[ 27 novembre 2017 ]
«Che cosa economizza l’economista? “’Questo amore, questo amore’, disse la Duchessa, “che fa muovere il mondo’. ‘Qualcuno ha detto’ mormora Alice, ‘che questo è fatto da coloro che badano ai propri affari’. ‘Ah bene’, replicò la Duchessa, ‘significa più o meno la stessa cosa’” ..se noi economisti badiamo ai nostri affari , e li badiamo bene, noi possiamo, io credo, contribuire vigorosamente ad economizzare, vale a dire alla piena ma parsimoniosa utilizzazione, di quella risorsa scarsa Amore – che noi sappiamo, proprio altrettanto bene di chiunque altro, essere la cosa più preziosa al mondo> (corsivo nell’originale)».
Sommerso dalla didattica e dal chiudere un po’ di lavori, non ho potuto
seguire con grande attenzione quanto pubblicato in queste settimane in
occasione del centenario della rivoluzione sovietica. Del resto quel poco che
ho letto (in italiano o in inglese) non mi è stato di grande ispirazione. Manca
una chiave. Questa chiave io non ce l’ho.
So due o tre cose che, come al
solito, ho imparato dai maestri. Un solo lavoro che ho letto recentemente
(Foley 2017) mi è stato di qualche stimolo. Ma anch’esso è per gran parte una
intelligente rivisitazione del più importate dibattito economico sul
socialismo, quello che a partire dal famoso articolo del 1908 del noto
marginalista italiano Enrico Barone (1859-1924) discusse la possibilità di una
economia socialista, quanto questa si potesse effettivamente discostare da
quella capitalistica e l’efficienza relativa dei due sistemi. Di questo
dibattito sapemmo da studentelli di economia – quando eravamo ancora allattati
con la Vodka – dal benemerito napoleoncino (Napoleoni 1971). Qualcos’altro ho
imparato dai maestri circa gli effetti perversi che la piena occupazione ha
determinato sulla disciplina e la produttività, sia di qua che di là della
cortina di ferro. Poi non molto altro, ma non ho letto tanto sull’argomento,
per cui è con un po’ di presuntuosità che scrivo. Del resto è un argomento
mostruosamente vasto e il meglio è nemico del bene.
1. Il mercato è buono.
Ai
“compagni” (e “compagne”) non è spesso chiara la problematica del coordinamento
delle attività economiche in società complesse. Come spesso accade in tutto ciò
che odora di sinistra “le leggi economiche possono essere sospese o ignorate”,
come la mette D.Mario Nuti (2017), uno dei maggiori studiosi europei dei sistemi
socialisti. A sinistra domina l’umanitarismo, l’utopia, il tutto è possibile
purché dal cuore umano si lascino uscire le energie migliori. Il cuore umano è
purtroppo assai poco studiato - avete mai sentito nominare un progetto di
ricerca su “Siamo buoni o cattivi? e come possiamo migliorarci?”. Sarebbe
troppo politicamente fastidioso. Nell’incertezza è tuttavia bene essere cauti
sul cuore umano. Anzi, proprio da questa constatazione, muove la difesa che i
liberali fanno del sistema di mercato: “Non è certo dalla benevolenza del
macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal
fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla
loro umanità ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità,
ma dei loro vantaggi”, ci insegna Smith (1776, p. 18). Da punto di vista dei
suoi sostenitori il sistema di mercato ha parecchi vantaggi.
1.2. Il mercato dimostra che lo stato di natura non è necessariamente
quell’homo homini lupus (l’uomo
è lupo per l’altro uomo) di hobbesiana memoria, e non è dunque
necessario l’intervento di uno Stato autoritario che imponga pace ed ordine; lo
stato di natura può rivelarsi, attraverso lo scambio, un mezzo di vantaggio
reciproco e di pacifica convivenza non solo fra individui ma persino fra Stati.[1] In questo senso, evitando che sia lo
Stato a regolare la convivenza umana, se non addirittura a dettarne le scelte
con lo Stato etico, il mercato è a fondamento delle libertà e delle scelte
individuali. La società civile può dunque vivere di vita propria. Allo Stato,
anzi, è assegnato il compito di tutelare il mercato quale fondamento di
libertà.
(b) Ma v’è di più. Secondo i suoi sostenitori, il mercato trasforma
pulsioni negative come l’egoismo e il perseguimento dei propri vantaggi in un
beneficio collettivo, e per questo molti intellettuali salutarono con favore la
nuova forma di mercato (Hirschman 1979).
(c) Il mercato non solo veicola le energie negative a scopi collettivi, ma,
come brillantemente argomentò l’economista di Cambridge Dennis Holme Robertson
in un famoso saggio del 1956 dal titolo significativo di “Che cosa economizza
l’economista?”, il mercato economizza in bontà, dove per bontà si intende
moralità e spirito civico (Hirschman 1985, p. 18).[2]
Risolto il problema economico senza dispendio delle energie più nobili,
queste si possono dedicare ad opere più elevate (inclusa la generosità verso i
più sfortunati). Hirschman (ibid) criticò sia l’idea che “amore, benevolenza e
spirito civico” siano necessariamente risorse scarse, che quella che siano
risorse infinite, giudicando che il capitalismo fosse (troppo) basato sull’idea
dell’altruismo come bene scarso, e il socialismo su quella dell’illimitato
altruismo umano. Ma basterebbe una pur cospicua disponibilità umana a far
funzionare economie complesse?
Vi faccio l’esempio di un benemerito centro sociale che mi trovo a
frequentare, orientato a sinistra e tutto basato sul volontariato. Le cene che
precedono il cineforum sono a prezzo molto popolare. Tuttavia la
predisposizione dei pasti e le pulizie spesso ricadono su pochi. A un certo
punto è comparso l’avvertimento “la cena prima del cineforum non è assicurata”
(vale a dire, o c’è condivisione della preparazione o la cena non è
assicurata). Risultato è che “non è dalla benevolenza del centro sociale che ci
aspettiamo il nostro pranzo”. L’altro problema è quello che anche laddove ci
sia la buona intenzione di partecipare (che in fondo non manca), spesso chi si
candida non sa dove mettere le mani, c’è un problema informativo, e trasmettere
l’informazione costa (chi fa da sé...).[3]
2. Mercato e gerarchie.
I
vantaggi del mercato non si fermano infatti al “risparmio di altruismo”. Sistemi complessi in cui vige una raffinata divisione del lavoro richiedono
coordinamento. Questo è svolto da un lato dalla mano invisibile smithiana e
dall’altro dalle “gerarchie” (Coase 1937). L’impresa è una forma “gerarchica”
di coordinare le informazioni, la mano invisibile agisce attraverso il sistema
dei prezzi. Nel capitalismo il mercato seleziona la suddivisione migliore fra
le due tecniche di coordinamento. Il socialismo ha optato, più frequentemente,
per l’organizzazione gerarchica nella forma di una economia di comando
(pianificata), ma in verità ambedue le forme sono imbarazzanti per i
socialisti. La gerarchia perché oltre a essersi rivelata inefficiente in
pratica, viola l’obiettivo democratico e partecipativo. Sul sistema dei prezzi
si basano le forme di socialismo autogestito finendo il più spesso nel peggiore
dei mondi possibile: si ereditano sia i difetti del sistema dei prezzi che
quelli della gerarchia, che non può non riemergere (magari in forme
peggiorative) nelle aziende autogestite (Foley, II, pp. 6-7).
Il sistema dei prezzi, in breve, funziona sul principio che se il prezzo di
un bene non copre i costi di produzione, ciò rivela che se ne è prodotto troppo
rispetto alla domanda; se ne dovrà dunque produrre di meno sino a quando il
prezzo eguaglia i costi di produzione (che è pari al “prezzo naturale” come si
sarebbe espresso Smith). Se invece esso è venduto a un prezzo superiore ai suoi
costi, allora si vede che se ne è prodotto troppo poco rispetto alla domanda, e
se ne dovrà produrre di più. I prezzi di mercato dunque, se troppo alti o
troppo bassi rispetto ai costi di produzione (ai “prezzi naturali”) segnalano
quanto
produrre di ciascun bene date le preferenze espresse dalla domanda. Per
Smith i prezzi naturali svolgono dunque un ruolo essenziale nel coordinare le
decisioni di produzione in una economia in cui viga una accentuata divisione
del lavoro; essi costituiscono la famosa “mano invisibile”. La mano invisibile
è un modo di economizzare in informazione. Marx parla dei prezzi “naturali”
come la stella polare dei capitalisti.
Marx è anche critico, tuttavia, di un sistema sociale il cui tessuto
connettivo, il rapporto fra gli individui, è mediato dal rapporto di scambio,
dal rapporto fra cose (le merci). In questo egli vide la necessità di un
superamento del sistema dei prezzi. Più concretamente egli vide la necessità di
un superamento di un società dualistica in cui una classe controlla i mezzi di
produzione e l’altra non ha che i propri servizi lavorativi da offrire. Il
controllo sociale dei mezzi di produzione è per Marx il primo passaggio verso
una società diversa (Marx 1875). Il controllo sociale dei mezzi di produzione
implica la pianificazione socialista (e su quali principi essa possa funzionare
discuteremo fra poco). Su quali principi debba funzionare la successiva società finalmente
liberata Marx (ibid, p. 962) non va oltre il famoso passo “a ciascuno secondo
...”:
In una fase piú elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!
Il che però non sembra indicare di per sé un anarchismo delle relazioni, in
quanto persino nel comunismo vi sono doveri (ognuno secondo le sue capacità) e
diritti (a ognuno secondo i suoi bisogni). Engels (1972) sembra andare anche
oltre. Così scrive a proposito di Bakunin e dell’idea “bakuniana di
società futura”: “In questa società, prima di tutto, non esiste nessuna autorità, perché autorità = Stato = male
assoluto. (Come faranno costoro a far marciare una fabbrica e le ferrovie, a
comandare un bastimento, senza una volontà che decida in ultima istanza, senza
una direzione unitaria: questo, naturalmente, non lo dicono). Anche l’autorità
della maggioranza sulla minoranza cessa di esistere. Ogni singolo e ogni
comunità sono autonomi; Bakunin però dimentica ancora una volta di dirci come
sia possibile una comunità anche solo di due uomini senza che ognuno di essi
rinunci a qualcosa della sua autonomia” (corsivo di Engels). Dunque nonostante
la “scomparsa[della] subordinazione asservitrice degli individui alla divisione
del lavoro” (Marx), come “faranno costoro a far marciare una fabbrica e le
ferrovie, a comandare un bastimento, senza una volontà che decida in ultima
istanza, senza una direzione unitaria”? (Engels). Insomma i nostri due amici ci
lasciano un po’ in mezzo al guado. Può darsi che Engels ancora si riferisca
alla fase della “dittatura del proletariato”. Ma come faranno i nostri due
amici dopo la dittatura “a far marciare” questo e quello “senza una volontà che
decida in ultima istanza, senza una direzione unitaria”?
3. Non importa se il gatto sia bianco
o sia nero
In questa situazione di incertezza fu gioco facile per Enrico Barone (1908)
argomentare che, comunque sia, un’economia socialista non potrà che imitare i
medesimi meccanismi di allocazione delle risorse del sistema di mercato, cambia
solo il management, per così dire. Sicché alla mano invisibile si sostituisce
quella visibile della pianificazione, ma in fondo il problema del pianificatore
rimarrà quello di imitare al meglio i meccanismi di mercato. Barone ha
chiaramente in mente l’equilibrio economico generale marginalista, un sistema
complesso di equazioni di domanda e offerta di merci e di “fattori produttivi”
che determina l’output e la sua distribuzione sulla base delle preferenze dei
consumatori, delle dotazioni originarie di “fattori” (come lavoro, capitale e
terra) e delle conoscenze tecniche. Ebbene, un pianificatore efficiente non
potrà far altro che cercare di stimare quelle equazioni e allocare i “fattori”
scarsi fra i molteplici possibili impieghi cercando di soddisfare così le
preferenze dei soggetti.[4] Foley (2017/I, p. 12) ci ricorda
come in effetti la storia del socialismo, a partire dalle prime scelte di
Lenin, siano state un ping pong fra rigida pianificazione ed elementi di
mercato.[5] Ma gioco facile ebbero anche i
successivi economisti marginalisti come Ludwig Von Mises a denunciare che i
calcoli del pianificatore avrebbero richiesto milioni di dati ed equazioni, una
sfida insormontabile per chiunque. Più tardi Oskar Lange (un marginalista
socialista) sostenne che i computer avrebbero agevolato i calcoli. Si può però
facilmente ribattere che i computer hanno bisogno di essere alimentati con le
informazioni, e queste sono milioni - e inoltre non statiche, cioè in continua
evoluzione a causa, per esempio, del progresso tecnico. Ecco allora il colpo
finale di Friedrich Hayek: il vantaggio della mano invisibile risiede proprio
nella capacità dei prezzi di veicolare l’informazione dispersa, ma non è solo
questo. Il mercato offre anche gli incentivi ai diversi livelli (dal manager
all’artigiano al semplice esecutore) perché ciascuno abbia l’interesse a
condividere le informazioni (e a impegnarsi a sfruttarle al meglio). Siamo
tornati ad Adam Smith. Se si legge una storia dell’economia sovietica, che essa
abbia funzionato incontrando mille difficoltà e problemi appare scontato: il
miracolo appare che abbia, nonostante tutto, in un qualche modo funzionato![6]
Se Atene piange...
Molta di questa discussione si basa su un
equivoco assai poco notato. La mano invisibile dei classici non implica la
piena occupazione o la massimizzazione di un qualche benessere sociale; quella
dei marginalisti sì. Per questo i classici sono compatibili con la “mano
visibile” dell’intervento pubblico keynesiano. Naturalmente ci muoviamo ancora
nell’ambito dell’economia di mercato. In sintesi: si può voler sostenere che il
sistema dei prezzi abbia dei vantaggi informativi; tuttavia da qui ad
argomentare che il mercato sia il panglossiano migliore dei mondi possibili ne
passa assai.
Come argomenta Foley (ibid, pp. 16-17), sebbene da un lato Marx abbia
sfruttato le teorie di Smith e Ricardo per dimostrare le contraddizioni del
capitalismo, i due economisti borghesi capirono bene i vantaggi del sistema dei
prezzi come veicolo informativo, ma in questo Marx non li seguì. Certo, Marx
ritiene il sistema di mercato come transeunte. Il dibattito classico su
pianificazioneversus mercato non
si poté che svolgere, tuttavia, su un terreno concreto, quello tecnico dei vantaggi dell’uno o
dell’altro sul piano della produzione e distribuzione di merci, senza
coinvolgere un mutamento dei rapporti sociali di produzione (nella fase della
pianificazione/dittatura del proletariato è la proprietà dei mezzi di
produzione a mutare, non la forma di produzione). Fatto sta che i socialisti
sono in difficoltà sia sui vantaggi relativi della
pianificazione (l’obiettivo intermedio)– pur dando per scontati i
problemi del mercato – che su come prefigurare il superamento dei rapporti
sociali di produzione (l’obiettivo finale).
Sebbene si possa infine concordare con Croce al quale, nella famosa
polemica con Einaudi, dovette sembrare eccessivo che l’edonismo o utilitarismo
delle scelte del consumatore assurgessero al livello dei grandi principi etici
e di libertà, certo è che alla stretta pianificazione socialista, specie
considerate le gravi difficoltà materiali in cui essa si svolse, corrisposero
gravi illibertà. E se le proteste verso l’illibertà possono avere motivazioni
negli interessi privati calpestati dalla rivoluzione, non è malizioso pensare
che privilegi di varia natura si siano diffusi nelle più alte sfere della
nomenklatura. Lo Stato etico può notoriamente giustificare molte ingiustizie.[7]
Il sovrappiù socialista.
Lo Stato sovietico non si trovò solo ad
affrontare le difficoltà della pianificazione, una volta rinunciato al sistema
dei prezzi. Quest’ultimo non avrebbe certo risolto il problema
dell’accelerazione dell’industrializzazione volta a modernizzare il paese a
scopo civile e militare. Il problema, in termini elementari, fu quello di
ottenere una misura sufficiente di sovrappiù di beni di sussistenza agricoli a
buon mercato per sostenere lo sforzo di milioni di lavoratori nell’industria
manifatturiera. Il dilemma fu fra l’incentivare la produzione agricola
indipendente attraverso un sistema di prezzi di mercato, il che però avrebbe
reso i beni agricoli più costosi, ovvero l’estrazione forzata del sovrappiù
agricolo irrigimentando i contadini in fattorie di Stato o cooperative, a
discapito dell’efficienza produttiva.
4. Lavorare con lentezza.[8]
Abbiamo detto che la pianificazione conduce, almeno per come la conosciamo,
a una gerarchizzazione delle scelte produttive che impone che gli ordini
vengano assegnati ed eseguiti top-down.
Anche ammettendo, per amor di ragionamento, che questo modo di gestire
l’economia funzioni a dovere, ci dobbiamo chiedere se, tuttavia, gli ordini
verranno doverosamente eseguiti. Il socialismo sembra infatti soffrire di un
male del tutto analogo a quello del capitalismo: ove viga la piena occupazione
– e nel socialismo questa è assicurata[9] - i lavoratori comuni,
occupati nelle mansioni più noiose o fisicamente spiacevoli lavoreranno il
minimo possibile. Secondo alcuni questo diffuso problema – che nei paesi
capitalistici ritroviamo spesso nel pubblico impiego (con nostra indignazione e
frustrazione) – avrebbe minato alla radice la produttività del
sistema socialista. Il capitalismo ha risolto questo problema in due direzioni:[10] la minaccia della disoccupazione
(appunto assente nel pubblico impiego) e l’incentivo a una ascesa sociale per
sé e per i propri figli (“Keep up with the Joneses”). Un’economia socialista, a
meno di abiurare ab ovo ai
suoi obiettivi, si trova priva di questi “strumenti” di stimolo al lavoro.[11] Gli incentivi morali sono efficaci
su alcuni, non su tutti. Da uno studio condotto al principio degli anni
settanta in una fabbrica francese si evinse che il ritmo naturale di lavoro
era... non lavorare affatto. Misure sono evidentemente possibili; oltre al
miglioramento delle condizioni oggettive di lavoro, le proposte sono
fondamentalmente basate su qualche forma di rotazione delle mansioni, oppure su
compensazioni materiali come una significativa riduzione dell’età pensionabile
per i “lavori usuranti”. Naturalmente obiezioni di vario tipo possono sorgere:
è ragionevole impiegare gli individui più brillanti e socialmente utili in
mansioni semplici? Basteranno queste misure a scoraggiare i comportamenti
opportunistici, oppure serve comunque un grado di controllo e coercizione
(bastone e carota?).
Inoltre, mi sembra che quest’ordine di problemi non riguardi in realtà solo
le mansioni semplici e più spiacevoli, ma anche quelle più di concetto: qui è
anche l’assenza di incentivi materiali o di gratificazioni morali, o un senso
di ingiustizia e frustrazione in catene di comando in cui l’arbitrio e gli
errori la fanno da padroni, a scoraggiare
l’impegno lavorativo. Siamo di nuovo
tornati, sembra, all’uso inefficiente dell’altruismo: come suggerito da
Robertson, il mercato lo risparmia nella sfera economica, sì da lasciarne in
abbondanza in quella privata, per gli affetti e per la compassione per i più
sfortunati. Il socialismo ne richiede molto a tutti, decisamente troppo per i
più. Qualcuno assimilerebbe questo stato alla tragedia dei beni comuni, dove il
bene comune è un’economia condivisa.
Poco studiati a sinistra (se la sinistra studiasse) sono i lavori di Elinor
Ostrom, più ottimisti sulla possibilità della prevalenza di comportamenti
cooperativi nelle popolazioni umane in quanto ricompensati dai vantaggi della
cooperazione:
“With the publication of The
Logic of Collective Action in 1965, Mancur Olson challenged a
cherished foundation of modern democratic thought that groups would tend to
form and take collective action whenever members jointly benefitted. Instead,
Olson (1965, p. 2) offered the provocative assertion that no self-interested
person would contribute to the production of a public good: ‘[U]nless the
number of individuals in a group is quite small, or unless there is coercion or
some other special device to make individuals act in their common interest,
rational, self-interested individuals will not act to achieve their common or
group interests.’ … recent developments in evolutionary theory - including the
study of cultural evolution - have begun to provide genetic and adaptive
underpinnings for the propensity to cooperate based on the development and
growth of social norms. Given the frequency and diversity of collective action
situations in all modern economies, this represents a more optimistic view than
the zero contribution hypothesis. Instead of pure pessimism or pure optimism,
however, the picture requires further work to explain why some contextual
variables enhance cooperation while others discourage it”. (Ostrom 2000,
pp. 137 e 154).
La questione sembra essere che i comportamenti collettivi certamente
esistono, sostenuti da adeguate norme sociali che sanzionano le violazioni, ma
sono frutto di lente e fortunate evoluzioni più accentuate peraltro in
determinate società umane che in altre, mentre il socialismo intende forzare “a
freddo” questi comportamenti su individui e collettività impreparate, e spesso
con condizioni materiali non favorevoli. Questo non implica, naturalmente, che
dall’esperienza non si possa imparare.
5. Sinistra e prospettiva socialista
La somma dei due problemi, uno macro e uno micro per così dire, da un lato
il funzionamento precario della pianificazione (allo stadio delle nostre
conoscenza) dal punto di vista della gestione dei flussi informativi e,
dall’altro, lo scarso incentivo alla partecipazione attiva alla produzione se
non su base volontaristica creano una miscela esplosiva. Se c’è una
inefficienza endemica del sistema macro condita con gerarchizzazione e arbitri e
un regime politico illiberale e soffocante, questo non può che riverberarsi sul
morale e la partecipazione dei lavoratori (a ogni livello) creando frustrazione
e free riding.
La fine del socialismo reale è alla base della tragedia della sinistra, e
questo viene poco percepito. Senza una alternativa socialista da contrapporre
al capitalismo che coniughi benessere e libertà la battaglia per la giustizia è
indebolita. Deve essere questa una rinuncia definitiva? Assolutamente no. In
primo luogo il capitalismo scatenato che abbiamo conosciuto gli ultimi anni ha
accentuato la diseguaglianza e demolito diritti e sicurezze, almeno nei paesi
di più antica industrializzazione. La distruzione ambientale è a uno stadio
molto avanzato. Abbiamo naturalmente conosciuto un capitalismo diverso, quello
degli “anni gloriosi”, ma come ci siamo molte volte detti, anche questo è stato
un risultato della sfida socialista, del timore che questa avesse successo.
Quando quella è fallita, il capitalismo ha riproposto il suo volto ottocentesco,
che risparmierà pure in “altruismo”, ma dispensa a piene mani miseria e
mortificazione. L’idea che le vite non possano essere alla mercé del mercato e
che la sicurezza di uno standard di vita di qualità “dalla culla alla tomba”
sia assicurato è una rivendicazione sacrosanta. Qui e lì si sono manifestati
dei “Polany moment”, di ribellione al mercato, spesso rivolti a destra (come
Polany ci aveva avvertito). A uno stadio più minimale ma cogente, ci si
dovrebbe domandare come potrebbe sopravvivere un Paese che volesse per volontà
popolare distaccarsi dal ciclo capitalistico internazionale (o dall’euro). E
naturalmente le nostre menti migliori dovrebbero esplorare elementi per un
futuro socialista che attenui i problemi sopra illustrati (e i molti altri che
a me sfuggono, il benaltrista è sempre in agguato).
Fa dunque ancor più sconcerto vedere la sinistra italiana impegnata
esclusivamente in un chiacchiericcio elettorale, l’unico che sa perseguire,
l’unico che conosce.
Post scriptum
In alcuni commenti un paio di amici hanno entrambi sottolineato come
l’efficienza non sia necessariamente una meta del socialismo. L’assenza di un
dibattito “onesto” in merito avrebbe in particolare reso i lavoratori poco
consapevoli dell’esistenza d un trade-off fra impegno lavorativo e quantità e
qualità dei beni disponibili. Ma di nuovo, un dibattito “onesto” in che altro
si sarebbe risolto se non in un appello alle coscienze? I miei interlocutori
hanno inoltre segnalato il problema della scarsa innovazione nel socialismo
reale, almeno nei beni di consumo, senza un’efficace trasferimento di
tecnologia fra settori (come dal militare al civile). E questo ancora ci
rimanda all’inefficienza del piano nel trasferire tecnologia, nell’assenza di
incentivi individuali ecc. Non ritengo questi problemi insolubili, per esempio
le imprese e la ricerca pubblica nell’esperienza delle economie miste si sono
rivelate molto efficienti, ma è alla logica del “bastone e carota” che dobbiamo
probabilmente adeguarci, per un bel po’ di tempo ancora, temo. Il meglio è
nemico del bene.
Riferimenti
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Karl Marx (1875), Critica del programma di Gotha, in K. Marx- F. Engels, Le opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 951-75
Claudio Napoleoni (1971), Il pensiero economico del Novecento, Einaudi, Torino (ed. orig 1961, ERI; nuova ed. a cura di Fabio Ranchetti, Einaudi 1990)
Domenico Mario Nuti (2017), The rise and fall of socialism, “Inequalities, Economic Models and the Russian October 1917 Revolution in Historical Perspective”, A DOC-RI Conference, Berlin 23-24 October (Power Point presentation)
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Elinor Ostrom (2000) Collective Action and the Evolution of Social Norms, Journal of Economic Perspectives, Volume 14, Number 3, Pages 13 7-158
Dennis H. Robertson (1954), "What Does the Economist Economize?", reprinted in his Economic Commentaries, London: Staples Press Limited, 1956.
Ernesto Screpanti (2007), Comunismo libertario: Marx Engels e l'economia politica della liberazione, Roma, Manifestolibri, (traduzione inglese, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007)
Adam Smith (1776 [1977) Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Oscar studio Mondadori.
NOTE
[1] Che lo stato di natura coincida col mercato e lo
scambio è negato dalla tradizione di Polany. Un vero comunismo primitivo si ha
tuttavia (probabilmente) solo prima dell’emergere del sovrappiù (Diamond 1997).
Col sovrappiù emergono il conflitto per la sua appropriazione e dunque le diseguaglianze,
ed anche lo scambio fra le diverse comunità delle quote superflue del
rispettivo sovrappiù (superflue dal punto di vista di chi controlla
quest’ultimo).
[2] Robertson era famoso per le citazioni da Alice.
Quella in apertura è ripresa, appunto, dal saggio di cui parliamo.
[3] Miracolosamente il centro sociale in oggetto
tira avanti con soddisfazione, certo da ultimo in virtù di un gruppo più o meno
ampio di volenterosi, ma comunque con lamentele continue su chi sfrutta la
buona volontà altrui. Fra i volenterosi le motivazioni sono poi le più varie:
dai più leninisti che desiderano spargere i semi della rivoluzione (e che
dunque forse soffrono meno sentendosi avanguardia), a chi lo fa semplicemente
per rendere più vivibile il quartiere dove vive, a chi cerca esperienze di condivisione.
Si tratta di “sperimentazioni sociali” che andrebbero comunque sostenute dagli
enti locali.
[4] Azzardo ad affermare che la medesima
problematica si applicherebbe se si usassero prezzi alla Sraffa. Si
ragionerebbe tuttavia su una teoria meglio fondata.
[5] Foley assimila gli esempi della NEP sovietica
(il periodo post-rivoluzionario in cui Lenin suggerì di affidarsi al sistema
dei prezzi) alla politica di Deng Xiaoping, l’artefice dell’apertura della Cina
Popolare al mercato. Giacché (2017) si addentra nelle difficili scelte di Lenin
nei primi anni della rivoluzione.
[6] Anche sul piano delle gerarchie il capitalismo
può apparire più efficiente. Le innovazioni organizzative si basano infatti su
rendere i flussi informativi quanto più efficienti e bottom-up, mentre sono piuttosto le decisioni conseguenti a
essere top-down. La gerarchia
pianificatoria rende invece informazioni e decisioni entrambe top-down.
[7] Ernesto Screpanti (2007) si addentra in alcuni
di questi problemi in Marx.
[8] “Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo
la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo pausa pausa ritmo lento,
pausa pausa ritmo lento...” (Del Re
Enzo, LP Il banditore, 1974)
[9] Non saprei dire quanto dell’occupazione sia
effettivamente giustificata da ragioni produttive.
[10] Ringrazio Meri Lucii e la compianta Federica Roà
per alcuni suggerimenti in merito basati sula traccia di alcuni documenti
inediti di Garegnani (che a sua volta ne aveva discusso con Sraffa).
[11] Il capitalismo ha anche affinato il controllo
dell’impegno dei lavoratori attraverso l’organizzazione scientifica del lavoro
(Braverman 1974). E’ vero che il socialismo potrebbe adottare tali metodi (e
probabilmente l’avrà in certa misura fatto), ma senza la minaccia di
licenziamento ogni misura sarà inefficace.
2 commenti:
La robotica sicuramente darà delle risposte a questi problemi e anche in relativamente breve termine. La questione in questo caso però è: quali saranno le priorità? A chi andranno i vantaggi?
In questo articolo si afferma che il mercato fornisce più e migliori informazioni in merito alla domanda dei bisogni rispetto alla programmazione centralizzata e per questo risulterebbe migliore o preferibile. L’errore che si sta commettendo (basta osservare la società contemporanea) è quello di ritenere e accreditare che le informazioni che il mercato fornisce siano oggettive e figlie di reali esigenze e bisogni del popolo dimenticando e omettendo che il mercato non è mai libero né autonomo ma è sempre l’espressione di interessi e convenienze di una predatoria e senza scrupoli élite che lo ha da sempre usato come strumento per condizionare e indirizzare scelte e visioni sociali e politiche contro le classi “inferiori”. Il tombale errore compiuto, come ormai accertato, risiede nell’aver voluto impostare la “dottrina” economica socialista sulla dicotomia mercato-pianificazione in quanto né l’una né l’altra sono idonee e appropriate per la costruzione e la realizzazione del sogno socialista. Il mercato ne mina alla base le fondamenta e l’essenza. La programmazione centralizzata lo rende incapace e inadatto a capire e rispondere puntualmente ed efficacemente alle giuste aspirazioni morali ed economiche che salgono e si sviluppano alla sua base. Occorre uscire da questa “terra economica di nessuno” in cui ci siamo rinchiusi e smarriti tramite una proposta politico-economica che annulli e superi queste due opzioni ed essa è la DEMOCRAZIA ECONOMICA perché in questa, in modo dialettico, senza antagonismo, possono convivere e svilupparsi sia la “dittatura del proletariato” che la giusta e necessaria “raccolta di informazioni” per gestire in modo appropriato il giusto stimolo che si deve avere per migliorare ed elevare la propria condizione sociale e la realtà in cui si vive e si opera senza minimamente intaccare o annacquare i propri principi di riferimento rimanendo così irricevibile perché non “esorcizzabile” dall’etica liberale madre di quell’odioso mostro politico e sociale che va sotto il nome di capitalismo.
Pasquino55
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