[ 4 marzo ]
«C’è oligarchia quando
sovrani sono coloro che detengono la ricchezza. Democrazia, al contrario,
quando sovrani sono coloro che non possiedono molte ricchezze ma sono gente di
modeste condizioni».
Aristotele, la Politica (Τὰ πολιτικὰ)
Numerose sono state, con l’avvento dell’ultima
fase del capitalismo —quella che va sotto il nome di
“globalizzazione neoliberista”— le
trasformazioni sistemiche in seno alle società occidentali, quella italiana
inclusa.
Dei cambiamenti relativi alla sfera
economica (in particolare il processo di iper-finanziarizzazione o capitalismo-casinò), come pure di quella
sociale (nuova configurazione delle classi sociali), ci siamo occupati in più
occasioni.
Viene subito una prima domanda: aveva ragione
Marx nel sostenere che a mutamenti profondi della struttura economica e sociale corrispondono
necessariamente modificazioni nella sovrastruttura politica e istituzionale, quindi
dei sistemi politici?
Sì, indubbiamente aveva ragione.
Se è così sorge una seconda domanda: che tipo
di metamorfosi hanno subito i sistemi politici occidentali?
Risposta: alla smisurata concentrazione di ricchezza nelle
mani di una ristretta minoranza neo-capitalista (quella che abbiamo chiamato “nuova
aristocrazia finanziaria”) ha corrisposto una altrettanto radicale
verticalizzazione della sfera politica, l’occupazione dei luoghi politici di
comando da parte di ristrettissime élite politiche vassalle dell’aristocrazia
di cui sopra —il neologismo inglese governance
sta per questa modalità per cui i luoghi di decisione politica non sono più le
assemblee elettive bensì cenacoli composti da clientes tenuti ad un patto di sudditanza rispetto ai loro patroni. Un processo, quest’ultimo, reso
possibile dall’occupazione dispiegata da parte dei grandi paperoni di tutti i
grandi mezzi di comunicazione di massa.
Anche in Europa ha finito per
prevalere, in parallelo al consolidamento dell’Unione europea, il modello
politico nord-americano. Da sistemi democratici, per quanto capitalistici,
siamo piombati, vista la concentrazione a livello continentale dei poteri
esecutivi, in regimi oligarchici, anzi, ultra-oligarchici.
Vogliamo essere più precisi: siccome
il processo unionista è venuto imponendosi seguendo la falsariga del paradigma
ordoliberista, e con la moneta unica come chiave di volta, esso ha addirittura
radicalizzato l’oligarchismo d’oltre oceano, e questo sotto due aspetti.
Il primo è consistito nel trasferimento di
sostanziali poteri esecutivi propri degli Stati-nazione ad organismi tecnici sovranazionali
che operano senza legittimità democratica e ubbidiscono in prima istanza agli
interessi della aristocrazia finanziaria continentale e globale.
Il secondo: a questa perdita di sovranità
degli Stati-nazione (nel caso greco possiamo parlare di vero e proprio
protettorato coloniale), ha corrisposto la trasformazione delle élite politiche
nazionali in appendici e protesi degli organismi burocratici.
Il regime politico in cui siamo
intrappolati non è quindi solo oligarchico, è anche tecnocratico.
Non si è trattato soltanto di una “alterazione”
dei sistemi di democrazia costituzionale, ovvero di modificazioni solo formali,
ma di una vera e propria metamorfosi contro-democratica —quindi non meramente
post-democratica.
[In Italia questa degenerazione
oligarchica è venuta consolidandosi col passaggio dalla “prima” alla “seconda”
Repubblica —di cui le “riforme” renziane sono il momentaneo punto di approdo].
E’ quindi cambiato profondamente il
campo da gioco dove si svolge la lotta politica, e con esso sono mutate modalità
e regole stesse di questa lotta. Per sommi capi: (1) il crollo del “socialismo
reale” non ha soltanto portato un colpo letale al movimento comunista e operaio e all’idea stessa della rivoluzione, ma anche alla politica fondata su
visioni del mondo. Col “pensiero unico” si è affermata l’idea della politica
come tecnicità, come amministrazione ottimale dell’esistente. (2) E’ giunta a
consunzione la tendenza storica che ha caratterizzato la storia recente: quella
alla partecipazione diretta e di massa alla battaglia politica. Non più i
luoghi di lavoro, di studio e di vita sono i teatri della battaglia politica. Tv
prima e (anti)social network dopo sono diventati i soli luoghi in cui le masse
fanno esperienza politica —de facto
luoghi di disattivizzazione. (3) Alla polverizzazione sociale (“società liquida”)
ha corrisposto una verticalizzazione della sfera politica, segnata dal distacco
tra rappresentati e rappresentanti, dallo scollamento senza precedenti tra
elettori ed eletti, tra base e vertici dei partiti. Se prima, al netto dei
processi di burocratizzazione, i partiti si legittimavano per dare forma a
spinte sociali che provenivano dal basso, dai corpi sociali, oggi la dialettica
è capovolta: è dall’alto verso il basso che scende la politica. (4) Venuta
meno, nella sfera politica, la dimensione ideale, simbolica e filosofica, con
la vittoria del “pensiero unico”, ha finito per diventare senso comune che non
esistano più né destra né sinistra. Ciò che è una delle varianti della sindrome
T.I.N.A. (There Is Not Alternative)
Del “populismo”
Il nuovo campo da gioco e le sue
nuove regole non potevano non avere decisive ripercussioni sulle dinamiche che
sottostanno alla costruzione del consenso e della rappresentanza politica. Gli
stessi nuovi partiti/movimenti sorti negli ultimi vent’anni, per poter entrare
nel campo da gioco, per ottenere consenso di massa, hanno dovuto adattarsi all’ambiente,
mimetizzarsi, imitare le modalità élitarie.
I partiti politici non sorgono mai come
astratto riflesso di dati interessi materiali, in diretta corrispondenza a
questa o quella classe. Non solo la visione del mondo di chi li fonda ha la sua
decisiva importanza. Essi sono anche il risultato dei condizionamenti dell’habitat
in cui sorgono, del campo da gioco in cui si calano, e quindi delle regole del
gioco stesso.
Tuttavia questi nuovi partiti/movimenti,
proprio per strappare consensi ed imporsi come protagonisti del campo da gioco,
non potevano che nascere in opposizione all’ordinamento oligarchico.
Le forme di resistenze alla deriva
oligarchica e tecnocratica hanno assunto forme peculiari a seconda dei
differenti contesti nazionali e sociali. Una divaricazione salta agli oggi:
mentre nell’Europa centrale, orientale ed in parte settentrionale, queste resistenze —anti-oligarchiche, anti-elitarie ed anti-mondialiste— vanno assumendo i panni di un sovranismo
reazionario, in quelli meridionali (dalla Grecia al Portogallo, passando per
Italia e Spagna), questo sovranismo, per quanto spurio e inconseguente, ha invece connotati democratici, erede di almeno tre tradizioni ideologiche: quella
liberale, quella socialista e quella della nuova sinistra sorta col ’68.
La reazione della setta
tecno-oligarchica e ordoliberista contro tutte le forze sociali e politiche
oppositive è stata ed è dura, frontale. Essa si declina in modi differenti —la
sorte toccata a SYRIZA non è la medesima di quella che tocca al governo
ungherese di Viktor Orban o a quello polacco di Beata Szydlo (e non è un caso)—
ma l’accusa, usata come anatema, è unica: “POPULISMO”.
Populista in Spagna è Podemos, in
Portogallo lo sono le sinistre radicali che respingono l’austerità. In Francia
il Front National. In Gran Bretagna populisti sono bollati l’UKIP di Farage, i conservatori anti-Ue come pure la sinistra laburista. In Germania lo è l’AfD che contesta la moneta unica.
Come populisti sono condannati tutti i partiti, dall’Olanda alla Svezia, i cui
segni distintivi sono la xenofobia e l’islamofobia. In Italia sono bollati come
populisti la Lega Nord di Salvini ed il Movimento 5 Stelle.
Si tratta di una vera e propria
crociata contro chiunque, a torto o a ragione, da destra come da sinistra e dal
centro, contesti i dogmi ordoliberisti e, soprattutto, l’Europa
tecno-oligarchica, la mondializzazione e la confisca delle sovranità nazionali
e popolari.
L’uso descrittivo dell’aggettivo “populista”
che compie il gregge degli intellettuali, dei giornalisti e dei politologi
prezzolati è solo la foglia di fico dell’uso prescrittivo. Chiunque si opponga
all’ordine di cose esistente e alla “governance ordoliberale” è sputtanato come
“populista”, additato al pubblico ludibrio come un demagogo che fa leva sulla “pancia
e gli istinti delle masse”; bollato quindi come avventuriero irrazionale, come nemico
della modernità. Demonizzato come il nuovo “male assoluto”, addirittura hitlerizzato,
ciò che è funzionale al suo annientamento, oggi con il fuoco di sbarramento della
diffamazione, domani con quello ben meno immateriale della forza.
Questa crociata esprime come meglio
non si potrebbe non solo il disprezzo delle masse popolari da parte delle élite
dominanti. Essa esprime una vera e propria paura delle masse le quali, nei
populismi, hanno trovato, date le circostanze, i canali per manifestare
indignazione e protesta contro le crescenti diseguaglianze sociali e le
oligarchie dominanti, ovvero trovato la via della loro ripoliticizzazione.
In effetti, di contro all’apatia
indotta e voluta da chi comanda, i populismi sono stati il veicolo di un
generale risveglio, per quanto ancora solo passivo e delegato, dei popoli e,
entro essi, anzitutto dei ceti e delle classi sociali che, dopo essere stati
colpiti da decenni di globalizzazione, sono stati maciullati dalla grande crisi —proletari a vario titolo, gioventù
precarizzata, ceti medi pauperizzati, capitalisti espulsi dal mercato, ecc.
«Il populismo non è un fenomeno degenerativo dei sistemi democratici, è la forma politica che la lotta di classe assume nell’era dell’economia finanziarizzata e globalizzata e della conversione liberista di tutte le élite tradizionali».
In conclusione
(1) Le stesse forze
genuinamente democratiche e rivoluzionarie, quelle mosse dai più nobili fini
etici e che non considerano i cittadini clientes,
non hanno scampo, saranno bollate dalle sette neoliberaliste come “populiste”,
condannate all’ostracismo.
(2) Ma di necessità esse
possono e debbono fare virtù. Il disprezzo delle élite è in verità non solo il
prezzo da pagare, esso è di buon auspicio nella prospettiva di una “andata al
popolo”.
Queste forze genuinamente
democratiche e rivoluzionarie sono costrette ad agire come “populiste”. Non
parliamo tanto di questa o quella modalità, ma del fatto stesso che sono
obbligate ad agire dall’alto per andare verso il basso. Il primo loro compito è
quindi quello, compresa la fase politica e stabilita una strategia, di
costruire un centro propulsore potente, un comitato di irradiazione di poche idee forti. Un
centro, una direzione politica che non solo
educhi i propri militanti, ma sappia costruire, sperimentandole, pratiche e
modalità di una nuova attivizzazione delle masse. Con ciò questo centro
politico starà fattivamente modellando, a partire dalle sue prime linee, il
popolo stesso.
Ciò di cui abbiamo bisogno,
oggi, nel nostro Paese, è quello che abbiamo chiamato “bolivarismo all’italiana”,
un partito/movimento che riesca a portare a fusione, ad includere nel suo seno,
le diverse correnti di pensiero che fanno della giustizia sociale — quindi di
un’eguaglianza reale e non solo formale— la loro stella polare, il principio
a cui incardinano la loro visione del mondo. Parliamo ad esempio dei filoni comunista e socialista, di quello del cattolicesimo di base, del liberalismo democratico-repubblicano.
Quelle correnti di pensiero le cui idee solo in parte sono confluite nella Costituzione —non a caso inapplicata.
Si tratta di correnti che hanno
radici storiche profonde, che non sono riusciti a sradicare. Su queste radici
si può avviare un nuovo inizio. A condizione, come detto, che venga presto alla
luce un gruppo pensante che con coraggio sappia fungere da elemento
catalizzatore.
5 commenti:
"a mutamenti profondi della struttura economica e sociale corrispondono necessariamente modificazioni nella sovrastruttura politica e istituzionale, quindi dei sistemi politici...Il regime politico in cui siamo intrappolati non è quindi solo oligarchico, è anche tecnocratico.... si è affermata l’idea della politica come tecnicità"
Direi che i mutamenti sociali sono profondamente legati ai mutamenti tecnologici. Ad esempio pare che la caduta del muro sia da imputare al rilancio da parte di Reagan dello scudo spaziale. La truffa reaganiana costò 44 miliardi di dollari ed i "sostenitori dello SDI -Strategic Defense Initiative- riconoscono in esso il merito d'aver contribuito o almeno accelerato la caduta dell'Unione Sovietica col meccanismo della strategia del surclassamento tecnologico" (wiki)
Quindi concluderei dicendo che ad ogni mutamento tecnologico corrisponde un mutamento sociale, quindi politico.
Si parla troppo spesso di questioni economiche (totofinanza) ma queste sono possibili solo grazie a specifici tecnicismi, con un rimando costante a dettagli sempre tecnici. Senza di essi non sarebbe possibile nessuna variazione sociale, quindi politica. La prova più evidente è la stabilità assoluta delle società umane nel paleolitico: senza aspetti tecnici come l'aratro non c'è stato bisogno di concetti e prassi come surplus alimentare e quindi caste e società piramidali.
Tonguessy, ti quoto al ciento pì ciento.
A patto di condividere anche un'altra riflessione: la direzione del progresso tecnico-scientifico non è un dato neutrale, ovvero non è affatto vero che la natura è fatta in un dato modo e quindi l'uomo deve solo scoprire come funonzia. Al contrario, IMHO, la natura offre infinite possibili "scoperte", ma l'uomo "scopre" quelle nella cui direzione indaga. E ciò è determinato dall'indirizzo che si dà alla ricerca scientifica, normalmente funzionale agli interessi dei dominanti.
Per i "non Tonguessy": per come la vedo io la realtà è soggettiva, non oggettiva. Ovviamente "soggettiva" non significa "visione individuale", bensì "visione collettiva". Il "pensante" essendo costituito da tutti gli esseri dotati di intelletto. Al nostro livello "esistenziale", questo soggetto è il popolo nel suo insieme. Dunque la direzione del progresso tecnico-scientifico dipende da chi comanda: il popolo, o una parte di esso (le élites). Da ciò segue che solo restituendo il potere al popolo, cioè democratizzando la direzione del progresso tecnico-scientifico, questa potrà tornare ad essere funzionale agli interessi dei più.
In sintesi: il problema non è tecnico, ma politico.
p.s. Sono oscuro? Perdonami. Questa sera ho "adottato" una bottigliozza" che mi sono scolato nella dolce solitudine del mio studiolo.
La rivoluzione dell' agricoltura ha segnato più di ogni altra rivoluzione tecnologica la nascita della società moderna basata sulla difesa del territorio e sulla specializzazione delle attività umane, ma il cacciatore-raccoglitore non è scomparso, resta nascosto pronto a predare in ognuno di noi.
Purtroppo ci sono anche gli aspetti negativi del populismo, che non sono quelli stigmatizzati dal mainstream in funzione di contrasto, ma quelli reali della incapacità di una visione d'insieme, perfino inferiore a quella del sistema vigente.
In ogni sua forma, di "destra" o di "sinistra", queste forze politiche emergenti non raggiungono quel minimo di coerenza interna per configurare un disegno politico di lungo termine, che configuri un sistema veramente alternativo all'esistente.
La pancia va bene, ma quando nutre la testa. Se l'energia si ferma prima, ai primi segni di sollievo, ricadiamo giocoforza nelle logiche animalesche, e quindi nei rapporti di forza bruta, che vedono le masse necessariamente sconfitte in barba all'idea di autentica democrazia. Così è sempre stato da che mondo è mondo, ma il problema è che questo mondo sta girando irreversibilmente, causa la tecnologia che si impone con tutta la sua forza innovatrice, e questo fenomeno epocale richiede il meglio della testa, non un suo surrogato drogato. Lo richiede in forza del movente primario della sopravvivenza stessa, un problemino che ha i suoi tempi ristretti per essere risolto. Se il populismo è solo il primo passettino allora va bene, se invece si adagia sui primi allori la seconda possibilità (muerte) diventa assai concreta.
caro Alberto,
e certo che ci sono "aspetti negativi" del populismo, che sono anche più gravi di quelli che indichi.
Mi sembra di aver detto che siamo obbligati a giocare in un campo che è quello imposto dalla fase storica (e dal nemico), ma dobbiamo giocare con un programma ed una strategica precise. Altro che... "pancia".
Ma senza sapere toccare certe corde (la pancia), senza suscitare emozioni, la fredda politica non va da nessuna parte.
Ed è chiaro che ci sono emozioni ed emozioni: alcune sono maligne ed occorre contrastarle, altre benigne, e occorre alimentarle.
Moreno Pasquinelli
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