovranità nazionale per un mondo post-neoliberale“, la globalizzazione, anche nella sua forma neoliberale, non è stata (non è) il risultato di qualche dinamica intrinseca al capitale o all’innovazione tecnologica che inevitabilmente comporta una riduzione del potere statale, come spesso viene affermato. Al contrario, è stato (è) un processo che è stato (è) attivamente creato e promosso dagli stati. Tutti gli elementi che noi associamo alla globalizzazione neoliberale —delocalizzazione, deindustrializzazione, libera circolazione delle merci e del capitale, ecc.— sono stati (sono), in molti casi, il risultato di scelte fatte dai governi. Più in generale, gli stati continuano a svolgere un ruolo cruciale nella promozione, nell’attuazione e nel sostegno di un quadro internazionale neoliberale, nonché nello stabilire le condizioni interne che consentano al meglio l’accumulazione globale. Allo stesso tempo, non si può negare che per molti aspetti —la capacità di promuovere le industrie locali nei confronti di quelle straniere, gestire il disavanzo di bilancio, gestire l’emissione di moneta, imporre dazi e tassazione, regolamentare l’importazione e l’esportazione di beni e di capitali, ecc.— la sovranità economica, comprese le economie capitalistiche avanzate, oggi è più sottoposta a vincoli che nel passato.
In larga misura, tuttavia, questo è il risultato di una limitazione deliberata e consapevole dei poteri sovrani statali da parte delle élite nazionali, attraverso un processo conosciuto come depoliticizzazione. Le varie politiche adottate dai governi occidentali a tal fine includono: (i) ridurre il potere dei parlamenti rispetto all’esecutivo e rendere i rappresentanti sempre meno rappresentativi (ad esempio passando dai sistemi parlamentari proporzionali a quelli maggioritari); ii) rendere le banche centrali formalmente indipendenti dai governi; (iii) adottare “l’obiettivo dell’inflazione” —un approccio che sottolinea la bassa inflazione come obiettivo primario della politica monetaria, escludendo altri obiettivi politici, come la piena occupazione— come obiettivo dominante delle politiche della banca centrale; (iv) adottare politiche economiche
vincolate a delle regole —sulla spesa pubblica, sul debito in percentuale del PIL, sulla concorrenza, ecc, limitando così quello che i politici possono fare per rispettare il mandato dei loro elettori; v) subordinare i settori della spesa pubblica al controllo di tesoreria; vi) ri-adozione di sistemi di cambio fissi, come l’euro, che limitano severamente la capacità dei governi di esercitare un controllo sulla politica economica; (vii) limitare la capacità dei governi di porre delle regole nell’interesse pubblico, mediante i cosiddetti meccanismi di ISDS (mecanismi di risoluzione delle controversie tra investitori e stati), oggi inclusi nella maggior parte dei trattati di investimento bilaterali (di cui oltre 4.000 operativi) e accordi commerciali regionali (come il FTAA e il TPP); e, soprattutto, (viii) cedere le prerogative nazionali alle istituzioni sovranazionali e alle burocrazie sovra-statali come l’UE.
La ragione per cui i governi hanno scelto di “legarsi le mani” sono ovvie: come dimostra il caso europeo, la creazione di “vincoli esterni” autoimposti ha permesso ai politici nazionali di ridurre i costi politici della transizione neoliberale —che chiaramente comporta l’attuazione di politiche impopolari— “gettando le colpe” sulle regole istituzionalizzate e le istituzioni “indipendenti” o internazionali, che a loro volta sono state presentate come risultato inevitabile della nuova, dura, realtà della globalizzazione, preservando così le politiche macroeconomiche dalla contestazione popolare. La guerra alla sovranità è stata in sostanza una guerra alla democrazia. Questo processo è stato portato alle sue conclusioni più estreme nell’Europa occidentale, dove il (1992) ha incorporato il neoliberalismo nel tessuto sociale dell’UE, effettivamente mettendo fuori legge le politiche “keynesiane”, che erano state dominanti negli ultimi decenni.
Data la guerra del neoliberalismo contro la sovranità e gli effetti nefasti della depoliticizzazione, non dovrebbe sorprendere che “la sovranità sia diventata il punto fondamentale della politica contemporanea“, come nota Paolo Gerbaudo. Allo stesso modo, è naturale che la rivolta contro il neoliberalismo assuma innanzitutto la forma di richieste di ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali —vale a dire, di un controllo più democratico sulla politica (e soprattutto sui flussi globali distruttivi scatenati dal neoliberalismo), che necessariamente può essere esercitato solo a livello nazionale, in assenza di efficaci meccanismi sovranazionali di rappresentanza. L’UE non è ovviamente un’eccezione: in realtà, essa è (correttamente) considerata da molti come l’incarnazione del dominio tecnocratico e dell’allontanamento elitario dalle masse, come dimostrato dal voto per la Brexit e dal diffuso euroscetticismo che pervade il continente.
Nel corso degli anni, le forze politiche trasversali all’intero spettro elettorale hanno abilmente utilizzato il trilemma di Rodrik per presentare le politiche neoliberali —che implicano sia una riduzione della democrazia partecipativa che della sovranità nazionale— come “il prezzo inevitabile da pagare per la globalizzazione“. Anche coloro che a sinistra pretendono di opporsi al neoliberalismo spesso invocano il teorema dell’impossibilità per giustificare la tesi che lo stato nazionale sia “finito”. Ma questo non è ciò che Rodrik intendeva. Contrariamente all’opinione comune, egli riconosce che l’integrazione economica internazionale è ben lungi dall’essere “reale”; infatti, essa rimane
William Mitchell |
Più in generale, come spieghiamo nel nostro nuovo libro “Riconquistare lo Stato: una visione progressista della sovranità nazionale per un mondo post-neoliberale“, la globalizzazione, anche nella sua forma neoliberale, non è stata (non è) il risultato di qualche dinamica intrinseca al capitale o all’innovazione tecnologica che inevitabilmente comporta una riduzione del potere statale, come spesso viene affermato. Al contrario, è stato (è) un processo che è stato (è) attivamente creato e promosso dagli stati. Tutti gli elementi che noi associamo alla globalizzazione neoliberale —delocalizzazione, deindustrializzazione, libera circolazione delle merci e del capitale, ecc.— sono stati (sono), in molti casi, il risultato di scelte fatte dai governi. Più in generale, gli stati continuano a svolgere un ruolo cruciale nella promozione, nell’attuazione e nel sostegno di un quadro internazionale neoliberale, nonché nello stabilire le condizioni interne che consentano al meglio l’accumulazione globale. Allo stesso tempo, non si può negare che per molti aspetti —la capacità di promuovere le industrie locali nei confronti di quelle straniere, gestire il disavanzo di bilancio, gestire l’emissione di moneta, imporre dazi e tassazione, regolamentare l’importazione e l’esportazione di beni e di capitali, ecc.— la sovranità economica, comprese le economie capitalistiche avanzate, oggi è più sottoposta a vincoli che nel passato.
In larga misura, tuttavia, questo è il risultato di una limitazione deliberata e consapevole dei poteri sovrani statali da parte delle élite nazionali, attraverso un processo conosciuto come depoliticizzazione. Le varie politiche adottate dai governi occidentali a tal fine includono: (i) ridurre il potere dei parlamenti rispetto all’esecutivo e rendere i rappresentanti sempre meno rappresentativi (ad esempio passando dai sistemi parlamentari proporzionali a quelli maggioritari); ii) rendere le banche centrali formalmente indipendenti dai governi; (iii) adottare “l’obiettivo dell’inflazione” —un approccio che sottolinea la bassa inflazione come obiettivo primario della politica monetaria, escludendo altri obiettivi politici, come la piena occupazione— come obiettivo dominante delle politiche della banca centrale; (iv) adottare politiche economiche
Dani Rodrik |
La ragione per cui i governi hanno scelto di “legarsi le mani” sono ovvie: come dimostra il caso europeo, la creazione di “vincoli esterni” autoimposti ha permesso ai politici nazionali di ridurre i costi politici della transizione neoliberale —che chiaramente comporta l’attuazione di politiche impopolari— “gettando le colpe” sulle regole istituzionalizzate e le istituzioni “indipendenti” o internazionali, che a loro volta sono state presentate come risultato inevitabile della nuova, dura, realtà della globalizzazione, preservando così le politiche macroeconomiche dalla contestazione popolare. La guerra alla sovranità è stata in sostanza una guerra alla democrazia. Questo processo è stato portato alle sue conclusioni più estreme nell’Europa occidentale, dove il (1992) ha incorporato il neoliberalismo nel tessuto sociale dell’UE, effettivamente mettendo fuori legge le politiche “keynesiane”, che erano state dominanti negli ultimi decenni.
Data la guerra del neoliberalismo contro la sovranità e gli effetti nefasti della depoliticizzazione, non dovrebbe sorprendere che “la sovranità sia diventata il punto fondamentale della politica contemporanea“, come nota Paolo Gerbaudo. Allo stesso modo, è naturale che la rivolta contro il neoliberalismo assuma innanzitutto la forma di richieste di ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali —vale a dire, di un controllo più democratico sulla politica (e soprattutto sui flussi globali distruttivi scatenati dal neoliberalismo), che necessariamente può essere esercitato solo a livello nazionale, in assenza di efficaci meccanismi sovranazionali di rappresentanza. L’UE non è ovviamente un’eccezione: in realtà, essa è (correttamente) considerata da molti come l’incarnazione del dominio tecnocratico e dell’allontanamento elitario dalle masse, come dimostrato dal voto per la Brexit e dal diffuso euroscetticismo che pervade il continente.
In questo senso, come sosteniamo nel libro, la gente di sinistra non dovrebbe vedere la Brexit —e più in generale l’attuale crisi dell’Unione europea e dell’unione monetaria— come un motivo di disperazione, ma piuttosto come un’occasione unica per abbracciare (di nuovo) una visione progressista ed emancipatoria della sovranità nazionale, per respingere la camicia di forza neoliberale dell’UE ed attuare una vera e propria piattaforma socialdemocratica (che sarebbe impossibile all’interno dell’UE, per non parlare all’interno della zona euro). Per far ciò, tuttavia, bisogna accettare il fatto che lo Stato sovrano, lungi dall’essere impotente, ha ancora le risorse per un controllo democratico dell’economia e delle finanze di una nazione —che la lotta per la sovranità nazionale è, in definitiva, una lotta per la democrazia. Questo non deve avvenire a scapito della cooperazione europea. Al contrario, consentire ai governi di massimizzare il benessere dei loro cittadini, potrebbe e dovrebbe costituire la base di un rinnovato progetto europeo, basato sulla cooperazione multilaterale tra Stati sovrani.
* Fonte: Social Europe
** Traduzione: Voci dall'estero
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