[ 29 novembre 2017 ]
Volentieri pubblichiamo questo contributo di Porcaro e Boghetta. Essi svolgono dei ragionamenti pienamente condivisibili, sia riguardo al pantano strategico in cui si dimena la "sinistra radicale", sia riguardo ai profondi limiti politici dell'iniziativa di Je so' Pazz' di mettere su una lista elettorale di sinistra-sinistra —che sostituisce il vecchio simbolismo identitario con una sindacalismo sociale movimentista privo di strategia politica.
Porcaro e Boghetta, escludono quindi che ci sia la possibilità di costruire una lista elettorale del sovranismo costituzionale.
Qui non siamo d'accordo. Una finestra invece è ancora aperta. Ne parleremo nei prossimi giorni...
Volentieri pubblichiamo questo contributo di Porcaro e Boghetta. Essi svolgono dei ragionamenti pienamente condivisibili, sia riguardo al pantano strategico in cui si dimena la "sinistra radicale", sia riguardo ai profondi limiti politici dell'iniziativa di Je so' Pazz' di mettere su una lista elettorale di sinistra-sinistra —che sostituisce il vecchio simbolismo identitario con una sindacalismo sociale movimentista privo di strategia politica.
Porcaro e Boghetta, escludono quindi che ci sia la possibilità di costruire una lista elettorale del sovranismo costituzionale.
Qui non siamo d'accordo. Una finestra invece è ancora aperta. Ne parleremo nei prossimi giorni...
La
sinistra Subbuteo e la vera partita del paese
di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta
Il Brancaccio è fallito. Meno
male. Forse qualcuno la smetterà di tentare di aggregare gli sconfitti usando
le stesse parole d’ordine che hanno causato la sconfitta stessa. Forse qualcuno
la smetterà di credere che la proposta dell’unità della sinistra sia il
sostituto efficace di una vera strategia politica, quando per la maggior parte
del popolo italiano “sinistra” significa per lo più delusione e liberismo. Il
Brancaccio è fallito e questo, nel piccolo mondo della sinistra radicale, può
essere un piccolo evento salutare perché impedisce che tutta quella sinistra si
attacchi da subito al carro dei D’Alema e dei Bersani, e si presti perciò a
fare la forza di complemento per i vari governi d’emergenza che dovranno
garantire l’ “europeismo” del paese, e quindi la sua subordinazione al
liberismo. E perché dopo il fallimento qualcuno ha pensato di reagire.
Roma 18 novembre: l'assemblea promossa da Je s' pazz' |
Cosicché, dall’assemblea romana di Je so’pazz’, da Rifondazione, dal Partito Comunista,
da diverse realtà di base e singoli militanti è emersa l’esigenza di formare
una lista popolare per le prossime elezioni. La reazione è comprensibile e
positiva, e addirittura, in qualcuno degli interventi in cui si è espressa, è
accompagnata da qualche sortita dal linguaggio abituale e da qualche
significativo spostamento in
direzione anti Ue. Tanto che Eurostop, l’organizzazione di sinistra che con
maggior impegno ed efficacia lavora per una rottura dei vincoli europei, ha
accettato l’invito a discutere della fattibilità politica e tecnica della lista
elettorale.
Ora, noi siamo da sempre
sostenitori della necessità di presentare una lista (ed ancor prima un
progetto) di lealtà costituzionale e recupero della sovranità in funzione e
condizione di una rottura con le politiche neoliberiste, e crediamo che se
qualcuno oggi volesse eludere il problema delle elezioni invocando la necessità
di partire dal basso, dal “sociale”, indicherebbe una strada sbagliata, perché
l’assenza di mobilitazione sociale è oggi in buona misura spiegabile proprio
con l’assenza di prospettiva politica. E perché lo stesso lavoro di radicamento
di massa richiede un impegno talmente grande (dovendo essere fatto nelle forme
del mutualismo, del “partito sociale” e così via) da poter essere gestito
soltanto da gruppi politici di una certa forza e di una certa dimensione: forza
e dimensione che potrebbero aumentare a seguito di una prima vittoria politica
dopo decenni di sconfitte.
Ciononostante crediamo che la
proposta di costruire oggi, in
funzione delle elezioni di domani,
una simile lista, arrivi davvero troppo
tardi perché c’è pochissimo tempo e bisogna superare moltissimi ostacoli,
che si riassumono semplicemente nella presenza diffusa di un sinistrismo che condannerebbe la lista
al famoso Zero Virgola rendendo molto più difficile ogni mossa successiva. Un
sinistrismo che consiste nel parlare di democrazia partecipata a chi non ha
tempo e risorse per partecipare, di parlare di
conflitto a chi non si trova
nella posizione per farlo, nel parlare solo di accoglienza e di apertura a chi
ha legittimamente paura che il mondo gli sia completamente ostile, nel parlare
di classe quando la gran parte dei lavoratori occupati ed organizzati è al
momento conservatrice, e la gran parte delle masse del quasi-lavoro si
percepisce, se va bene, soltanto come popolo. Un sinistrismo che finirebbe in
realtà solo per parlare a se stesso: come sempre. Un sinistrismo che riesce
anche ad annacquare il riferimento alla Costituzione insistendo sull’aspetto
della sovranità popolare per nascondere quello della sovranità nazionale, che è
invece condizione di possibilità del primo. Un sinistrismo, infine che inchioda
numerosi e validi militanti all’impotenza perché li costringe a ristagnare in
un linguaggio che è una variante estremista del discorso delle élite
globaliste: meno stato, niente nazione, poca politica e tanto progresso;
nessuna rottura puntuale e localizzata del potere, nessuna riconquista della
possibilità della politica nell’unico spazio possibile, quello nazionale. Con
questo linguaggio una lista di presunta “vera sinistra” si condannerebbe a dire
cose che agli elettori parrebbero uguali a quelle dei D’Alema e dei Fratoianni,
solo dette in maniera più incazzosa. Un misto di estremismo verbale e moderatismo
nei contenuti che spiega gran parte della triste irrilevanza politica di
quest’area.
Ora questo sinistrismo comincia a
scricchiolare, qualcuno comincia a parlare a ragion veduta di popolo, qualcuno
si decide a fare il passo anti Ue, e tutto ciò, in un’ottica di medio periodo,
è da considerarsi assolutamente positivo. Ma la partita oggi si gioca nel breve
periodo, che diventa brevissimo se si considera che il lavoro da farsi è
soprattutto di carattere culturale, e si riassume nella necessità di accettare pienamente la dimensione nazionale
dell’azione (se Mélenchon e Corbyn hanno avuto qualche successo è anche
grazie a questa scelta) vedendola non soltanto come una dura necessità ma come
un’opportunità. Non è certo con
artificiosi e verbosi compromessi sulla questione dell' ”Unione dei Trattati”
che si risolve il problema di cambiare l'impostazione rispetto alle esperienze precedenti: ultima la lista
Tsipras. In questo cono d'ombra il programma diventa inevitabilmente la solita
lista della spesa a cui manca proprio la condizione sine qua non per attuarla.
E non serve a molto risolvere il problema con frasi scarlatte inneggianti ad un
vago potere al popolo. Nel mondo degli imperialismi nazionali
novecenteschi era giusto essere antinazionali –anche in quell’epoca, però, il
discorso mutava quando si trattava di nazioni oppresse. Ma quando, come oggi,
l’imperialismo della “triade” occidentale agisce attraverso la distruzione
delle nazioni (delle nazioni subalterne, ovviamente); quando il sud d’Europa è posto
in una condizione – inedita in Occidente – di dipendenza strutturale e permanente nei confronti del Nord; quando
tale dipendenza rende inevitabile la
compressione dei salari e del welfare;
quando tutto questo accade
l’autonomia di classe si lega strettamente all’autonomia nazionale. E la
rivendicazione della sovranità nazionale diviene condizione necessaria, pur se
insufficiente, sia della ripresa di un efficace conflitto di classe, sia del
progresso civile del paese. Ma anche di
contrasto al crescere della destre ed alle giravolte del M5S.
La dimensione nazionale della
nostra iniziativa deve quindi divenire un nostro tratto distintivo, deve essere valorizzata nella battaglia
culturale e nello scontro elettorale. E non soltanto perché questo ci consente
di costruire più facilmente una vasta rete di alleanze sociali col pulviscolo
delle partite Iva, coi piccoli e medi imprenditori, ecc.. Prima ancora, e
soprattutto, c’è il fatto che la stessa unificazione dei lavoratori, data la
dispersione sociale e culturale della classe, non può avvenire che attraverso
il richiamo all’appartenenza comune ad un paese che è retto da una Costituzione
lavorista e tendenzialmente socialista, possibile argine contro il liberismo
dell’Unione. Insomma: nei nostri comizi dovremmo mescolare bandiere rosse e
bandiere tricolori (e questa è ancora una proposta moderata: guardate i video
dei comizi di Mélenchon…). Siamo capaci di farlo, oggi? A nostro parere no. Anzi, il trasformismo di alcuni propone di
nascondersi dietro la foglia di fico di Mélenchon e Podemos fingendo di non
capire, o non capendo davvero, che la cifra del loro successo è proprio la
dimensione nazionale, il patriottismo democratico!
Allora, se non siamo ancora in grado di raggiungere queste
consapevolezze, diamo tempo al tempo. Iniziamo già da oggi il lavoro, ma
avendo in mente soprattutto la scadenza delle elezioni europee (2019) e
considerando che dopo le esose richieste che la Commissione europea ci
presenterà a primavera, sarà più facile stracciare gli ultimi residui di
europeismo e lavorare per convergenze unitarie. Dunque, si apra subito il
confronto, valorizzando al massimo le novità del momento. Ma lo si finalizzi
alle elezione europee e, soprattutto, lo si basi su precise direttrici di
metodo e di contenuto.
Quanto al metodo deve trattarsi
di un confronto a tutto campo e coinvolgere, oltre ai già noti, i compagni della Confederazione diLiberazione Nazionale e l’area nella quale agiscono, la Lista di Popolo di Chiesa ed Ingroia, l’interessante esperienza di Senso Comune, le variegate componenti
del sovranismo costituzionale, lo stesso composito movimento di De Magistris.
La gran parte di queste forze può e deve convergere in una prospettiva
nazional-democratica, e soltanto da questa convergenza può nascere una proposta
politico-elettorale credibile: ma è chiaro che più largo è lo spettro delle
forze interessate, più lungo è il processo di mediazione.
Quanto ai contenuti, per avere
una minima possibilità di successo e per costituire il punto di partenza di una
più ampia aggregazione una lista dovrebbe darsi almeno i seguenti punti programmatici:
1) Dignità del lavoro/ dignità del paese. Il problema del lavoro si risolve
soltanto con un programma di piena occupazione sostenuto da un intervento
pubblico e da imprese e banche pubbliche (con la retorica dei beni comuni non
si crea piena occupazione). Ma un tale programma è incompatibile con la
sottomissione del paese ai vincoli dell’Unione europea e nell’Unione monetaria.
2) Sovranità popolare/sovranità nazionale. Il rafforzamento del settore pubblico
rappresenta un importante momento di attuazione della sovranità popolare perché
funge da contrappeso al potere dei
mercati. Una tale sovranità deve attuarsi anche nei confronti dello stesso
settore pubblico, prevedendo forme di intervento diretto delle associazioni
popolari nella definizione dei suoi indirizzi e nel controllo del suo
funzionamento. Ma la
riaffermazione della sovranità popolare è frase vuota se non si coniuga con la
riaffermazione della sovranità nazionale, che è il presupposto dell’efficacia
delle decisioni popolari, e quindi con la rottura dell’Unione europea.
3) Rifinanziamento e ripubblicizzazione
del welfare. Non è
sufficiente superare la scarsità di mezzi a cui il liberismo condanna il
welfare pubblico, bisogna anche ridurre tutte le forme di erogazione privata
dei servizi sociali e tutte le forme di precarizzazione del lavoro che esse
comportano. Anche se tutto ciò urta contro gli interessi materiali di una parte
non piccola della sinistra che ha cogestito la privatizzazione scambiandola per
socializzazione della sfera pubblica.
4) Sicurezza. Ebbene sì: sicurezza per tutte e
tutti, per bianchi e per neri. E’ un tema vissuto come decisivo dai ceti
popolari e dunque deve essere decisivo anche per noi. Non si tratta di
“inseguire la destra sul suo terreno”, ma di riprenderci un terreno che deve
essere nostro. Sicurezza contro le turbolenze guerreggiate mondiali,
sviluppando una politica internazionale di pace. Sicurezza contro la miseria,
puntando su lavoro e welfare. Sicurezza contro la criminalità ed il degrado,
sia facendola gestire direttamente dagli abitanti dei quartieri attraverso la
riconquista e la cura degli spazi pubblici, sia ampliando e riqualificando gli
organici delle forze di polizia, utilizzandoli con funzione di mediazione
sociale invece che di ordine pubblico.
5) Regolarizzazione e regolazione
dell’immigrazione.
Dobbiamo renderci conto che la giusta e necessaria regolarizzazione degli
immigrati (fondamentale anche per una positiva gestione del mercato del lavoro)
implica una regolazione del flusso dell’immigrazione senza la quale (se, come
tutti prevediamo, questo flusso assumerà necessariamente dimensioni sempre
crescenti) verranno a mancare le risorse economiche, sociali e politiche per la
regolarizzazione stessa. Anche in questo caso non si tratta di inseguire la
destra sul suo terreno. Si tratta di dire la verità: nessun paese, tantomeno un
paese come il nostro, può pensare di non regolare in alcun modo i flussi.
Nessun governo, nemmeno un nostro
governo, potrebbe evitare di farlo. Non si tratta di imitare Minniti, si tratta
quanto meno di porsi il problema. Parlando solamente di accoglienza perderemmo
il contatto con la gran parte della nostra gente, e lo perderemmo per non aver
detto cose… che saremmo poi costretti a fare se fossimo al governo. Un vero
paradosso che può essere superato con la proposta convinta della coppia
regolarizzazione/regolazione.
6) Nuova collocazione internazionale
dell’Italia. Tutto
quanto sopra ha un senso ed è possibile soltanto se l’Italia esce dalla propria
collocazione euroatlantista e partecipa alla costruzione di un’area di
cooperazione economica e di pace (iniziando ad eliminare le atomiche dal
proprio territorio) che possa costituire una terza forza nello scontro tra
Occidente e Oriente. La rottura con l’Ue deve essere accompagnata da subito con
una proposta di nuova alleanza fra gli stati del continente fondata questa
volta su un patto politico che espressamente rifiuti una soluzione bellicista e
la prosecuzione del mercantilismo che ha accresciuto le diseguaglianze, gli
squilibri e la tendenza alla guerra. Rapporti con la Russia, la Cina e col
complesso dei Brics devono divenire asse normale dello sviluppo del paese. Così
è, ovviamente, per il ruolo nel Mediterraneo. L’obiettivo non può essere tanto,
o immediatamente, quello della collaborazione con stati orientati al
socialismo, quanto quello della collaborazione con stati che intendano
sottoporre a controllo politico i movimenti del capitale e intendano accettare
una regolazione degli scambi che non si traduca nella deflazione competitiva a
danno dell’occupazione e dei salari.
Siamo sicuri che intorno a questo
asse si possa costruire non soltanto una lista, ma, progressivamente, quella
vera e propria coalizione costituzionale di cui questo paese ha bisogno (e che
potrebbe anche essere lo spazio migliore per far crescere una autonoma presenza
comunista). Siamo sicuri che dicendo queste verità si possa ottenere un buon
consenso, quantomeno il consenso necessario a porsi ulteriori obiettivi di
crescita politica. Così come siamo sicuri che la ripetizione del nostro solito
frasario umilierebbe le nostre migliori idee e ci condannerebbe ad arrestare
sul nascere un cammino che potrebbe invece portarci molto lontano. Servirebbe
solo a regolare i conti nel nostro piccolo cortile, quando il campo della
nostra azione potrebbe e dovrebbe essere molto più vasto. Sarebbe come restare
a casa a giocare a Subbuteo fra amici quando si potrebbe giocare una partita
vera.
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